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L’ultimo spettacolo

La prima cosa che fece tornato dall’ospedale fu di prendere tutti quei maledetti guanti neri cuciti a mano alla Haus Des Hand­schuhs in Leibnizstrasse e strapparli e buttarli nella spazzatura. Non gli sembrava vero di non doverli più indossare. La mano sinistra era fasciata: si era già abituato al bianco della garza e al senso di candore che emanava. Aprì le finestre e inspirò l’aria profumata dei glicini. Voleva uscire subito nel paese e così aprì l’armadio e prese l’unica camicia grigia che aveva stipato in fondo, nascosta da tutte quelle nere. Chiuse il portone alle sue spalle con solennità. Tutti naturalmente sapevano. Cassiel lo aveva trovato svenuto la mattina dopo ai piedi della rete di protezione. Nessuno gli chiese poi perché si trovasse in quel posto: la normale deduzione fu che fosse ubriaco, si era messo a vagare nella notte ed era arrivato lì per caso. Si trattò di un terribile quanto casuale incidente: i tiranti della rete cedettero per il peso e la sua mano ne restò segnata. Le due dita dovettero essere amputate. Per la seconda volta in vita Caracantulu s’arrivigghiò che la sua mano era stata lenzijàta. Il dottore glielo spiegò subito cos’era successo, ma questa volta non restò male, anzi. Guardò la mano fasciata, senza inutili appendici, e si sentì stranamente sereno. Tante volte aveva pensato di prendere na cètta e tagliarsi le due falangi cornute, che gli avrebbe fatto un bel dispetto a Nostrosignoregesucrìsto, ma non ne aveva mai avuto il coraggio. E adesso le corna non c’erano più.

Caracantulu, la mattina dopo l’operazione, ebbe la strana sensazione di svegliarsi nel letto del primo ospedale tedesco, e fu come se tutta la disgraziata parentesi tra i due risvegli ospedalieri si annullasse, come se solo il giorno prima fosse uscito dalla fabbrica maledetta. Quella volta non era stato l’incidente in sé a farlo dannare, ma quella forma sciagurata che lo aveva marchiato. E adesso non c’era più niente, non doveva nascondere agli occhi del mondo quel castigo, adesso la sua mano poteva mostrarla a tutti. Rocco Chirinu fu il primo, sei metri dopo casa sua, a fermarlo e chiedergli. E Caracantulu pronunciò per la prima volta la formula che avrebbe ripetuto come un refrain per tutto il giorno, una formula coronata da un sorriso che nessuno si spiegava, come non si capacitavano della camicia insolitamente grigia. Doveva essere un uomo abbattuto, ancora più arrabbiato contro il mondo e invece Caracantulu sorrideva, sentendosi un po’ come Giobbe Maludente, che quella era un’estate strana, una stagione d’insolite combinazioni stellari, che anche a lui era accaduto il miracolo di sentirsi normale. Era felice per le dita che non c’erano più, perché la sfortuna si può accettare, la normale sventura che capita agli uomini si può tollerare, anzi, ci rende uguali, ci fa sentire sodali e fratelli; era la maledizione che non aveva sopportato, il marchio di eccezionalità che lo isolava dalla costellazione umana.

Cacarantulu, passeggiando quella mattina nel suo paese, si sentiva uomo tra gli uomini e rispondeva a tutti come se fosse ritornato da un viaggio di nozze, e alzava la mano per mostrarla come una medaglia. Anche al bar, dove stentarono a riconoscerlo, fu loquace e cordiale, che Micu u barista pensò che nelle flebo all’ospedale gli avessero messo chissà quale strano miscuglio o ncùna droga misteriosa. E poi, mentre si vide riflesso sulla vetrina dei gelati e si riconobbe come una persona nuova, l’ombra del rimorso offuscò per un attimo il suo capo miracolato.

“Ma a Lulù l’hanno trovato?”.

“No”, rispose Micu, “ormai cu sàpa chi fìna fìcia!”.

Cristalli di zucchero

Quando aprì la finestra, lo scirocco caldo le soffiò sul volto l’odore forte del vasilicò nelle gràste. Era sempre stato un buon modo di entrare nel mondo, quel profluvio che le entrava nelle narici, ma quella mattina quasi le venne da vommicàre. Che strano pensò, mentre andò in cucina a prepararsi il caffè. Si sedette, ma quando lo versò nella tazzina provò di nuovo un senso di nausea al punto che lo rovesciò tutto nel lavandino. Si fermò un attimo. Cos’erano quelle stranezze? Che lei subito pensò a quello che penserebbe una donna normale se le venisse la nausea, ma lei non era una donna normale. Non capiscìa cchiù nènta. E prima la rassegnazione della menopausa, e poi la speranza del calore alla pancia, e poi la disperazione per il tepore sopito, e mò quei segni di nausea che facevano di nuovo pensare a un miracolo. Non capiva più niente. Andò in bagno, e come si spogliò per farsi la doccia sentì il seno turgido e un leggero prurito ai capezzoli. Si avvicinò allo specchio e prese l’areola tra le dita. La strinse. Le sembrò di vedere una goccia di liquido non ancora colostro, una goccia trasparente e luminosa come minuscoli cristalli di zucchero, come i frutti di un corpo che si addolcisce. Sarebbe stato un segno inequivocabile se non fosse che altre volte, tanti anni prima, era successa la stessa cosa. Quando Cosimo tornò per pranzo, gli disse che il giorno dopo sarebbe andata al mercato a Borgia. Ma stasera torniamo al circo che è l’ultima serata, vuoi? Sapeva di farlo contento, ma pensava soprattutto a sé stessa, che forse un’altra colomba bianca avrebbe sfiorato il suo ventre restituendole una nottata d’illusione. Il ricordo del volatile portò con sé la frase di Tzadkiel la prima volta che si incontrarono alla fontana, che sarebbe un utile esercizio guardare le cose di ogni giorno da un punto di vista diverso. Cuncettina si fissò che quelle parole non le avesse dette per caso.

Una piccola rivoluzione

Taliana passò il pomeriggio a stirare senza fermarsi un attimo. Voleva finire tutto prima dello spettacolo, che nel momento in cui sarebbe uscita a braccetto col figlio non doveva esserci più traccia della vita trascorsa, nemmeno un calzino sgualcito. Ripiegò con cura i panni di donna Adelaide Catrumba nella vasca e glieli fece portare da Angeliaddu mentre lei si preparava.

Arrivarono che lo spettacolo era appena iniziato: lungo la strada chiunque incontrassero li fermava per fare apprezzamenti e lodi, e Taliana si scialàva u còra, che una giornata più bella di quella neanche nei suoi sogni l’avrebbe immaginata. Ma non era ancora finita.

Fu dopo l’esibizione di Batral, quando le luci illuminarono il pubblico e Taliana applaudendo guardò a destra, fu allora che il respiro le si fermò in gola. Smise di applaudire, come immobilizzata. Era incredula. Non poteva sbagliarsi, conosceva troppo bene quel volto, e in un attimo le sembrò di tornare indietro di decenni. I suoi occhi cominciarono a bagnarsi, quegli occhi che negli anni a furia di piangere si erano consumati come gessi strofinati sui muri. La loro bellezza non era trascorsa ma rarefatta, aveva cambiato natura, frantumatola, che per ricomporla bisognava raccogliere i munzìaddi di polvere colorata sgretolata per terra.

Dissertatio de arte combinatoria

F22. Che era il nome di un aereo caccia, certo, ma anche la casella del mondo che avrebbe occupato quella sera. Fila F posto 22, come in un campo di battaglia navale. Quella sera non potìa sdimmiciàra, e già un’ora prima dello spettacolo era in bagno a imbellettarsi, che non potendo permettersi una parrucchiera si fece da sola piega e colore. Mise i pendenti in perla del servizio matrimoniale, indossò l’unico vestito buono per le cerimonie e uscì spruzzandosi sui capelli l’ultima goccia di lacca rimasta nella bomboletta. Non immaginava di trovare la fila davanti al tendone; si accodò, guardandosi intorno alla ricerca di lui. Quando fu dentro cercò con fatica il proprio posto, fece alzare alcune persone e infine lo raggiunse. Si collocò nella sua casella. Alla sua destra era assettàta Cosima Mangiùna, alla sua sinistra c’erano na quattrìna di posti liberi. Si aggiustava i capelli, si stirava le pieghe sulla gonna e si voltava verso l’entrata. Si aggiustava i capelli, si stirava le pieghe sulla gonna e si voltava verso l’entrata. Si aggiustava i capelli, si stirava le pieghe sulla gonna e poi finalmente Sarvatùra arrivò, preceduto dalla figlia e dal nipotino. Non abbassò lo sguardo che voleva vedere dove andava a sedersi, ma quando si fermò all’inizio della sua fila lo distolse. Ventitré ventiquattro e venticinque, disse la figlia. Permesso. La gente si alzò per farli passare, e Sarvatùra le si sedette affianco. F23. Proprio in quel posto tra centinaia di posti, proprio al suo fianco tra migliaia di combinazioni possibili, al suo fianco e non a quello di Mirella Currìja, Rosanna Grattasòla o Francesca Tagghiòla. Malarosa si sentì come unta dal Signore, che le stelle erano cambiate e adesso l’universo e il circo erano dalla sua parte e benedicevano con la loro clemenza quella unione. Colpito.

“Buonasera”, la salutò.

“Buonasera a voi. Che coincidenza”.

“Ha insistito mia figlia”, le disse Sarvatùra come a giustificare la sua presenza in quel posto.

“Ha ragione, bisogna rassegnarsi, non possiamo farci niente, che la vita continua”.

“Già, la vita continua”, ripeté Sarvatùra sistemandosi la giacchetta. Colpito e affondato.

Per una dinamica degli scambi

Una serata memorabile, aveva annunciato il presentatore, e a dimostrarlo chiamò l’esercizio di Masia e Nakir, ma, avvertì, in un modo in cui non l’avete mai visto. Masia venne legata alla ruota e il lanciatore cominciò lo spettacolo. Tutto come le altre sere fin quando il rullio dei tamburi preannunciò qualcosa. Nakir lasciò i coltelli su un tavolino, andò verso la ruota, slegò la ragazza e tra lo stupore del pubblico si fece legare. La ragazza invece si avvicinò al tavolino, prese i coltelli in mano e accompagnata dal rullio dei tamburi che non era cessato, li lanciò verso Nakir. Ogni coltello che s’infilzava intorno al corpo dell’uomo era salutato da un verso liberatorio. Nove coltelli, lanciati sempre più velocemente, fin quando restò l’ultimo. La ragazza allora si bendò, afferrò la lama dal tavolino e tirò indietro il braccio. Il rullio s’interruppe e ci fu un momento di silenzio sacro in cui ogni cosa sembrò fermarsi, ed era impossibile credere che in quell’attimo la Terra continuasse a girare intorno al Sole, che le risacche furiose si frantumassero sulla roccia di Pietragrande, che gli stessi cuori degli spettatori battessero. Il lancio partì, fulminante e preciso. Un applauso scrosciante e un’ovazione in piedi sancì la salvezza di Nakir, che venne subito slegato e, per mano a Masia, girò intorno alla pista per raccogliere le ovazioni. Malarosa era entusiasta, e lo fu ancora di più quando vide Sarvatùra restare rimìsu. Ad Archidemu, che aveva seguito l’esercizio con particolare attenzione, ritornarono i pensieri di quando vide quei due sul manifesto, giorno del funerale di Rorò, che gli si era scarnizzata la pelle solo a pensarci a un gioco così, che certo lui non avrebbe mai avuto il coraggio di lanciare un coltello contro qualcuno, e che se proprio doveva si sarebbe messo al posto di quella disgraziata che aspetta il colpo, ma adesso apprendeva che anche a lei toccava agire, anche chi è legato alla ruota e divide con gli uomini il ruolo di bersaglio, anche costui talvolta può indossare le vesti del lanciatore, che agli esseri dell’aria, talvolta, è prescritto di sporcarsi sulla terra.

Come nuvole, sospesi

“Signore e signori, preparatevi adesso a uno spettacolo unico e straordinario che voi, questa sera, avrete l’onore di ammirare per la prima volta in assoluto. Ecco a voi il poeta delle foglie”.

L’applauso si spense quando le luci illuminarono l’entrata. Entrò una ragazza con un body rosa e dal sacco che teneva in mano tirava fuori foglie che buttava sulla pista, come a creare un tappeto autunnale. Uscì e ci fu un attimo di vuoto. Poi l’artista si fece avanti. Camminava lento e dondolante, quasi trascinandosi. Indossava un bellissimo frac nero con tanto di camicia bianca e papillon. I capelli tirati indietro, brillantinati con la scrima in mezzo, la pelle incipriata come un mimo: si guardava intorno smarrito e quando lo sguardo incrociava il faro della luce strizzava le palpebre. Sembrò un’eternità fin quando si fermò al centro del cerchio: due ventilatori ai lati iniziarono a soffiare e le foglie a muoversi come un angolo di bosco battuto dal vento. Lento come un pianeta nella sua traiettoria, mise la mano in tasca e cacciò fuori una foglia.

“Ma chìddu è Lulù!”, disse Pasquala Ficazzànu.

“Lulù, Lulù, guardate Lulù!”.

E il nome del pazzo riecheggiò sotto il tendone insieme a battute, risate, improperi. Per un attimo Luvia temette il peggio, che qualcuno si alzò perfino in piedi a fischiarlo. Il rullio forte e prolungato del tamburo però funzionò come il richiamo degli ammaestratori e riportò la calma, e in quella penisola di silenzio Lulù guardò per la prima volta Luvia, come lei gli aveva raccomandato tante volte prima di lasciarlo solo, guarda me, guarda me che mi siedo proprio di fronte.

Dal primo giorno in cui i loro passi s’ingualàrunu al richiamo di Cassiel, Luvia accolse il pazzo come un figliolo perso e ritrovato. Lo portò con sé a dar da mangiare agli animali, e gli chiese cosa ci faceva con le foglie nella busta, e lui, senza dire parola, le prese e cominciò a suonare. Luvia restò incantata, e da allora, ogni giorno, si ritrovavano nella sua roulotte e lui suonava e lei ascoltava, fin quando un giorno, complice la copertina di un disco che ritraeva un bosco in autunno, guardandola in faccia come se fosse una Madonna o màmmasa, Lulù le suonò tutto il valzer triste. Luvia pianse, e proprio in quel momento la sfiorò l’idea che quella musica era un peccato non farla sentire al mondo. Il pomeriggio in cui Lulù scappò dal paese come un cinghiale braccato, andò nella sua roulotte. Tremante e smarrito, lo fece stendere sul suo letto, gli asciugò i sudori mischiati alle lacrime destre e alla saliva rappresa, gli accarezzò la fronte, gli cantò una canzone, fin quando non si addormentò come un bambino. E appena sveglio, che nei suoi occhi c’era il terrore, Lulù non ne volle sapere di uscire da lì e Luvia non insistette, vuoi stare con me? Non aver paura, ci sono io, e il folle si lasciò andare nell’affetto di quelle braccia materne. Ai carabinieri che vennero a cercarlo, riferì di non averlo visto.

Non ti preoccupare, gli disse prima dello spettacolo, se hai paura guarda me, negli occhi, hai capito? Guarda me! Così fece, e in quel silenzio Lulù ritrovò il volto intatto di màmmasa che era quello della Madonna. La immaginò seduta sulla panchina a vagheggiare vite impossibili e universi paralleli, ad ascoltare quella musica triste che suonò per lei l’ultima volta che la vide, il valzer incantato che quando lo suonava màmmasa gli appariva di fronte, come ora, e fissandola negli occhi cominciò a soffiare sulla foglia. Centinaia di volte i paesani lo avevano ascoltato, ma quella sera fu come udirlo per la prima volta, che dopo le note iniziali nessuno osò più parlare, dimenticando che l’uomo che indossava il frac era Lulù u pàcciu. Tutti restàrunu rimìsi. Lulù aveva gli occhi chiusi, e mondi viaggiavano di fronte al buio della sua mente, universi, galassie, pianeti dalle traiettorie indisciplinate, e màmmasa, con le ali d’angelo, che volava tra stelle e asteroidi, e la sua musica che la teneva in alto, e lui con lei, sospesi, a vedere gli uomini e i continenti rimpicciolirsi come stelle lontane. Mammà che bello il mondo visto da qui sopra, e questo silenzio mammà, questo silenzio tutto per noi, che non tutti i mondi ci sono esclusi, non tutti mammà, che possiamo volare se chiudiamo gli occhi, e sentirci leggeri, come essere su una foglia, come essere foglia.

Cuncettedda non riuscì a trattenere le lacrime, che quella musica non l’aveva mai sentita ma era come se l’avesse scritta lei nei giorni di disperazione, la trascrizione in note delle notti insonne, dei pianti silenziosi, delle testate al muro, delle docce gelate, come se quella fosse la foglia dei suoi autunni lasciata cadere senza peso e adesso raccolta: Cuncettina ciangìa perché a volte la tristezza è bella quando è passata, come la pioggia, che le strade sono bagnate ma si può uscire, evitare le pozzanghere, sorridere anche. Cuncettina ciangìa perché quella musica poteva anche essere quella dei suoi giorni rinati, del sogno accarezzato, che una stessa musica può essere tristezza e gioia, che una stessa vita può valere per il dolore e la felicità. Si strinse al braccio di Cosimo e appoggiò la testa sulla sua spalla.

Una ferita da medicare

S’erano inseguiti tutta la sera, si guardavano con la coda dell’occhio, e quando uno si voltava subito l’altro ritornava a fissare il circo e viceversa. Le loro braccia si erano anche sfiorate sul bracciolo comune, condite da vicendevoli scuse. Che Malarosa si comportasse a quel modo si potìa capiscìra, ma non Sarvatùra, che tutte quelle esitazioni, quelle parole dette e non dette parevano nascondere un imbarazzo che poteva avere solo un motivo, e la fìmmina ci pensò che forse aveva ragione, che forse non l’aveva dimenticata. Poi comparve Lulù sulla pedana, e mentre tutti lo deridevano e prendevano in giro, Mararosa la mala stette in silenzio, e quando gli altri furono zittiti dal rullio del tamburo lei, sulle prime note del valzer, cominciò a piangere. Come accadeva alla fine delle telenovelas o dei fotoromanzi Lancio, quando un amore finiva. Quella musica le toccò il cuore, glielo pizzicò come una corda di chitarra, e allora lei si voltò verso Sarvatùra e non poteva crederci che anche lui, anche lui, quell’uomo duro e inscalfibile, si commuovesse. Questa volta lo fissò, senza falsi pudori, e rivide lo stesso volto di anni prima, dalla finestra, la sera in cui il suo sogno finì, rivide la stessa faccia smunta e dolorante, gli stessi occhi tristi e rassegnati. E quella volta pianse ancora di più e Sarvatùra si voltò dalla strada e la vide in quel modo, e così se la portò nel cuore, afflitta come il ritratto di una martire, e così la rivide in quel momento, quando si voltò verso di lei, senza fingimenti, e anche lui tornò indietro negli anni, e pensò che Mararosa era rimasta lì, alla finestra, ad aspettarlo. E mentre le note del valzer di Lulù aprivano i cuori degli spettatori come melograni, Sarvatùra appoggiò la mano sul braccio di Malarosa, e la guardò negli occhi, protetto dalla penombra del tendone, e glielo accarezzò come se ci fosse una ferita da medicare, e alla mala non sembrò vero che tutto quello succedesse a lei. Quando il valzer finì, Sarvatùra ritirò la mano e gli occhi, ma il cuore no, il cuore rimase lì, sulla pelle ferita di Malarosa, a guarirla.

Dell’epocale allineamento di pianeti

Signore e signori, come avrete visto finora, abbiamo voluto preparare una serata speciale per ringraziarvi, speciale come lo fu per noi quella giornata di trent’anni fa quando al nostro circo, impegnato in una delle sue infinite tournée, si presentò l’artista che tra poco scenderà in pista. Fui proprio io ad accoglierlo. Non ricordava nulla di sé, nemmeno il nome, ma lì di fronte a noi raccolse alcuni sassi da terra e cominciò a farli girare e roteare e sospendere in aria come pianeti. Da allora non ha più lasciato la nostra famiglia, e stasera è qui, per voi. Fate un forte applauso a Jibril, l’uomo dell’equilibrio.

C’è un momento, nell’universo, in cui ogni cosa si armonizza: le stelle e i pianeti si allineano, le rotazioni coincidono, le rivoluzioni si sovrappongono, le onde gravitazionali si accordano ai cuori degli uomini. In quell’istante il caos si ricompone, il frammento si colloca nel suo insieme, gli eventi mostrano la loro reale portata. Accade quando non ce lo aspettiamo: ci sembra di attraversare una nube caotica che non riusciamo a decifrare e poi all’improvviso ecco una folata di vento, e in quello che ci sembrava un groviglio caotico si delineano indizi di strutture, e quello che era un sistema complesso manifesta comportamenti semplici.

Archidemu avvertì sulla pelle l’eufonia universale e si sentì rimìsu, e sturdùtu, come dopo a un’esplosione vicina, e sorrise di una beatitudine rara, che forse il miracolo non è la sospirata diversità della vita ma il barlume della sua pienezza.

La coincidenza cosmica, riverberata dalle parole del presentatore, sanciva che Jibril era lui, Sciachineddu suo, suo fratello. Non aveva più dubbi, e mentre lo guardava entrare in pista con la consueta frenesia, sorridere e giocare con gli equilibri del mondo, lo immaginò trent’anni prima, incerto tempore incertisque loci, debilitato, con addosso vestiti frusti e sdruciti, scarmigliato, avvicinarsi nottetempo alle roulotte buie e accucciarsi sotto una di loro, e aspettare il giorno, farsi vedere, e senza proferire sillaba raccogliere sette sassolini rotondi, sette, quanto i pianeti dell’astronomia antica, sette quanto gli arcangeli del libro di Enoch, e farli roteare come in un invisibile planetario, e dopo aver raccolto lo stupore e l’ammirazione dei circensi, prendere i sette sassi e lanciarli lontani, lungo orbite già prestabilite, che le pietre scagliate in aria e in mare rispondono alle stesse leggi delle traiettorie delle comete.

Archidemu lo guardò con rinnovato affetto, e gli venne desiderio di abbracciarlo a sé, di prenderne il volto tra le mani e fissarlo negli occhi e dirgli fratello mio, fratello mio, quanto mi sei mancato, quanto ti ho cercato nel mondo e perfino nell’universo, ogni giorno della mia vita ho pensato a te, se mi chiamavi, se abbisognavi, dov’eri, cosa pensavi. Fratello mio, e adesso sei qui, vicino a me, e io non so cosa fare, se costringerti al mio fianco o lasciarti sulla tua strada senza nome né passato. Sciachineddu mio, che il mio timido tentativo di vita te lo sei portato con te, quel giorno maledetto.

Gli sembrò che lo spettacolo finisse prima del solito, e quando Jibril alzò le braccia per raccogliere gli applausi, Archidemu uscì. Si fermò a una decina di metri dalla roulotte del fratello. Infilò la mano destra nella tasca della giacca e toccò la foto di Sciachineddu che si portava dietro da qualche giorno. Quella sera aveva pensato di prendere anche la tartaruga, aveva immaginato di lasciarla a terra tra le roulotte e vedere se si dirigeva verso quella di Jibril. Ma poi lasciò stare. Guardò verso la volta stellare e riconobbe l’asterismo con Altair, Deneb e Vega. Sentì dei passi avvicinarsi. Si voltò e riconobbe il profilo del corpo all’ombra, il suo avanzare lento, metodico, macchinoso.

“Sciachineddu”.

Non seppe neanche lui dove trovò il coraggio di spiccicare quel nome. Gli sembrò strano pronunciarlo così, ad alta voce, dopo tutti quegli anni. Fece un passo avanti per uscire dal cono d’ombra in cui si era rifugiato.

Jibril si fermò e si voltò lentamente. Un raggio lunare cadeva sul suo volto e lo schiariva. Non l’aveva mai visto tanto vicino, e avvertì nuovamente la sensazione che fosse un’altra persona rispetto all’artista spumeggiante di poco prima: pacato, serio, con lo sguardo rassegnato. Lo osservò come faceva con le sue mappe stellari cercando di trovare sul viso un qualunque segno di reazione a quel nome: un aggrottamento delle ciglia, un irrigidimento delle rughe sulla fronte, un protendersi esitante delle labbra. Jibril, fermo e impassibile, lo fissava con la sua stessa intensità.

“Mi scusi?”.

Non ricordava più la voce di Sciachineddu. Era stata la prima cosa che aveva smarrito, il primo particolare che la memoria aveva tralasciato. I suoi erano ricordi muti, silenziosi, in cui al massimo s’inserivano rumori di fondo, il vento tra le foglie e i rintocchi delle campane. Gli uomini nei suoi ricordi non parlavano, così non aveva un termine di paragone, un recupero infantile da giustapporre: quella voce, sospesa in quell’angolo di universo come un satellite, poteva essere ogni voce. Archidemu aveva pensato a lungo cosa avrebbe detto al fratello e immaginava, con la pronuncia del nome, che il cielo di carta si sarebbe strappato, che la coperta che celava i ricordi d’infanzia si sarebbe sollevata all’istante e che per la forza evocativa di quella parola Jibril avrebbe in un attimo riacquistato il suo passato e le sue origini. E invece l’uomo senza memoria restò impassibile, che se ebbe una qualche impercettibile reazione, il rallentamento di un battito del cuore o un pensiero più pesante degli altri, non lo fece vedere. Si scambiarono uno sguardo lungo, troppo perché non dipendesse da quella parola, pensò Archidemu, che in una condizione normale Jibril si sarebbe già voltato e andato via, e invece non riusciva ad allontanarsi come se quel nome lo avesse inchiodato alla trave del passato.

“Diceva a me?”.

Non era il tono impaziente e infastidito di chi, dopo aver messo a dura prova il sistema nervoso e muscolare del proprio corpo, ha fretta di sdraiarsi sul letto e fuggire dal mondo. Era al contrario un tono conciliante, disponibile. Archidemu strinse ancora di più la fotografia nella tasca.

“Mi scusi, per un attimo l’ho confusa con una persona che non vedo da molto tempo”.

Jibril non si muoveva.

“Mi assomiglia?”.

“Sì, molto. Si chiama Sciachineddu”.

Questa volta non pronunciò il nome velocemente come se fosse quasi una bestemmia, no, questa volta sillabò ogni lettera, la offrì a voce alta come una preghiera disperata, aspettando segni dal cielo.

“Che nome strano ha il suo amico”.

La frase rimase come sospesa, Jibril fissava un punto in basso come chi cerca di ricordare e Archidemu pensò che era il nome che tentava di tornare a galla.

“Mi scusi allora, ho sbagliato persona”.

“Buonanotte”, disse Jibril voltandosi e andando via.

Fece tre passi quando Archidemu, con un gesto rapido e singolare, buttò verso di lui la fotografia che teneva in tasca.

“È sua?”.

Jibril si fermò e ritornò a guardarlo.

“Quella foto è sua?”, ripeté lo stoico indicandola con la mano.

L’equilibrista si avvicinò e la raccolse. C’era un ragazzino con la camicia bianca, sorridente, che teneva per mano un ragazzo più grande di lui, tagliato a metà. La voltò e scritta a mano c’era una parola, Crisippu.

“No, non è mia”.

“Allora l’avrà persa qualcuno. La tenga lei, chissà vengano a cercarla”.

Jibril guardò ancora il bambino della foto, quindi salutò di nuovo e scomparve nella roulotte.

Lo stoico continuò a fissare in quella direzione e lo immaginò appoggiare la foto sul ripiano, spogliarsi, lavarsi la faccia, e mentre andava a stendersi sul letto riprenderla e guardarla.

Fu così che Archidemu lasciò il fratello, disteso sul letto a mirare sé stesso bambino, e lui vicino, a tenergli la mano come nella foto, che la distanza è solo un’illusione, o forse non esiste, che a un livello più profondo tutte le cose sono infinitamente collegate tra loro. Se si scelgono due punti vicini nello spazio originario, non si può congetturare dove si troveranno qualche tempo dopo. Essi potranno essere spinti dal complicato processo di piegamenti e distensioni a una distanza fra loro arbitrariamente grande. Così come due punti che in qualsiasi momento vengano a trovarsi vicini, in principio potrebbero essere stati separati da una distanza smisurata.

Guardò in alto. Anche le stelle, disseminate nella volta celeste, non erano altro che punti luminosi, profondamente vicini, estremamente lontani. Archidemu sospirò e tornò a casa, il cielo stellato sopra di lui, l’insoddisfazione umana in lui.

Sovrapposizione di orbite elittiche

“Perché stai piangendo?”.

“Mi sono emozionata”.

Le luci si spensero e Angeliaddu tornò a guardare verso la pista dov’era arrivato il lanciatore di coltelli. Màmmasa invece si voltò a destra, e anche adesso che la luce era debole quei due volti erano riconoscibilissimi, lì, a Girifalco, a soli sedici metri dal suo corpo. Lo spettacolo per lei finì in quel momento, che la sua testa fu sopraffatta da munzeddàte d’emozioni e pensieri. Fu come se quattordici anni non fossero passati o meglio assomigliassero a una notte insonne: ricordò l’ultima volta che vide il padre prima che le voltasse le spalle e sparisse in casa, l’ultima volta che màmmasa, piangente come una Madonna addolorata, la supplicò di fare quel nome, di parlare, che forse le cose potevano ancora acconzàrsi. Non c’era giorno della sua vita in cui non li aveva pensati, in cui non aveva smesso di amarli sebbene l’avessero cacciata e seppellita sotto una vita di detriti e rovine. E quante volte, in preda alla disperazione, avrebbe voluto un abbraccio della madre, una carezza del padre, di quell’uomo che l’aveva ripudiata suo malgrado, che era certa non aveva smesso un attimo di pensarla, a quell’unica figlia che amava nell’unico modo in cui alcuni uomini sono stati abituati ad amare, col silenzio, il dolore, la sudditanza ad antichi codici cavallereschi. Erano là, a sedici metri dal suo corpo, il padre e la madre, arrivati da Catanzaro, che màmmasa amava i circhi e non se ne perdeva mai uno. E la immaginava, venuta a sapere dell’arrivo di un circo importante, cucinare al marito le uova fritte con la cipolla per circuirlo e convincerlo a portarla fino a Girifalco, sì, fino a Girifalco. Per il suo regalo di compleanno. Ricordò anche quello all’improvviso, che oggi era il compleanno della madre. La guardò, il sorriso che le fiorì sulla bocca la ferì. Sperava che màmmasa avesse dimenticato come si sorride, che la nostra massima ambizione come esseri umani è di essere amati in maniera esclusiva e incondizionata.

Giove impiega più di undici anni, nel suo periodo siderale, per compiere la rivoluzione intorno al Sole; Saturno quasi trenta. Taliana, che se fosse stata un pianeta la meccanica celeste l’avrebbe prevista in mezzo a loro, attese quattordici anni, quattordici lunghi anni perché completasse l’orbita e ritornasse alla sua origine. Non sarebbe mai più successo di trovarsi così vicina ai suoi genitori. Guardò per un attimo Angeliaddu, ricordò la disperazione di certi momenti, la sua preghiera sempre la stessa, che suo figlio venisse protetto, e adesso forse quella combinazione di meteore umane significava che i protettori erano giunti. Sì, li avrebbe fermati. Ma loro? Cosa avrebbero detto? L’avrebbero ripudiata come allora? Furono così tante le immagini e i pensieri che Taliana giunse impreparata all’annuncio del conduttore che lo spettacolo stava per terminare con l’ultima esibizione, quella della contorsionista Mikaela. E così, guardando quella donna rivoluzionare le leggi dell’anatomia, cercò di trovare parole e coraggio, coraggio e parole per fare anche lei una piccola rivoluzione.

Durante l’applauso finale Angeliaddu si alzò per andare con màmmasa da Batral ma lei lo fermò.

“Dopo, andiamo dopo, prima c’è una cosa più importante”.

Lo prese per la mano e lo portò fuori voltando la faccia a sinistra per non farsi riconoscere.

“Cosa c’è, mamma?”.

“Stai qui con me. E comportati educato”.

Gli prese la mano e si fermò in un cono d’ombra a una decina di metri dopo l’uscita. Gli spettatori cominciarono a defluire tra un vociare continuo. Poi li vide, in fondo, avvicinarsi. Màmmasa si teneva al braccio del marito e non aveva più il sorriso di prima, ma un’espressione nostalgica, malinconica, proprio come la figlia se la immaginava. Il cuore le paccijàva: a ogni passo che facevano stringeva sempre di più la mano del figlio per farsi coraggio fin quando, nella predestinata ciclicità del sistema solare, la cometa Shoemaker-Levy 9 sfiorò Giove con un sibilo che pareva voce umana.

“Papà”.

I due si bloccarono, pietrificati da sguardo gorgonico ed egli esitò, come se vedendo, nulla sarebbe del tornar mai suso. Taliana pensò che il cuore si fosse fermato anche a loro, perché se è vero che il Sole, la nostra stella, sta morendo, se è vero che perde ogni giorno una parte di sé inghiottita dai buchi coronali, allora anche un semplice cuore umano può d’un tratto indebolirsi.

Non si voltarono subito, immobilizzati dalle macerie di ricordi franati sui loro corpi annosi.

“Papà”.

Taliana ripronunciò l’amata parola sotto gli occhi stupiti di Angelo. I due si voltarono insieme, come pastori d’un presepe meccanico. I loro volti di gente vecchia le misero addosso una tristezza di vite sciupate che la fece star male, e un improvviso desiderio di abbracciarli e recuperare tutto. Cercò di capire se erano contenti.

“Taliana”, fu la parola accorata della madre. “Taliana mia”, e staccandosi dal braccio del marito le corse incontro ad abbracciarla, stringendosela forte al petto. Poi guardò a destra. Non c’era bisogno di parole.

“E tu come ti chiami?”.

“Angelo”.

La donna gli accarezzò la guancia e le lacrime fino ad allora trattenute cominciarono a scendere.

“Ti posso abbracciare?”, e non attese risposta che attirò a sé quel corpo che gli apparteneva come un rimpianto. Poi si alzò, lo prese per mano e si avvicinò al marito.

“Questo è napùtata, questo è sangue del tuo sangue, non startene fermo, che i nostri desideri si sono avverati”.

Orazio allungò una mano e gliela mise sui capelli e per la prima volta sorrise. Poi alzò lo sguardo verso la figlia, e fu come un segnale che lei s’avvicinò con passi ampi. La abbracciò, come ogni notte aveva sognato maledicendo il giorno in cui l’aveva cacciata, come ogni giorno in cui sperava di vedersela di fronte a casa, come tutte le volte che si era informato in quale angolo del mondo fosse finita.

Taliana si rivolse al figlio: “Angelo mio, questi sono i tuoi nonni, i tuoi nonni”, e se lo tirò a sé per includerlo in quella gravitazione di affetti.

“T’assomìgghia, e pure assai”, disse la moglie, e a quelle parole l’uomo sentì un orgoglio sconosciuto.

Angeliaddu vide Batral vicino al tendone che lo salutò con un cenno del capo.

Erano rimasti solo loro nel piazzale.

“Non andatevene subito”, chiese Taliana.

“No, fìgghia mia, non ce ne andiamo subito. Portaci tu dove vuoi. Non potevo ricevere un regalo migliore”.

Si fermarono al bar Centrale e s’assettàrunu all’ultimo tavolino in fondo e poi Taliana li invitò a mangiare a casa sua: “Stasera è festa, c’è la musica”.

E così un’ora dopo si ritrovarono a tavola, e per Taliana fu come se li avesse avuti sempre lì, che dopo l’impaccio iniziale ritornò a sentirsi quella figlia che aveva dimenticato, e mentre cucinava e li vedeva intorno al tavolo, le tre persone al mondo che gli erano più care, provò una sensazione di pienezza molto simile alla felicità.

Prima d’andare via, il nonno tirò fuori dal portafoglio tre banconote grandi, che quando le vide Taliana pensò a quanti panni aveva dovuto stirare per vederne una sola e chiamò a sé Angeliaddu: “Questi sono per te, per tutti i compleanni che non t’ho regalato”.

Al ragazzo gli brillarono gli occhi: “Grazie”.

“Ni vidìmu lèstu, fìgghiama. Ti cercàmma dappertutto, e mò che vi trovàmma non vi lasciamo più”.

E quelle parole di speranza galleggiarono in quella camera anche dopo che la porta fu chiusa, e furono come la scia di una stella cadente che semina voglia di desideri. Taliana guardò il figlio e vide di fronte a lui una strada meno irta. Lui guardò i soldi in mano e poi andò verso il barattolo dell’Ovomaltina e li mise dentro, e si sentì bene.

Una collisione di particelle

Venanzio andò ad aspettarla di fronte alla roulotte. Passeggiava nervosamente e quando qualcuno passava abbassava la testa per evitare ogni sguardo. Fissava l’uscita secondaria dello chapiteau e l’impazienza dilatava il tempo. Poi riconobbe la figura, all’ombra, e tremò, appoggiandosi alla roulotte come a trovare un punto d’appoggio gravitazionale. Nascose il pacchetto che teneva in mano dietro le spalle. Quando si accorse di lui, Mikaela sorrise. Era l’ultima volta che si vedevano, e la consapevolezza dell’epilogo rese tutto più solenne. Venanzio se lo ripeté come un ritornello: è l’ultima volta, è l’ultima volta, sperando così di trovare il coraggio di osare ciò che altrimenti sarebbe rimasto inespresso.

“Immaginavo di trovarla qua”, disse Mikaela.

Venanzio restò spiazzato, come quando un gesto che pensavamo unico e geniale viene fatto rientrare e collocato nella prevedibilità dei fenomeni terrestri.

“Più che immaginarlo lo speravo. Non ho avuto modo di ringraziarla per il body”.

Il sarto, lusingato, abbassò lo sguardo: “Volevo salutarla. Domani partite, vero?”, e aggiunse quella domanda sperando nel diniego.

“Sì, d’altronde è questa la nostra vita, fermarsi e partire, fermarsi e partire, all’infinito”.

“È un vero peccato che non restiate di più”.

“Non dovevamo nemmeno fermarci qui, non era previsto che venissimo a Girifalco, e invece è successo. Le nostre vite si sono incrociate quando avrebbero potuto benissimo non farlo mai”.

“Una strada sbagliata”.

“Esistono davvero strade sbagliate?”.

Venanzio impostò la voce: “E non vi viene mai voglia di fermarvi in un posto?”.

“Tutte le volte che mi fermo vorrei non andare più via, e in alcuni posti più degli altri. Anche qui, a Girifalco, anche qui penso sia un posto dove poter vivere, ma sono certa che dopo un po’ di tempo soffrirei di nostalgia”.

“Voi siete una donna giovane, bella, vi sarà capitato di conoscere qualcuno per cui valga la pena fermarsi in un posto”.

“Mai al punto di lasciare tutto. E poi mi piace esibirmi, in fondo se hai una dote devi mostrarla”.

“Avete ragione, e si tratta di una dote straordinaria”.

“E voi, qual è la vostra dote, Venanzio?”.

Era arrivata la frasesca. Il casanova clandestino chiamava così quella frase che nel dialogo con una donna gli offriva la possibilità di mutare la natura colloquiale e convenzionale di un dialogo e portarlo sui binari dell’offerta erotica, un’esca appunto. A quella domanda, in condizioni normali, Venanzio ne avrebbe approfittato per mostrare hic et nunc la sua dote, ma tutto ciò che riguardava quella donna lo bloccava. E lì dove in altri momenti si sarebbe esposto, il sarto le mostrò il regalo che teneva dietro la schiena, confezionato con carta bianca e nastro rosso.

“L’ho messa qui dentro, per voi, la mia dote. Tenete, è vostro”.

“Non dovevate”, rispose Mikaela mentre lo prendeva e apriva.

Si trovò tra le mani un body bianco, splendido, come non ne aveva mai visti. Dal giorno in cui le aveva preso le misure, decise che le avrebbe cucito un body unico, bianco ovviamente, del miglior raso in circolazione, e intere ore spese a ricamare i bordi e le cuciture con filo d’argento, lo stesso usato per il ricamo centrale, le ali aperte di un angelo. Mikaela lo prese dalle spallette e lo mirò in tutta la sua bellezza.

“È splendido! Le vostre mani hanno davvero una grande dote. È così bello che ho paura d’indossarlo, mi spiacerebbe si strappasse anche solo un filo”.

“Indossatelo tutte le volte che vorrete, se mai dovesse strapparsi sapete dove trovarmi. E poi ci sono le ali, vi proteggeranno”.

Disse proprio così, proteggervi, che quando lo cuciva era come se stesse costruendo una campana di vetro che la riparasse dalle insidie del mondo, che mentre ricamava punto dopo punto gli ritornarono in mente le parole della preghiera scritta su una mattonella Angelo di Dio che apparteneva a mastru Gatànu che sei il mio signore che quando lui morì e buttò un po’ delle sue vecchie cose illumina quando la prese in mano custodisci fu come bloccato reggi da una sensazione strana come di un peccato governa e allora la lasciò al suo posto me sopra la macchina da cucire che ti fui affidato e spesso la leggeva come una filastrocca dalla pietà celeste fin quando non la imparò a memoria amen.

“Grazie”, disse guardandolo negli occhi.

Ci fu un momento di silenzio.

“Lo vorrei anch’io un regalo”, chiese Venanzio.

Mikaela lo fissò.

“Un vostro manifesto, come una fotografia per ricordarmi di voi”.

“Volete ricordarvi di me?”.

Venanzio la rimirò: “Non voglio dimenticarvi”.

In quel momento Cassiel passò di lì per andare verso le gabbie.

“Se aspettate lo prendo”.

Entrò nella roulotte che lasciò aperta. Venanzio guardò dentro; su una sedia era appoggiata una spazzola rosa con ancora i capelli intrecciati tra le setole: gli fece tristezza, come ogni oggetto della persona amata che ci suggerisce un’idea d’intimità dalla quale siamo esclusi. Quando la sentì avvicinarsi fece un passo indietro e distolse altrove lo sguardo.

“Questo è per voi, non è prezioso come la vostra tuta”.

“Lo è, credetemi”.

Nel silenzio improvviso Venanzio capì che era venuto il momento di andare e la consapevolezza fu una mano di ferro che gli afferrò il cuore e ne fermò i battiti.

“Ritornerete più a Girifalco?”.

“Non ci fermiamo mai due volte nello stesso posto, Cassiel dice che ci sono troppi uomini e donne che aspettano di essere felici, e noi talvolta un po’ di felicità la portiamo”.

“Allora non ci vedremo più”. Venanzio abbassò lo sguardo: “Addio, allora”.

“Posso darvi un bacio?”.

Fu lei a chiederlo e Venanzio, immobilizzato, annuì col capo e chiuse gli occhi perché quell’attimo voleva viverlo come un sogno, e così sentì la mano di lei sulla spalla, il profumo d’acqua di rose più intenso, il respiro sul collo e poi le labbra, quelle labbra sognate che si posavano sulle sue, in un angolo della pelle in cui mai nessuna donna lo aveva baciato e che dal giorno in cui nacque era destinato a quella collisione di particelle umane. Riaprì gli occhi quando Mikaela aveva già messo piede sul gradino della roulotte.

“Abbiate cura di voi”, gli disse.

Venanzio la fissò un’ultima volta e poi andò via.

“Perché non volete dimenticarmi?”.

Si voltò e la vide sospesa sulla porta, come in bilico tra due mondi, come la luna quando è dimezzata, come una mano che si allunga dal finestrino del treno ed è nello stesso tempo il passato e il futuro.

“Perché?”.

Venanzio alzò le spalle e non rispose. La vide dopo un attimo d’esitazione entrare dentro e chiudere la porta, e lui rimase lì immobile, a fantasticare le traiettorie dentro quell’universo di schiuma poliuretanica, la immaginò spogliarsi, sedersi alla sedia, pettinarsi con la spazzola rosa, infilarsi a letto dopo aver appeso con cura la tuta d’argento. Venanzio era escluso da quell’universo come da una pioggia di comete. Sospirò, come tante volte aveva sentito fare alle donne che sgusciavano nel buio dalla sua alcova, e dovette aspettare tutti quegli anni per capire che il sospiro è il segno di resa degli uomini che abdicano di fronte alle irrevocabili sentenze dell’universo.