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La bilancia del mondo

Ogni giorno spingiamo il mondo da una parte o dall’altra; ogni giorno qualunque uomo, anche chi sembra non pesare affatto sui destini universali, si sveglia e può scegliere con la sua condotta se porre la pietruzza di un grammo sul piatto del bene o sul piatto del male. Sembrerà niente, ma talvolta sono i grammi, gli insignificanti frammenti delle pietruzze, a decidere la sospensione o l’affossamento dei piatti.

La vita a Cirifàrcu era come una grande bilancia, e così Calamatrà non sapeva che quando pesava la terra da mischiare alla calce stava gravando sul piatto del mondo, Roccuzzu non immaginava che il chilo di pìpi che pesava sulla stadera apparàva la radice morta che Vicenzuzzu sradicava a Mangraviti, e Spallanzanu, ossessionato dal peso, tutte le mattine che per una monetina saliva sul pesapersone della farmacia per calcolare di quanti centesimi di grammo fosse dimagrito, non sospettava che stava pesando le sue cattive azioni sulla bilancia dell’universo. Sembrava lontana ai cirifarcùati la misura del mondo, e da questo nasceva la loro indifferenza alle cose terrene, la mendace consapevolezza di non poter modificare gli eventi terreni e influire sul corso della Storia, di poter decidere al massimo il colore della camicia o cosa mangiare a cena. E invece, se sapessero che il loro piede, appena poggia terra la mattina, ha già gravato sul piatto e dato inizio al precario gioco degli equilibri universali! Malarosa, che quando apre gli occhi la prima cosa è mandare una maledizione a Rorò, lascia un peso sul piatto nero, che si abbassa, mentre Lulù, quando suona e dispone gli animi alla bontà, lascia un sassolino sul piatto bianco. E così per tutti gli uomini del mondo. Ma chìdda matìna, a Girifalco, il peso più grosso sul piatto nero della bilancia lo lasciò cadere Caracantulu.

Dopo aver visto la mano deformata, nei giorni seguenti Lulù non era stato bene: il suo umore s’era ammaccato e s’arribbigghiàva nervoso, che l’infermiere era in dubbio se raddoppiargli la pillola. Il segno evidente della sua condizione erano i grumi di saliva che si condensavano ai vertici delle labbra. La tregua della sera prima però lo aveva meglio disposto, e anche quella mattina Caracantulu gli offrì tante di quelle gazzose che, quando Lulù s’avviò verso il circo, intorno alle undici, ne aveva bevute una decina. Luvia fu felice di trovarlo così di buon umore, e allora si chiusero nella sua roulotte fino a mezzogiorno.

Nel sangue scilinguàtu

Angeliaddu, da quando uscì dalla caserma accompagnato da màmmasa, capì che la sua vita sarebbe stata peggio di prima, che non solo le persone lo guardavano schifate, non solo la vecchia Sabbettuzza si voltò dall’altra parte, ma quando stava per imboccare la via di casa, si trovò facciaffrùnta a Rocco Marapeda, proprio a lui, presidente nella Rettoria, che ebbe l’ardire di fermarlo, incurante della presenza di Taliana, e di offenderlo a male parole sebbene màmmasa gli dicesse di smetterla. Alcuni paesani non avevano pudori con loro e li trattavano come gente di terza classe, permettendosi ogni sfrontatezza. Taliana si mangiò u fìcatu: mandò Angeliaddu a riposarsi un poco di sopra e lei si mise sul divano. Si sentiva disperata. Ripensò con odio a Rocco, alla sua strafottenza, ai tentativi inutili di Angeliaddu di rispondere, con quella sua voce bassa e quelle parole mangiate che l’ultima cosa che Marapeda disse fu che anche scilinguàtu era. Angeliaddu mio, perché tutto è andato così? È colpa mia, lo so, è colpa mia se cammini in quel modo incerto, se ti fissi a guardare gli altri come davanti a una vetrina di caramelle, come se tutti avessero qualcosa più di te, sono stata io a metterti quegli occhiali invisibili che ti fanno vedere il mondo come vorresti essere tu. Pensi che non lo so, Angelo mio, come ti senti? Pensi che non lo so perché parli in quel modo che nessuno ti capisce, con quelle parole lasciate a metà, che anch’esse desiderano di far parte del mondo ma non osano? Quelle parole che tagli, accorci, mastichi, e che vorresti sputare in faccia a tutti quelli che ti chiedono cosa hai detto? non ho capito, che ti tocca parlare di nuovo e forzarti a scandire le parole, e ogni sillaba è un passo indietro, un centimetro in più di chiusura della porta del mondo. Così insicuro, così fragile, che a volte penso che anche una pioggia potrebbe spezzarti, un vento, così me stessa, Angelo mio. Perché è tutta colpa mia, dell’aver sentito la tua fragilità fino al midollo, subito, appena nato, ed essermene fatta carico come un destino. Perché dovevi essere così, figlio mio, da tutti schivato come un cane rabbioso, erede della razza maledetta cominciata da me? Perdonami, non volevo questo per te, non avrei voluto darti questa vita, che ogni giorno spero possa accaderti qualcosa di migliore, forse lontano dal mio corpo che ti fa ombra. I nostri difetti sono insopportabili quando li vediamo cuciti e confezionati addosso alle persone che amiamo. Ci potrebbe uccidere, il dolore della presa di coscienza, e romperemmo lo specchio se non fosse che lo specchio, quel grumo di carne riflettente, è la nostra sola ragione di vita. Solo per te continuo a vivere ogni giorno, che se non c’eri tu era da mò che m’ero ammazzata.

Quella mattina, svegliatosi da sogni agitati di soprusi e ingiustizia, Angeliaddu si mìsa ncià càpu che non voleva più vedere nessuno, sentire nessuno, parlare con nessuno. Eccetto Batral: sarebbe andato al circo ma senza farsi vedere da uomo vivo, che da quella mattina in avanti sarebbe stato un fantasma per la gente che lo temeva come una carestia.

In attesa di panìculu

Entrando quella mattina alla potìga di Salvatore, Malarosa incontrò sulla porta Santina Parrasia, che aveva in mano una busta piena ma soprattutto teneva stampato un sorriso nemmeno avesse vinto alla sìsula. O forse una sìsula c’era da vincere davvero, e rispondeva alla magica sequenza alfabetica del nome Salvatore che, dopo la provvidenziale dipartita di Rorò, rappresentava il primo e ricco premio della lotteria a cui le femmine a sistemarsi di Girifalco partecipavano per diritto. E l’impressione aumentò quando la vedova senza marito trasì e vide Mirella Currìja, Rosanna Grattasòla e Francesca Tagghiòla allineate davanti al bancone come galline in attesa del granturco. E non potìa essere un caso se tutte e tre chìdde disgraziate erano due jètte e una vedova, e che addirittura la vedova aveva un fratello che tenìa una bottega d’alimentari sul Corso e che sempre da lui era andata, e mò invece, chissà perché, ma Malarosa sapeva, era arrivata fino alla Chiàzza. Na sputàta di calore colpì in faccia la femmina, che il sangue le vugghì come la salsa nello stagnàto, soprattutto quando si trovò a sistemarsi alla fine della filèra. Quelle puttane sorridevano tutte: Mirella Currìja s’era messa na camisetta scollata che pure il pizzo celeste le si vedeva, e si vascìava verso l’uomo anche quando non ce n’era bisogno; Rosanna Grattasòla aveva ancora la tinta nera dei capelli che le sculàva sul collo e Francesca Tagghiòla s’era mprofumàta che nemmeno un cespuglio di mimosa puzzava tanto. Ammiccavano tra di loro, gaddinèdde fetùse, quasi se la fossero parlata, come a dire vinca la migliore. Salvatore, dallo scranno di prosciutti e mortadelle, manco se ne accorgeva, o almeno così parìa a Malarosa, indifferente lui alle carni delle donne e invece molto più sensibile ai grammi di capicùaddu affettato o alla bilancia elettronica che pulizzava sempre dopo ogni uso. Che due erano le cose, pensò Malarosa: o Sarvatùra decide di stare vita natural durante vedovo, cosa alquanto improbabile, o ìddu si sta già guardando intorno per scegliere la sua nuova moglie in affari, e conoscendolo per quell’uomo meticoloso che era se lo immaginava ogni sera prendere la librètta delle ordinazioni e dei pagamenti a credito e nell’ultima pagina stilare l’elenco delle fìmmane jètte e vedove che potevano aspirare alla vittoria della lotteria, e il suo nome era lì, frammischiato agli altri, malgrado l’antico amore, malgrado gli anni consumati all’ombra di lui, malgrado la vita silenziosa votata alla vendetta e alla vedovanza. A Malarosa le venne una voglia irrefrenabile di dare a Francesca Tagghiòla un calcio nel culo che la facesse volare come una quaglia. Ma si trattenne mentre Mirella Currìja, con l’ennesimo inchino a mostrare le mìnne, salutava e riverava uscendo dal negozio. Malarosa si avvicinò agli scaffali dei detersivi e allineò i primi due flaconi che erano leggermente obliqui. Lo fece lentamente, per farsi notare da Salvatore. Poi vide la pianta affianco alla sedia dove s’assettàva di solito il padre di Rorò. Le foglie erano mùscie e il terriccio arso. Quando fu il suo turno che le puttanelle se n’erano andate, chiese un etto di mortadella e due panini.

“Quella pianta sta morendo”, disse mentre Salvatore era di spalle all’affettatrice.

“Avete ragione, ho dimenticato d’abbeverarla per qualche giorno. Stamattina ho messo acqua, vediamo se si riprende. Era la buonanima di mugghièrma che pensava a queste cose”.

“L’acqua non basta, ci vuole il fertilizzante giusto”.

Lo sapeva Sarvatùra che le piante sono in grado di perdere il novanta per cento del loro corpo senza morire? Che per difendersi e nutrirsi sviluppano fino a cento sensi diversi? Che le loro radici cambiano direzione quando stanno per incontrare una sostanza tossica? Che offrono caffeina alle api per indurle a tornare da loro? Lo sapeva che lei, Malarosa Praganà, per sopravvivere in quegli anni aveva vissuto come una pianta?

“A casa ne ho, se volete la prossima volta ve ne porto un bicchiere, Sarvatùra”.

Le fece un effetto strano pronunciare il suo nome ad alta voce, quel nome caro evocato come una formula magica, sgranato silenziosamente come un rosario, sognato, desiderato, nove lettere che racchiudevano tutta la sua vita, quella vissuta e quella sognata, la miseria e il suo riscatto, la parola d’ordine che spalancava le porte dell’esistenza.

“Grazie, mi dispiacerebbe perderla”.

Perché era di mugghièrta, lo so, ma adesso sarà mia quella pianta, la farò diventare verde e rigogliosa come non è mai stata, sarà mia insieme a tutto quello che è stato suo in questi anni. E tu, anche tu sarai mio.

“Vi serve altro?”.

“Ci vediamo domani”.

E pronunciò quelle parole prima di uscire come se si riferissero a un appuntamento.

Il sollievo della dimenticanza

Come i palloncini, pensò don Venanziu. Inizi a soffiarci dentro, li gonfi al limite, e quando stanno per scoppiare socchiudi le dita e fai uscire l’aria tutta in una volta e ti trovi in mano un pezzo di plastica flaccida e cascante. Come i palloncini, pensò, quando dopo essere venuto sulla pancia di Carmela Forestera, si voltò dall’altra parte. Lo assalì, come spesso accadeva, una sensazione di vuoto e quasi di disgusto per il corpo che lo aveva accolto. Chissà se era vero che per le donne funzionava diversamente, lui avrebbe testimoniato a favore, che dopo il godimento cercavano il contatto della pelle, lo abbracciavano, alcune volevano essere persino baciate, ma mai nessuna che come lui si girasse dall’altra parte o avvertisse il desiderio di stare da sola. Lui invece no: dopo essersi svuotato sentiva addosso una sensazione di fastidio, quasi malessere, inversamente proporzionale al desiderio iniziale: il massimo del piacere e il massimo del dispiacere nel giro di qualche secondo. Un po’ come succedeva nei sogni belli che lasciavano uno strascico nel dormiveglia e misuravano la pochezza dell’esistenza, che poi apriamo gli occhi e quella sensazione di fallimento svanisce. Mai come dopo aver goduto, Venanzio provava disgusto per la vita, che se quella sensazione di svuotamento fisico e metafisico fosse perdurata a lungo sarebbe stata una rovina, e invece ecco il regalo che la vita faceva agli uomini, la possibilità di dimenticare presto, di far passare i pensieri fastidiosi nel volgersi di un attimo. Carmela gli accarezzò il braccio e fu come se una salamìda gli camminasse addosso: si alzò per rivestirsi, in una camera che gli parve improvvisamente piccola e misera, e guardando verso la femmina sforzandosi di sorridere, lo sguardo si fissò sul liquido seminale stagnante nell’ombelico della donna, come un lago vulcanicospermatico, e in quell’attimo pensò tristemente che tutta la sua vita, la sua essenza ultima, il significato dell’infinita catena di respiri si raccoglieva in quella minuscola pozza biancastra, ributtante come lo sputo recente che i vecchi catarrosi disseminano sui marciapiedi.

Del forse come fattore di complicazione

Non ce la fece proprio, e pregare l’Angelo e la Madonna non le bastò. È vero che non voleva abbandonare la terra dell’illusione e vivere l’ultima stagione della speranza, ma due giorni di pensieri e dubbi l’avevano macerata e adesso bisognava si prendesse un sollievo e andò da Vonella.

S’assettò in sala d’attesa e si sentì gli occhi puntati addosso. Tossì, e per rendere più credibile la scenata prese un fazzoletto dalla borsa e se lo mise sulla bocca. Continuò a tossire. Finalmente arrivò il suo turno d’entrare e fu come una liberazione.

“Cuncettina, ti è venuto il raffreddore”, le disse con tono paterno il medico riferendosi al fatto che tossì anche entrando.

S’assettò, abbassò la testa e trovò il coraggio di parlare, anche se non ne aveva bisogno con quel medico con cui s’era sempre confidata, che la trattava come una figlia, che le aveva dato ogni consiglio per farla felice.

“Mi è successa una cosa strana”.

“Che c’è, parla”.

“Sono due mesi che non ho più il ciclo”.

“Due mesi…”.

“Già, e non è la sola stranezza. Da qualche giorno mi sento nella pancia come un calore, una sensazione nuova, che non ho mai sentito e non so spiegare”, disse con una voce speranzosa.

Vonella era uomo di scienze e quella non era la prima volta, in tutti quegli anni, che la scentìna andava da lui carica di speranze come una martire di fede, ogni volta paventando gravidanze certe che poi si dimostravano nulle. E dunque il medico si trovò di fronte a una scena vista e rivista, che un po’ s’intristì a sapere quella brava donna ancora prigioniera di un permanente stato depressivo. La osservò: sapeva cosa sottintendevano la postura del volto, la voce sottile, i tentennamenti, e così l’affermazione di Cuncettina non giunse inattesa: “Forse sono incinta”.

Lo guardò in faccia trovando ciò che già sapeva, per questo si affrettò ad aggiungere: “Lo so che ve l’ho detto tante altre volte, ma questa è diversa, non ho mai sentito il calore, e poi le mestruazioni sono sempre state puntuali, sempre, non ho mai avuto ritardi, e questa è davvero la prima volta”.

“Cuncetta, capisco e, credimi, al tuo posto chiunque penserebbe quello che pensi tu, ma dobbiamo essere realisti, guardare in faccia la realtà anche se fa male, e la realtà, il tuo quadro clinico, non ci fa sperare”.

“Ma dottore, le mestruazioni sono scomparse, come lo spiegate?”.

“Ci sono mille spiegazioni, Cuncetta, ma la più probabile non è quella che dici tu. Potrebbe trattarsi di una menopausa precoce”.

La secca lo guardò rimìsa.

“Succede che a certe fìmmani la menopausa, che di solito arriva ai cinquant’anni, si anticipa ai quaranta. Le cause possono essere tante, genetiche, familiari, malattie non diagnosticate e trascurate, però per parlare al cento per cento di menopausa dobbiamo aspettare dodici mesi”.

Cuncettina abbassò lo sguardo e parlò con voce stizzosa: “Io la malattia ce l’ho da quando sono nata”.

Non aveva più voglia di parlare. Uscì e mentre tornava a casa nella testa le risuonava la sigla con cui Vonella in termini medici aveva chiamato la menopausa, Pof, che in inglese voleva dire qualcosa ma che a lei sembrava il rumore d’un palloncino che scoppia, d’una vita che si rompe e che forse non era mai cominciata. Le donne, a differenza degli uomini, hanno gli ovuli contati, ne producono un numero limitato prestabilito e determinato rigorosamente sin dalla nascita. Così le aveva detto una volta il medico di Roma, prestabilito, determinato, e quelle parole le ritornarono in mente, e allora la consapevolezza che lei fosse stata programmata alla sventura prim’anche di nascere la ricacciò filata filata nello stagno della sua disperazione.

Sulla mutazione dei corpi celesti

Era sul balcone, il suo osservatorio astronomico di eventi umani, quando vide Jibril attraversare il Piano, per la seconda volta in tre giorni: nella sua migrazione settimanale percorreva centinaia di chilometri di sconfinata strada terrestre seguendo ogni volta con precisione assoluta la stessa identica variazione di grado, come se gli uomini si muovessero seguendo orbite evanescenti. Ma adesso era come se la traiettoria consueta si stesse lentamente spostando e configurando in un’altra parabola, che i corpi celesti subiscono a volte improvvise mutazioni prima di riprendere la loro secolare ciclicità.

Con una velocità che non gli apparteneva, lo stoico uscì di casa. Schiachineddu s’assettò a un tavolino del bar San Rocco. Archidemu non perse tempo e s’accomodò al tavolino vicino, di lato, per poterlo guardare con discrezione.

Il motivo per cui i corpi celesti modificano le loro traiettorie è spesso l’urto con un asteroide. E Archidemu pensò che il fratello, ingulijàtu dalla familiarità delle strade e dal profumo di patate e pìpi che gli arricordàvano l’infanzia, si stava scontrando con il corpo roccioso del suo passato.

Jibril chiese un’aranciata. La lentezza con cui si portava il bicchiere alla bocca era eccessiva. Lo osservò con attenzione: il fisico magrissimo, la pelle bianca e liscia, i capelli tirati indietro. Non si spogliava mai dei suoi panni di spettacolo, era un equilibrista, in ogni gesto quotidiano: indossava una camicia ampia per evitare ogni costrizione fisica e impedire che un indumento troppo stretto potesse provocare una millesima scalfittura ai muscoli. Non faceva mai sforzi: non guidava per non indurire e irrobustire il muscolo del braccio destro, e negli anni con una lunga disciplina aveva imparato a essere ambidestro per equilibrare energie e muscoli, perché per lui il male assoluto era l’asimmetria. Mangiava a pranzo con la mano destra e a cena con la sinistra, si lavava alternativamente con entrambe le mani, come adesso beveva una volta con la mano destra e una con la sinistra. Faceva del suo corpo ciò che un dio dovrebbe fare del suo mondo, ciò che Bastianu al mercato fa con la sua bilancia quando su un piatto mette un peso e sull’altro patate o pìpi fino al raggiungimento dell’equilibrio. Faceva così Jibril, l’uomo bilancia, e a ogni gesto del suo emisfero destro doveva corrisponderne uno in quello sinistro: se si sedeva alla sedia dalla parte destra si alzava da quella sinistra, se afferrava il pane con la destra versava l’acqua con la sinistra, se qualcuno lo chiamava e doveva girarsi da una parte, subito ripeteva lo stesso gesto dall’altra. Doveva essere ossessionato dalla simmetria: odiava i numeri dispari, e nella sua roulotte tutto era disposto in perfetto equilibro. Anche Sciachineddu teneva la camera con ordine maniacale, e mentre recuperava il ricordo, un altro più prepotente gli si affacciò alla mente, l’immagine del fratello in una delle tante scampagnate estive dei Crisippu, quando beveva avidamente aranciata, proprio come Jibril in quel momento. Quando Archidemu ebbe la sua tazzina di caffè, provò la piacevole sensazione di essere in compagnia del fratello, di bere al suo fianco, lì, al bar San Rocco, e poco importa che non potevano scambiarsi parole o ricordi: erano lì, uno affianco all’altro, dopo anni e anni di separazione, e questo era importante. Solo una volta i loro sguardi s’incrociarono, quando Sciachineddu si voltò verso di lui e si soffermò sul suo bottone nero, che forse pensò a un lutto recente non immaginando che invece c’era lui, proprio lui, racchiuso in quel tessuto scuro. Quando più tardi Jibril si alzò per andare via, forse ritornare al circo, Archidemu non sentì il bisogno di andargli dietro ma stette lì, con il caffè che non voleva finire, con la consapevolezza che un altro elemento di chiarezza aveva aggiunto al suo rebus, dopo la palla di vetro, e allora fece una cosa strana: si alzò, prese il bicchiere in cui Jibril aveva bevuto e se lo portò a casa. Lo appoggiò sull’altarino, tra la foto del fratello e la bouledeneige. Ebbe l’istinto di prenderla in mano e capovolgerla per far nevicare, e vedendo i puntini bianchi seguire direzioni caotiche, pensò che fosse una vera stranezza che la matematica potesse calcolare il moto di un satellite di Giove ma non la turbolenza dei fiocchi di neve dentro una bolla di vetro in tormenta.

Come cosa mùscia

Caracantulu saltò il riposo pomeridiano e si mise sul balcone intorno alle due e mezza. Non c’era anima viva per il paese e il silenzio era tale che gli sembrava di sentire le cicale della pineta.

“Mariagraziella, io tra poco devo andare ma non faccio tardi. Tu resta in casa, se vuoi assettàrti sùpa u scalùna ma non scendere fino alla strada, capiscìsti? Che se fai la brava stasera t’accàttu lo zucchero filato!”.

E dopo dieci minuti, imbellettata come per le cresime e le comunioni, Arcangeluzza nescì di casa lasciando la porta aperta. Quando la vide svoltare l’angolo, Caracantulu uscì anche lui. Lulù, nelle giornate afose, meriggiava all’ombra del grande pino del giardino di fronte al manicomio, e così andò a colpo sicuro.

“Lulù!”.

Il gigante buono si alzò, intontito. Caracantulu lo richiamò e gli mostrò la bottiglietta di gazzosa che si era portato appresso. Lulù attese qualche attimo per rendersi conto, quindi si alzò goffamente come una megaptera e gli andò incontro.

“Andiamo, ho tante gazzose per te!”.

Il pazzo gli si affiancò e camminarono verso la fontana della Piazza. A metà della salita però, invece di proseguire per il bar, l’uomo nero si fermò.

“Vieni, andiamo a casa mia, che di gazzose ne ho quante ne vuoi!”.

Lulù s’infilò con lui nella vinèdda: l’uomo nero lo osservò per leggere nel suo volto se ricordava la strada, se s’arramentàva le volte che l’aveva salita per dare un fiore a Mariagraziella o solo per cercarla. Si fermarono di fronte al portone di Caracantulu. La casa di Arcangeluzza era aperta.

“Assèttati ccà”, gli disse indicandogli i gradini, “che io vado a prenderti un’altra gazzosa!”.

Lulù s’assettò guardando di fronte a sé. Caracantulu scese con una bottiglia di gazzosa da un litro e gli sedette al fianco. Ma fece un gesto strano. Mentre porgeva la bottiglia a Lulù gli disse dammi qua un attimo e gli slegò la corda dei passanti dei pantaloni. E per giustificare quella stranezza legò un capo intorno al collo della bottiglia e l’altro alla maniglia della porta.

“Accussì hai le mani libere. Lo sai chi abita lì, vero?”.

Lulù gli fece un segno con la testa.

“Ti piace darle i fiori, vero? Ti ho visto, sai?”.

E poi alzando la voce: “Arcangeluzza, Arcangeluzza”.

La bambina si affacciò dal balcone: “La mamma non c’è, nescìu, ma torna lesto”.

Quando la vide, a Lulù il volto gli s’appicciò. Caracantulu allungò la mano e prese da dietro la porta una margherita messa apposta. La bambina intanto era rientrata in casa.

“Tieni”, disse porgendogliela, “perché non gliela porti? Vai, vai”, insistette spingendolo.

Lulù si alzò, ma senza la corda i pantaloni larghi gli cadevano, allora li sostenne tenendoli con la sinistra mentre nella destra aveva il fiore. Fece qualche passo ma poi si fermò. Allora Caracantulu si alzò a sua volta e lo spinse: spalancò la porta socchiusa della casa di Mariagraziella e mbuttò dentro chìddu scentìnu senza senno, richiudendola completamente. Dopo un minuto passò di là Valentinu Valenta.

“Vidìstuvu a Arcangeluzza?”, Caracantulu chiese allarmato.

“Veramente no”.

“E mò come facciamo. Lulù vìtta a fìgghia che stava sula in casa, trasì e si chiuse dentro con lei!”.

“Lulù dite? Possibile?”.

“Lulù, Lulù, e chìdda poveredda stava gridando. Non ti preoccupàra, Mariagraziella, che mò facciamo venire a màmmata!”, urlò Caracantulu verso la porta. A chi passava ripeteva la stessa storia, e quando cinque, sei persone si furono fermate, ecco da lontano arrivare la mamma della cotrarèdda. Caracantulu le andò incontro agitando la mano sana.

“Arcangeluzza, venìti, venìti, non potete immaginare”.

“Chi succedìu a Mariagraziella? Chi succedìu a fìgghiama?”.

“Chìddu pàcciu di Lulù trasì in casa e si chiuse dentro con male intenzioni”.

La mamma si sentì morire. Affrettò i passi cercando la chiave nella borsa.

“Mariagraziella, Mariagraziella, c’è mamma tua qui”.

Urlava il nome della figlia mentre cercava di infilare la chiave nella toppa. Fu lei a entrare per prima seguita subito dopo da Caracantulu e dagli altri. La prima scena che vide fu fìgghiasa assettàta sulla poltrona e di fronte a lei Lulù che si teneva i pantaloni con la mano sinistra.

“Disgraziato, disgraziato, che li facìsti a fìgghiama?”.

Corse dalla bambina, se l’abbracciò forte e buttò a terra il fiore che stringeva nelle mani. Caracantulu non perse tempo: si scagliò su Lulù e gli afferrò con la mano la maglietta strattonandolo: “Depravato, che le hai fatto? Questa volta non la passi liscia”.

Lulù non capiscìa niente, che il suo sistema mentale divenne ancora più caotico. Quando si trovò spinto da Caracantulu, che nel frattempo aveva riacquistato l’espressione arcigna e malevolente, gli sembrò di essere ritornato a quel giorno alle Cruci e pensò alle corna e provò paura e ribrezzo. L’uomo nero mollò la presa solo per un attimo, il tempo di afferrargli l’immaginetta santa spillata sulla maglietta e strappargliela. U fetùsu sapeva l’effetto che ne sarebbe sortito: Lulù cambiò espressione e s’infilò una maschera maligna: rivide in Caracantulu l’emissario del demonio che per la seconda volta gli strappava màmmasa dal cuore. E allora ebbe una delle sue crisi epilettiche e diede a Caracantulu uno schiaffo così forte ch’egli, sebbene preparato, cadde a terra come cosa mùscia. Il pazzo cominciò a urlare, a dimenarsi, a tremare, a buttare a terra gli oggetti che aveva intorno e liberò i pantaloni che gli si abbassarono. Caracantulu per un attimo temette il peggio: Arcangeluzza con la fìgghia in braccio scappò fuori urlando seguita dagli altri che avevano assistito alla scena dall’entrata. Lulù uscì poco dopo, tenendosi i pantaloni e urlando parole sconnesse, mugugni, indecifrabili parole. Andò verso la scindùta della Chiàzza, tremando, con la schiuma che gli calàva sul collo. Illumina custode l’angelo mio di Dio, pietà! Il custode custodisci affidato dal cielo. Mio Dio, pietà dell’angelo, governa me.

L’ultima volta che lo videro fu verso la sagghiùta di San Marco, spaventoso, come un cinghiale, testimoniò il cacciatore Ferraina, come il maiale di Rafiali quando scappò dal tavolato poco prima d’essere scannato, disse Valenziano.

Lulù non rientrò più in manicomio e sparve da Girifalco: di lui i paesani non seppero più niente.