“Iddu? Impossibile”.
“E perché?”.
“Ma lo sanno tutti!”.
“Sapere cosa?”.
Chiapparedda si avvicinò e abbassò la voce: “Ma come, non lo sapete che Lulù… è come gli angeli?”.
Bettina Saramaga non capì.
“Insomma, comare mia, è come gli angeli, vo dìra che in mezzo alle gambe non tiene niente!”.
La cummàra restò rimìsa: “E voi come lo sapete? Non è che…”.
“Ma che e che! Tutti quelli che lavorano al manicomio lo sanno!”.
Lulù s’avìa squagghiàtu come un odore. Quandò non rientrò al manicomio, all’ora della chiusura, l’infermiere avvertì il direttore il quale, come prassi, fece la segnalazione ai carabinieri. L’indomani mattina cominciarono le ricerche. I gendarmi andarono anche al circo, chiesero a chiunque ma nessuno l’aveva visto, e molti cominciarono a pensare al peggio. L’ipotesi del maresciallo era che il folle, visto l’ultima volta salire a San Marco come un maiale scappato alla scannatùra, salì verso Covello e si perse in qualche bosco.
Caracantulu sperava che fosse andata davvero così, che Lulù e la rivelazione che portava nella sua mente caotica fossero per sempre spariti, ma in cuor suo nutriva il dubbio che quel pazzo si sarebbe ripresentato da un momento all’altro e ancora più arrabbiato avrebbe tirato fuori la storia delle corna. La trappola prevedeva che a Lulù non lo avrebbero più fatto uscire dal manicomio in quanto soggetto pubblicamente pericoloso, ma adesso, che era in giro, poteva parlare con chiunque. Quando la guardia Ngelarosa trasì al bar per bersi un caffè, Carantulu e gli altri non persero occasione di informarsi.
“U trovàstuvu?”, chiese Micu il barista.
“Macché! Chissà dove se n’è scappato! Cercàmma dappertutto, pure a Covello fino al casello della forestale”.
“Secondo me è ammucciàtu da qualche parte”, disse Caracantulu.
“E visto che lo sapete ditecelo, così lo troviamo!”.
“Non so dov’è, ma non è sparito”.
“E al circo controllàstuvu?”, chiese Michìali.
“Sì, ma non l’hanno visto”.
A Caracantulu chìdda questione non lo quatrizzàva, e sentiva in fondo all’animo come un rimasuglio che aspettava solo d’essere mosso per guastargli il sangue.
“Micu, dammi na birra!”.
Era già la terza quella mattina e tutti si sorpresero a vederlo bere così tanto, che per qualche motivo quella storia di Lulù sembrava pesargli particolarmente.
Tutto ciò che si deve abbandonare
Archidemu era assettàtu al bar della Chiàzza quando vide passare i mezzi della Protezione Civile in direzione Covello. “Vanno a cercare Lulù”, argomentò Peppa Rosanò, “da ieri sera non lo trovano più, è scomparso”.
Allo stoico paesano fu come se gli avessero messo un pezzo di ghiaccio sul collo, come ogni volta che sentiva pronunciare la parola scomparso. Come Sciachineddu, pensò. E ricordò i momenti di quella lontana giornata, le ricerche, la speranza, la rassegnata disperazione. Un altro uomo era svanito dal mondo, ancora a Covello, che forse il buco spaziotemporale si era riaperto per una breve coincidenza astrale.
In certi momenti avrebbe preferito la rassegnazione alla speranza, la morte alla sospensione. Che in fondo, a pensarci bene, tutte le nostre vite sono una catena di eventi sospesi: messaggi senza risposta, progetti lasciati a metà, intenzioni rimaste intenzioni, persone che hanno condiviso con noi una parte della strada per poi disperdersi senza notizie. Le nostre vite sono più la somma di vicende conosciute in parte che un susseguirsi di fatti compiuti. Ma in fondo il problema non era questo, pensava Archidemu mentre sorseggiava una limonata fresca, il problema è che le cose s’interrompono senza avvisaglie, senza avvertimenti, senza darci il tempo di abituarci. Era questo che faceva male, non l’incompiutezza in sé ma il suo coglierci impreparati. Lo sapeva bene che nella vita tutto era destinato a finire, di più, che la vita stessa era un atto di finitudine, ma il dolore, quello vero, nasceva dal rimorso per la parola non detta, la carezza sfiorata, il bacio trattenuto: il congedo mancato, quello che si deposita nel fondo dell’animo e come un pezzo di calamita attira a sé tutti i frammenti ferrosi dei nostri futuri dolori, e che diventa così pesante, un giorno, da ritardarci le parole e i passi, rallentare i riflessi, attutire la voce, costringere il cuore. Perché i congedi mancati pesano a volte più di ciò che si è perduto. Se qualcuno si fosse mai messo a scrivere un trattato sulla termodinamica umana, e Archidemu nella sua fantasticazione pensò che un giorno l’avrebbe fatto lui, questo sarebbe dovuto essere il primo principio: tutto ciò che si deve abbandonare (A) deve essere congedato per un tempo (T) il cui valore è pari alla forza (F) d’attrazione dei corpi sommata alla loro massa (MC).
Lo scienziato si alzò e andò verso casa, e poiché voleva evitare la greciamàgna di genti attirate al Piano dalle sirene della Protezione, deviò verso le Cruci. Uno scarto benefico, una collisione propizia che all’inizio della vinèdda che portava alla Cannaletta trovò un manifesto di Jibril. Era sotto una loggia e si era conservato perfettamente. Si fermò a guardarlo. Lui lo conosceva quel balcone su cui aveva giocato nei primi anni di vita, in quella dimora che era stata la casa del padre, in quella magione dei Crisippu abbandonata subito dopo la scomparsa di Sciachineddu. E proprio là qualcuno, certo la mano vaticinante di Carruba, attaccò il manifesto, a sancire il ritorno del figlio prodigo alla casa avita. La coincidenza era l’ennesimo messaggio che gli lanciava il sistema solare, il fratello che tornava alla loro casa. Archidemu si avvicinò e lo fissò in faccia. Il poster aveva in alto uno strappo accennato, come la linguetta di una scatoletta, un invito al completamento della strappatura. La vacillante volontà di Archidemu assecondò l’invito, e dopo essersi guardato intorno per vedere che non ci fosse nessuno, sciancò la parte superiore del manifesto. Poi con attenzione ritagliò la carta intorno alla palla di vetro con piccoli strappamenti. Piegò le carte facendo attenzione a non rovinare il volto e andò via.
Arrivato a casa prese le forbici, stese il pezzo di manifesto sul tavolo e ritagliò il volto di Jibril, un rettangolo ventiperventicinque che mise in una vecchia cornice senza vetro e che adagiò sull’altarino accanto alla foto del fratello da piccolo. Archidemu s’assettò e cominciò a fissare le due foto alla ricerca della simiglianza, come quei giochi enigmistici in cui devi scoprire le differenze tra due disegni quasi identici. E dopo che si convinse che i due volti si rassembravano, si concentrò solo sul volto dell’equilibrista. Ne hai fatti giri, fràtama, ma alla fine tornasti da me.
Anche lui, Batral
Neanche quella sera mamma sua volle andare. Gli disse che doveva lavorare ma si capiva che non voleva vedere nessuno, anche Angeliaddu, che chiese a Batral, al cui fianco era rimasto tutto il pomeriggio, se poteva osservare lo spettacolo da dietro la tenda. Non guardava più l’esibizione del suo mentore con occhi da spettatore ma con quelli attenti del discepolo di bottega che vuole catturare i segreti dell’arte maestra. Ogni movimento del suo corpo era da lui osservato, studiato, memorizzato: lanci, prese, giravolte, giri mortali. Ma quella sera accadde una cosa nuova.
Quasi alla fine dell’esercizio, durante un terzo salto mortale, per un errore umano o di natura, che è la stessa cosa, Batral perse il foulard che gli copriva sempre i capelli. Per un attimo lo sguardo di Angeliaddu seguì il pezzo di stoffa argentato volteggiare come una foglia e fermarsi sulla rete di protezione, ma poi, quando ritornò a guardare verso l’alto, che Batral aveva afferrato il trapezio, restò rimìsu. Non poteva crederci. Non poteva essere vero. I capelli biondi e corti del trapezista avevano dietro la nuca una macchia bianca come la sua, allo stesso posto. Smise di pensare. Guardò Batral finire l’esercizio, ringraziare il pubblico alzando la mano dalla pedana, lanciarsi sulla rete di protezione e scendere a terra e raccogliere gli applausi. Fu quel rumore scrosciante a distrarlo dal vuoto in cui era stato risucchiato. Batral si girava su sé stesso e il ragazzo sperò che tutti nel pubblico notassero il ciuffo bianco e pensassero guardate, anche lui come Angeliaddu, che allora non è vero che gli albini portano male e sono buoni a niente come Pilujàncu, anche loro possono riuscire in qualcosa, che anzi sono predestinati, scelti tra l’anonimato della gente per fare grandi cose. Si sentì più vicino a Batral e considerò il ciuffo bianco un segno di predilezione per i trapezisti, che allora anche lui era destinato a farlo. Quando l’artista rientrò dietro le quinte, il ragazzo gli andò incontro, ma non fece in tempo a parlargli che giunse Grafathas, avvolto nel suo mantello scuro, pesante e lento come nu gàddu.
“Finalmente hai mostrato a tutti la tua natura, Batral”.
“Lasciami stare, Grafathas, non è momento”, rispose il trapezista con un tono duro e impermalito che Angeliaddu non gli aveva mai sentito. Sembrava infastidito e la cosa lo turbò perché pensò che se quell’uomo si nascondeva sempre il ciuffo bianco sotto il foulard era segno che non voleva mostrarlo, che l’ammucciàva perché se ne vergognava. Una ragazza riportò il foulard e Batral se lo legò subito.
“Nasconditi, nasconditi, tanto ormai l’hanno visto tutti che sei segnato, che sei un uomo maledetto, un traditore”.
“Stai attento, non oltrepassare il limite, io non ti ho tradito, io non sono un traditore ma tu, tu, non sei più nessuno”.
Grafathas lo guardò a lungo in silenzio, con l’odio accumulato negli anni, forse lo avrebbe pure picchiato se non ci fosse stata una disparità di forze e corpi. E allora indietreggiò e andò via.
Batral guardò verso Angeliaddu: “Ci vediamo dopo, adesso devo andare”.
Per la prima volta da quando lo conosceva, gli parlò con un tono severo. Il ragazzo continuò a guardare lo spettacolo sperando sempre che Batral ritornasse. Non vedendolo giungere a spettacolo finito, si diresse verso la sua roulotte. La luce era accesa. Aspettò un altro quarto d’ora, poi si voltò e andò via.
Sui problemi dei tre corpi e le equazioni di dinamica
Fin quando si trattava di due soli corpi i conti erano facili: traiettorie, attrazioni, risonanze, tutto rispondeva alla forza gravitazionale direttamente proporzionale alle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato delle loro distanze. Ma bastava che interagisse un terzo corpo ed ecco crollare ogni possibilità di calcolo: il regime caotico prendeva il sopravvento e il comportamento del sistema diveniva impredicibile poiché troppo dipendente dalle più piccole variazioni. Isacco dovette rassegnarsi. Bisogna tuttavia riconoscergli che aveva azzeccato la legge degli uomini, perché da che mondo è mondo la maggior parte d’essi si uniforma al moto gravitazionale: cerca la sua anima gemella e quando l’ha trovata comincia la fase di adeguamento fino alla ricerca e raggiungimento dell’equilibro. Un equilibrio molto instabile, a dir la verità: basta che in quella relazione binaria s’insinui un terzo corpo non previsto, magari quello della vicina di casa o del macellaio, che ecco l’equilibrio venire meno e il caos trionfare nel suo altalenante susseguirsi di pensieri peccaminosi, speranze, vergogne, tentennamenti, negazioni, desideri. Gli uomini funzionavano accussì: fin quando s’accoppiano a due a due va bene, ma s’arriva il terzo incomodo tutto crolla.
Venanzio era un’anomalia nelle leggi fisiche dell’universo, un corpo celeste incarnatosi male che fuggiva le rigide imposizioni stellari, che lui in tutta la sua vita neanche sapeva cosa fosse un rapporto a due: si scialàva quando i corpi erano tanti, quando l’intero universo femminile gli girava intorno, quando usciva dal letto di una ed entrava in quello di un’altra, che più fìmmine c’erano più il suo corpo e la sua mente si tranquillizzavano. E invece adesso, come un’improvvisa disgrazia, ìddu tutti quei pianeti e corpi celesti e celestiali non li vedeva più, e in quell’isolamento dei due corpi egli trovò il tormento e l’impazienza, come quella sera, quando, affacciato alla finestra, il suo sguardo irrequieto si posò sul manifesto di Mikaela.
La rotazione terrestre e l’attrazione gravitazionale della Luna fecero cadere lì sopra un raggio che parìa un faro di quelli degli spettacoli che illuminava la sola protagonista dei suoi pensieri. Nella testa gli si depositò lo stesso desiderio di possesso della sera dello spettacolo, quando staccando gli occhi dal prodigio delle evoluzioni, si voltò attorno e scorse dappertutto sguardi di masculìna attenzione, òmini impigliati nel suo fascino che la fissavano con occhi ncamàti di appetiti e proiezioni carnali. In quel momento Venanzio, il sacerdote del sesso, l’amante di tutte e di nessuna, scoprì per la prima volta in vita la gelosia, e fu spiazzato che non si può provare un sentimento nuovo a sessant’anni, e si sentì piccolo, che Mikaela apparteneva agli occhi degli altri come ai suoi e avrebbe voluto alzarsi e far scomparire ogni maschio da quel tendone, e anche le femmine, anche loro, che la guardavano con un’invidia che covava malocchi e guàddare. Se era gelosia, quella, che gli faceva stringere i pugni e dolergli la càpu, che gli faceva battere il cuore e provare un desiderio violento, se era quella allora capiscìa gli uomini che si rovinavano per amore. Avrebbe voluto alzarsi e prendersi Mikaela in braccio e portarla dietro le scene e nasconderla al mondo. Riprovò la stessa sensazione in quel momento, sotto il raggio di luna dispettoso. Solo che questa volta poteva tirare le tende, e allora mise la giacchetta e scese per strada. Si avvicinò al manifesto e si guardò intorno. Cercò di strapparlo ma la carta non ubbidì ai gesti della mano; veniva su a pezzettini che non c’era modo di staccarlo per intero. Si concentrò sul volto, salvare almeno quello. Prese un lembo superiore e lo sollevò adagio ma il foglio si frantumava ancora. Pensò che se non poteva essere solo sua non doveva essere di nessun altro, e stava per strapparlo del tutto quando pensò al giorno dopo, che come avrebbe fatto, mentre cuciva dietro la vetrina, ad alzare gli occhi e non vederla?
Lasciò stare, ma poiché era una nottata deliziosa che invitava al passeggio, e il manifesto gli aveva lasciato un senso d’incompiuto che lo infastidiva, Venanzio prese la strana decisione di andare alla ricerca dei manifesti della contorsionista sparsi per il paese, non sapeva se per distruggerli o portarli a casa. Passò dai Chiuppi Vìacchi, da Marzìgghia, da Castagnaredda, dall’Annunciata, ma era come se ci fosse una congiura perché ogni volta la carta non si strappava secondo la sua volontà. Che forse c’è una legge anche per gli strappi, che chissà perché Venanzio pensò che lo strappo della carta dovesse seguire i segni sovrimpressi, come se le linee disegnate offrissero una guida, e invece la carta non c’entrava niente con l’immagine, e mentre le mani e il cuore di Venanzio speravano che lo strappamento avrebbe seguito i contorni del viso, ecco la carta all’improvviso curvare a destra e scalfire la guancia. La mano si fermava, alzava con fatica un altro bordo, il manifesto ricominciava lentamente a sollevarsi, ma quando si avvicinava ai capelli ecco la strappatura rispondere alle leggi quantiche del caos e recidere un sopracciglio. E così fin quando l’immagine non era irrimediabilmente compromessa. Dei nove manifesti di Mikaela non riuscì a strapparne integralmente nemmeno uno: solo con quello a Marzìgghia gli andò meglio e riuscì a portarsi dietro la parte destra del volto.
Il sarto imparò che le leggi dello strappo erano impossibili da calcolare, che c’era sempre un punto di accumulazione – una sella, una separatrice, un attrattore, un ciclo limite – in cui la periodicità cedeva al caos. Anche la vita andava così, pensò: troviamo un lembo rialzato e lo tiriamo ma lo strappo segue altre direttrici fregandosene della nostra volontà. Che la carta è altro dalle linee sovrascritte, che gli uomini sono altro dalle loro intenzioni. E Venanzio per un attimo indossò le vesti dello stoico e pensò, alla luce dell’improvvisa gelosia, che lui sul foglio delle sue giornate poteva tracciare le linee e i segni che voleva, tanto alla fine la vita andava sempre per i fatti suoi.
Sulla profondità dei tagli
Trascorse l’intero pomeriggio giocando a carte e bevendo, e la serata la passò seduto al tavolino, sempre con una bottiglia in mano, che quando il bar chiuse, a mezzanotte, Micu dovette farlo alzare. Ma Caracantulu non andò a casa. A lu circu, è allu circu, era la frase che gli mulinava nella testa come una trottola, bicchiere dopo bicchiere, s’è nascosto nel circo. E così quando si alzò, barcollante, Caracantulu prese la strada dell’Aceduzzu per salire verso San Marco. Illuminato dalla luna, il circo gli apparve come uno di quegli antichi ruderi che trapuntano la campagna girifalcese e la rendono un monumento dell’abbandono. Andò verso il tendone: nonostante l’alcol aveva l’accortezza di camminare nell’ombra e fare piano. Entrò, attraversò le file tra le sedie e andò vicino alla pedana. Sturdùtu, Caracantulu non capiscìa fino in fondo perché era arrivato lì, i suoi pensieri erano come appesi a quei trapezi che gli galleggiavano sulla testa e che vedeva andare avanti e indietro. Poi sentì un rumore, alla sua destra, e si nascose d’istinto. Qualcuno avanzava zoppicando: in mano aveva un oggetto metallico che rilucò per un attimo. Caracantulu avrebbe pensato al diavolo se non si fosse sentito lui, quella notte, la personificazione del male. Lo zoppo si avvicinò alla rete di protezione: le funi d’acciaio che la sostenevano erano tese come corde di lira calabrese. Prese il seghetto che aveva in mano e cominciò a tagliare. Quando l’incisione era arrivata a più della metà della corda si spostò all’altro capo e ripeté l’operazione. Caracantulu era rimìsu, che quel fetùsu chissà che tranello stava architettando, come lui il giorno prima, che forse quell’uomo nero era una sua proiezione. Lo zoppo ebbe un’indecisione: si chinò a guardare il taglio, lo toccò forse timoroso di aver inciso troppo. Passarono in tutto cinque minuti, poi l’uomo andò via ma non ritornò indietro, continuò, in direzione di Caracantulu che quando lo vide avvicinarsi si pietrificò come il leone del municipio. Grafathas era troppo occupato nei suoi pensieri, forse anche nei suoi rimorsi, e non si accorse che per un attimo, sotto il raggio lunare che filtrava in alcuni punti del tendone, le loro ombre si sfiorarono, si toccarono, si giustapposero come due insetti infilzati nel medesimo spillo. Caracantulu attese qualche minuto e poi si mosse verso la rete. La lunga sosta lo fece barcollare ancora di più. Guardò il taglio della fune metallica più vicina a lui, con molta fatica, ma nel protendersi perse l’equilibrio e appoggiò la mano malata con tutto il peso. Fu un attimo. Il cavo d’acciaio si recise, e la tensione era tale che divenne una frusta tagliente, una lama. A Carantulu gli sembrò di essere in un sogno: cadde a terra, chiuse gli occhi e non sentì più niente, come quando sognava di essere in una bara e vedeva chiudersi il coperchio fino al completo oscuramento del mondo.