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Una tragedia sfiorata

Nu màla de càpu. Ogni volta che Archidemu sentiva una qualche perturbazione del suo sistema corporeo, un male di pànza o una febbre o un calcolo meteoritico che vagava tra gli interstizi renali, pensava subito a Sciachineddu. Come si dice sia per due gemelli, che quando uno gli fa male il petto anche l’altro; ma lui era un professionista del pensiero, gli piaceva approfondire, scavare, spiegare, e così, tra le sue varie letture, trovò un giorno una stramba teoria, a cui ricondusse la telepatia gemellare, secondo cui due sistemi che interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo, quando vengono separati continuano a influenzarsi, e quello che accade a uno cambia anche l’altro. Lui faceva così: prendeva i libri di fisica, di chimica e scienze, tralasciava i calcoli e le figure difficili e si soffermava sulle conclusioni, i postulati, i teoremi, sulla consultazione delle leggi che venivano fuori da grafici incomprensibili, e lo faceva per ammantare di scientificità il suo pensiero e offrire una base oggettiva e incontrovertibile ai suoi pensieri. Che era, in fondo, un tentativo di allontanare i dubbi in merito all’inconsistenza delle proprie teorie, un po’ come capitava ai primi ignari meccanici celesti, che cercavano nella regolarità dei fenomeni celesti la prova che l’universo fosse razionale per consolarsi dell’incertezza terrestre. Perché fin quando era lui a dire di essere in comunione di spirito col fratello poteva essere rinchiuso filàtu filàtu nel manicomio, ma se lo dicevano e confermavano gli scienziati allora era diverso. Fu una vera e propria fulminazione. Addirittura la stessa distanza non esisteva, che aveva letto in un altro tomo che gli elettroni sono capaci di comunicare all’istante fra loro a prescindere dallo spazio e dal tempo che li separa, come se qualcosa d’invisibile li collegasse. E questo accadeva perché la loro separazione era solo apparente, che a un livello di realtà più profondo tutte le cose erano infinitamente collegate, soprattutto due fratelli nei cui corpi scorre lo stesso sangue. La scienza affermava che lui e il fratello continuavano in qualche modo a comunicare tra loro attraverso una sorta di legame covalente, che non era questione di spazio o di tempo, ma che un cordone ombellicale invisibile all’umanità cieca li legava nel mondo, li costringeva e, dopo la venuta del circo, li approssimava. E se questo era vero, come lo era, allora anche a Jibril, quella mattina, gli doleva forte la testa.

La maledetta legge della gravità

La sìra prima, don Venanziu s’era sentito strano, e la misura tracotante di quella stranezza gliela misurò la frenesia con cui andò in cerca dei manifesti e la reazione d’impassibilità che gli procurò, tornato a casa, la visione del suo quadro. E come poteva essere che l’origine del mondo lo lasciasse quasi indifferente? Non aveva voglia di pensarci, che certo stava incubando qualche brutta influenza, e così si spogliò e senza nemmeno farsi l’abituale toeletta serale si curcò in un buio che sapeva di vita sciupata. Ma quando s’arrivigghiò, l’indomani mattina, dopo una notte agitata da sonni scunchiudùti, il fastidio permase: aprì gli occhi e lo invase quella comune e terribile sensazione d’aver smarrito all’improvviso il senso di una vita intera. Si alzò e andò a fare colazione: il misterioso fascino della pittèdda dell’origine, che tante giornate aveva addirizzato con la sua potenza evocativa, rimase muto, e Venanzio scese desolato alla bottega. Si avvicinò la sedia alla vetrina, per vedere meglio il manifesto della contorsionista. Circa un’ora dopo, come alzò gli occhi dai càzi che stava nchimàndu, l’ologramma di Mikaela venne schermato da Enzarìaddu Graffiuni e Micantuani Culuvàsciu che s’avìanu fermati lì a fissare la fìmmina. Li vedeva di spalle ma gli sembrò che ridìanu. Poi Enzarìaddu con la mano indicò il manifesto, e non un punto a caso, ma proprio quel punto, e a Venanziu fu come se gli mettessero un dito nell’occhio. Dassàu i pantaloni e uscì, affiancandosi ai due spettatori.

“Con una come questa, sàcciu io che potrei fare”, intonò Graffiuni orlando le parole con un ghigno beffardo.

“Sùlu tu?”, gli rispose Culuvàsciu. E poi accorgendosi del sarto aggiunse rivolgendosi a lui: “Caro don Venanziu, guardàti là, che meraviglia della natura. Non sapete che vi perdete!”.

Di certo non mi sono perso quello di mugghièrta, pensò il sarto. I due se ne andarono sorridendo e fantasticando e lui rimase lì, rimìsu, maledicendosi per non averlo strappato la sera prima. Lo avrebbe fatto adesso se non fosse che c’era troppa gente, ma quella notte non avrebbe tentennato. Se non era influenza ciò che stava incubando, qualcosa di ugualmente preoccupante, e così decise di andare da Antonia Panduri il cui corpo aveva sempre guarito ogni malanno, anche perché voleva dimostrare a sé stesso, dopo i pensieri delle ultime volte, il perdurare del proprio vigore. S’improfumò i lobi, tolse il pezzo di carta igienica dalle mutande e uscì.

A comprova che fra i due ci fosse una speciale corrispondenza amorosa, Antonia era in casa con le calze e le giarrettiere nere, senza mutandine, e con sopra uno sciallino nero di pizzo. Alla vista di quella dispensatrice di gioie, Venanzio si scordò influenze e desolazioni e senza esitare le aprì le gambe e cominciò a baciarla: bastò sentire il liquido odoroso di bosco bagnato sulla bocca per stare meglio. I sospiri della femmina erano come mareggiate di sangue nelle vene, nelle tempie, nel tùacciu che sembrava scoppiare. Ancora un momento e glielo avrebbe fatto sentire dentro, ma all’improvviso, come un insetto che entra dalla finestra socchiusa, nel vano della sua testa trasì un pensiero fastidioso, immaginò che Mikaela fosse in quella stanza e lo stesse guardando, e si sentì buffo lì, piegato a quel modo come un cane che lecca ferite. E così, per la prima volta in vita sua, don Venanziu sentì afflosciarsi il suo leggendario miccio, lo sentì cedere lento e inesorabile, tessuto dopo tessuto, centimetro dopo centimetro, come pane inzuppato nell’acqua: si sforzò a contrarre i muscoli, a chiudere le gambe, a pensare all’origine e ai mìnni immensi e dondolanti della balia. Fu inutile: avrebbe voluto andarsene, uscire per strada e respirare aria pulita, e allora quando sentì che il corpo di Antonia si scuoteva come un’olivàra alla raccolta e maree di umori gli ammorbidivano la lingua, la fece godere aiutandosi con la mano. Di solito era l’antipasto, che subito dopo Venanzio glielo ficcava dentro. Ma questa volta no: le osservò il volto dal basso, protetto dalla siepe dei peli, e quando lo vide rilassato, si alzò e si rivestì. Quel gesto sorprese Antonia, che vide per la prima volta u tràvu siccàtu sottomettersi alla maledetta legge della gravità, simile a una zzùppa di recìna che pende dai filari. Venanzio se lo accomodò con le mani nelle mutande.

“Vuoi aiutato?”.

“Cos’è, la mia lingua non t’è bastata?”, e c’era nella voce un risentimento rivelatore.

Antonia per la prima volta in tanti anni aveva il coltello dalla parte del manico. Lo amava fin dal primo giorno, dalla volta in cui la prese a cogghiaolìvi e lei capì che fino ad allora era stata vergine, che insieme alla carne, dentro, le entrò quel profumo di vita e gioia che solo certe primavere sanno regalare e lei capì, impassibile, che era l’unica stagione fiorita che la vita avrebbe riservata a una giovane vedova come lei. E la solitudine amplificava il desiderio e i pensieri si attaccarono a quell’uomo come certe conchiglie agli scogli, e cominciò ad amarlo ogni giorno di più di un amore di sangue e passione. Ma mai una parola di troppo, con lui, mai in tanti anni un accenno a quel sentimento traboccante che avrebbe potuto spaventarlo, sempre remissiva e disponibile, pronta ad assecondarne ogni capriccio. E non solo l’amore doveva controllare, ma anche la gelosia smaniosa per tutte le donne che Venanziu si fotteva, quelle sgualdrine ammogliate che lo usavano come un trastullo e non lo amavano davvero come lei. E adesso, di fronte alle prime avvisaglie d’un qualche decadimento fisico, forse avrebbe potuto averlo solo per sé. Ripensò alle sere che lo desiderava mentre lui era dentro a qualche malafemmina, a tutte le volte che veniva a trovarla e gli sentiva sulle mani e sulla bocca l’odore acre del sesso appena consumato, le volte che lo avvistava per strada indugiare su smaliziate passanti.

“Di te anche un dito mi basta, lo sai. Vieni qua, fammi assaporare anche a me”, disse mettendogli una mano tra le gambe.

Venanzio arretrò di qualche centimetro, ma alla femmina parvero metri.

“No, lascia stare”.

La femmina lo guardò quasi preoccupata.

“Oggi dovevo stare a casa, mi fa male la testa”.

Mentre si abbottonava lei andò verso la finestra. Dai vetri vide passare per strada la Pittìmma, e nella testa le si ficcò il ricordo d’un pomeriggio che era andata a trovarlo nella bottega perché le era venuta una voglia irresistibile e aveva trovato la porta chiusa ma la luce accesa, allora si fermò più avanti, al tabacchino, e dopo un quarto d’ora vide uscire quella matrona con la gonna stropicciata e le guance accaldate. Troia, le disse in silenzio, come ogni volta che l’avrebbe incontrata, come quel pomeriggio alla finestra che una spìaddusa di gelosia le abbrusticchiò l’orgoglio femmineo: “E da quando in qua un mal di capo addomestica il grande amatore?”.

Venanzio abbuscò la frustata in silenzio, finì di vestirsi e senza nemmeno darsi un’occhiata allo specchio uscì dicendo a bassa voce: “Oggi non dovevo passare”.

Chiuse la porta alle spalle, e nella stanza e nel cuore di Antonia si formò un lago di desolante silenzio. E se non la desiderava più? Si sentì morire. Rimase alla finestra e lo vide uscire per strada, guardarsi intorno indeciso e dirigersi infine verso San Marco, e quando di profilo notò l’ingombro del miccio, che sapeva farsi rivelare attraverso il lino dei pantaloni anche in quiescenza, ad Antonia una vampata di desiderio le bruciò le ossa e rimise in moto le fantasie che l’uomo aveva sospese a metà, che per lei prenderlo in bocca era uno scialamento assoluto: si sentì le cosce bagnate, chiuse gli occhi e non resistette: s’infilò le dita e cominciò a toccarsi, velocemente, per l’urgenza del desiderio e perché voleva godere prima che Venanzio suo scomparisse dalla vista, e agitò così bene il batacchio che l’urlo soffocato e solitario giunse proprio poco prima che l’uomo svoltasse l’angolo.

Le illusioni che salvano

A Cuncettina in certe giornate tristi non le parìa nemmeno di appartenere a questo mondo. Che la storia è fatta di generazioni che si susseguono, di vite che si tramandano, di uomini e donne che lasciano eredi a continuarne il ricordo, e invece lei era fuori dalla storia, lei che con la sua pancia arida e siccàgna non era in grado di fare figli e non poteva quindi incidere sui destini futuri del mondo, lei che era come un binario morto.

Oggi è scirocco, diceva alle vicine quando s’affacciava sul balcone. Era il suo modo di entrare nel mondo, enumerandone i venti. Diceva per dire, che in verità non sapeva distinguere tra soffi di scirocco e di ponente, non sapeva se i suoi panni ampràti s’agitavano verso est o verso ovest. Oggi è scirùaccu, vaticinava ogni mattina per sentirsi parte di un mondo che soffiava lontano e odorava di zolfo e bergamotto, òja è scirùaccu si ripeteva sottovoce tra sé e sé mentre richiudeva le imposte e ritornava tra le stantie e sterili mobilie della casa silenziosa. Oggi è scirùaccu, echeggiava sempre più debolmente, prima del silenzio. Ma scirocco non le portava mai belle notizie. La Terra Promessa era perduta. Le era stata concessa la consolazione moseica di vederla da lontano, ma era stato solo un male.

Cuncettina s’era svegliata senza sentire più il calore nella pancia, che il forno s’era raffreddato senza che uscissero pani e dùrci. La prese lo sconforto e pianse, e si maledisse per avere anche solo un attimo potuto pensare che i pianeti girassero al contrario, che la vita fosse morte e la morte vita. Si era illusa di nuovo per colpa di una colomba che non sapeva volare, d’uno sconosciuto che l’aveva incantata, e adesso quel pianto era la giusta punizione per aver smarrito il senno. E così comprese, quella mattina, quant’è difficile vivere una vita senza illusioni.

Come un trapezista

Era pomeriggio tardo quando il paese, che stava scivolando verso una tranquilla serata di festa, s’arrivotò. Alla pasticceria della buonanima di Rorò Partitaru, che dal giorno della sua morte teneva le serrande chiuse, scoppiò un incendio terribile. Filicia Giampà non fece in tempo a vedere il fumo uscire dall’interno che subito le fiamme si mangiarono il piano terra. La gente cominciò ad arrivare da ogni punto, i vicini di fronte attaccarono i tubi alle fontane e cercarono di spegnere il fuoco, ma quell’acqua era inutile come uno sputo. Facìti lèstu facìti lèstu che vruscìa tuttu, urlavano le donne. Ma sembrava un fuoco diabolico, come quello dei pagghiàri che quando prendevano le ginestre secche sembravano dover bruciare anche il cielo. Sarvatùra arrivò poco dopo e si mise le mani nei capelli a pensare a tutto quello che bruciava lì dentro. Le fiamme, dopo aver divorato il piano terra, cominciavano a uscire dal balcone del primo piano, annigricàndo i muri a carbone. Li chiamàstuvu i pompieri? Sì, sì, ma fin quando arrivano da Catanzaro!!! Chiamate a Cicco Piciùna, fatelo arrivare subito. Cicco Piciùna aveva la cisterna che riempiva d’acqua di Covello e andava a rivendere d’estate nelle zone di mare. Qualcuno andò a casa sua. Ma facìti lèstu, che le fiamme stanno arrivando da Giovannuzza. La suocera del geometra abitava al secondo piano della casa. Qualcuno diceva di averla vista in chiesa e che potevano almeno stare sicuri non c’erano cristiani d’arrostire. L’importante è non mu ncè nessuno, che pure che brucia tutto, quello i soldi ce li ha a carriolate. All’improvviso un terrifico miagolio agghiacciò le genti. Avìti nu gattu, Sarvatùra?, chiese qualcuno all’uomo. Sì, c’era un gatto che faceva sempre compagnia a Rorò, nu gattu selvaticu chi trasìa dalla finestra di dietro, dev’essere rimasto chiuso dentro. La vecchia Lucentuzza addirittura si tappò le orecchie con le mani per non sentire quel lamento atroce e terribile. Ma poi qualcosa di più grave, perché dalla serranda abbassata a metà del balcone al secondo piano, da dove cominciava a uscire fumo nero, venne fuori tossendo una bambina. Guardàti, guardàti, urlò Filicia Giampà, Annarella, la fìgghia del geometra. La bambina, che portava sul volto i segni del fumo cùamu lu carvunàru, tossiva e piangeva. Proprio in quel momento arrivò urlando la nonna Maristella, picchiandosi sul petto, napùtama, napùtama, ruvìna mia, ruvìna mia, salvàti a napùtama. Solo un secondo, scendìvi sùlu nu secondo, disse scaraventando a terra le uove paesane che aveva preso dalla comare, solo un secondo per farle una frittata. Agazio Marascazo era arrivato con la scala ma le fiamme impedivano di appoggiarla al muro. Poco dopo giunse il geometra che quando capì cosa stava succedendo cominciò a urlare e avvicinarsi alla casa. Qualcuno lo tenne perché rischiava di bruciarsi e riuscì a farlo malgrado lui si dimenasse come nu pàcciu. La suocera si avvicinò quasi a scusarsi ma ìddu manco la vide. Dal balcone intanto s’intravedevano le fiamme che cominciavano a bruciare le serrande di plastica. Annarella spostati spostati, le urlava il padre impotente, spostati che papà tuo arriva. E così fece: si liberò dalle braccia di chi lo costringeva, prese la scala e l’appoggiò al muro e provò a salire, ma dopo quattro pioli le fiamme lo costrinsero a buttarsi a terra. Arrivò da lontano, suonando il clacson come la tromba del giudizio universale, Cicco Piciùna con il suo furgone pieno d’acqua. Parcheggiò di fronte alla casa a fuoco, subito attaccarono i tubi ai quattro rubinetti posteriori e cominciarono a spruzzare l’acqua verso il fuoco, ma non c’era la pressione giusta per arrivare al secondo piano. Il geometra provò a salire e di nuovo il fuoco lo respinse. A un certo punto solo il suo pianto si sentì per quella strada su cui si posò un silenzio irreale, come se la rassegnazione alla tragedia avesse zittito la gente, come se tutti avessero pensato nello stesso momento che non c’era più niente da fare, che per la povera guagliùna che ciangìa affrìtta era finita. Qualcuno cominciò perfino a coprirsi gli occhi. Ma all’improvviso guardate, disse Marascazu meravigliato come Giairo quando Gesù guarì la fìgghia al suono di talità kum, guardate, e tutti a seguire la sua mano indicatrice come una cometa che li portava sul corpo smagrito di un ragazzo che si era fermato di fronte alla casa affianco a quella in fiamme. Angeliaddu si accostò alla cannalètta in metallo, salì come un gatto fino al primo piano, si fermò per guardarsi intorno, quindi riprese a imperticarsi fino al secondo piano, e quando fu all’altezza del balcone della vicina, con un balzo ci saltò sopra. I paesani seguivano i suoi gesti come giorno della Passione seguivano i gemiti del Signore sulla croce. Il geometra pure zittì i suoi pianti. Dal balcone della vicina a quello su cui si trovava Annarella c’erano un paio di metri, e inoltre era più alto di almeno un metro e mezzo. Cada e s’ammàzza, fu il commento cinico di Dejìsu. Non ce la fa, commentò Cicco. Angeliaddu aveva scavalcato il balcone. Prese un lenzuolo che era steso e se lo legò al piede e lo fece penzolare nel vuoto. Si teneva con le mani alla sbarra bassa della ringhiera guardando il balcone di fronte. Restò immobile, ma poi il silenzio della bambina che quasi senza sensi si era accasciata lo scosse. Si diede delle spinte col bacino e cominciò a oscillare come su un trapezio. Ripensò agli esercizi del pipistrello, cercò di recuperare i movimenti di Batral quando doveva saltare, il piegamento delle gambe, le frustate del bacino, e poi alla fine, dopo l’ultima spinta, saltò. I due metri sembrarono un’eternità. Qualcuno chiuse gli occhi, mentre la nonna pregava con le mani giunte. Angeliaddu si allungò tutto, allineò le gambe e stese le braccia di fronte a sé come un trapezista quando deve afferrare l’attrezzo. E alla fine aggraffiò il ferro del balcone. Qualcuno applaudì. Non perse tempo, Angeliaddu. Facendosi forza sulle braccia che gli esercizi di quei giorni avevano allenato e irrobustito, scavalcò il balcone, sciolse il lenzuolo dal piede e lo legò intorno al petto della bambina, sotto le braccia inermi. Con una forza sconosciuta la prese e la fece scendere poco per volta col lenzuolo. Ruaccu a Guardia, nu sangiluarmu alto due metri, s’avvicinò, si alzò sulle punte e con un salto l’afferrò. La folla esultò, commossa, e molti piangevano. Il geometra corse verso la figlia e subito la consegnò al dottor Vonella che la mise a terra, su una coperta, le sentì il cuore e sorrise. Si fece portare dell’acqua, le bagnò il volto e scosse il corpo, e la bambina tossì e aprì gli occhi. E allora tutti tornarono a guardare verso la casa, anche il geometra che stringeva tra le sue la manina tiepida della figlia. Le fiamme ormai erano su tutto il balcone: la più perfida di esse aveva toccato la maglietta di Angeliaddu che subito se la tolse e la buttò. Scavalcò il balcone e si preparò al balzo ma questa volta era più stanco ed ebbe meno tempo di prendere la rincorsa. E così saltò, quando si sentì bruciare la schiena, saltò, si allungò come prima ma troppo poco. Sembrò per un attimo che cadesse nel vuoto, Ruaccu a Guardia aveva già allungato le braccia, ma con un colpo estremo di reni Angeliaddu afferrò il piano di cemento del balcone. Si tirò su a fatica, scavalcò la ringhiera e si buttò stremato sul balcone. Le genti applaudirono, commosse, che per un attimo avevano voluto a quel ragazzo il bene che si vuole a un figlio.