Il ventiquattro agosto le statue di san Rocco e della Madonna, che erano state assieme per nove giorni, si salutavano solennemente e si dividevano col rito della Spartenza. Ma a Girifalco, come in tutti i posti del mondo, l’ultimo giorno di festa non era più festa, che l’Ottavara, com’era chiamata quella giornata, veniva vissuta con la tristezza delle stagioni e degli anni che trascorrono nostro malgrado: le vacanze finivano e un altro anno passava perché in quel fazzoletto di terra calabrese l’anno solare era stato sostituito dall’anno patronale, che cominciava la prima domenica d’agosto, con la festa della Madonnina di Covello, e si concludeva sempre il ventiquattro agosto, il san Silvestro dei cirifarcùati. Un anno concentrato in tre settimane, che tutto quello che accadeva poi non faceva parte del loro tempo, era come un buco spaziotemporale in cui si scendeva nel ripostiglio dell’esistenza in attesa di ritornare alla vita. Che i cirifarcùati non lo sapevano ma avevano trovato un modo diverso di misurare il tempo, non contando lo scorrere scialbo delle ore e degli anni ma interponendo epifanie, scandendolo in attese ed eventi.
E così, mattina dell’Ottavara gli abitanti di quel paese si svegliavano tristi, appesantiti da un anno in più sulle spalle, dalle imminenti partenze degli emigrati e degli studenti, e quel giorno anche dalla partenza del circo. La mestizia si mescolava ai passi lenti della gente, ai saluti sottovoce, ai silenzi dei bar, al vento freddo che da Covello aveva sospinto verso il mare come un ospite ingrato l’afa opprimente. Appena svegli, ai cirifarcùati quel giorno s’incarnava nella testa la zìcca dell’immagine delle statue che si lasciano sul sagrato, e l’uggia dell’addio ammantava ogni buon proposito di quella lunga giornata. Anche il suono della banda che passava la mattina aveva perso il brio e la gioia dei giorni precedenti per assomigliare al malinconico fischio di un treno in partenza.
Un miracolo tardivo
Chìdda matìna, pulizzando a fondo la chiesa per il giorno sacro della Spartenza, la sacrestana trovò, dietro la vetrina degli ori votivi di san Rocco, la reliquia di cartapesta a forma di mano del cui furto era stato accusato Angeliaddu. La cristiana restò rimìsa, manco avesse visto il diavolo in persona. Stava per raccoglierla, ma poi lasciò stare e andò lèstu a chiamare don Guari.
“Venìti, venìti, miracolo, che la reliquia tornàu alla casa!”.
“E quanti miracoli ci fa santu Ruaccu?”.
Quando la vide, nascosta come a mucciatèdda, don Guari la prese in mano. Faceva impressione, che le dita erano spezzate eccetto l’indice e il mignolo. La sacrestana si segnò.
“E come arrivò qui?”.
La zitella alzò le spalle. “Qui non avevo cercato”, si giustificò.
“Che c’entra, Mariettuzza, mica dall’altarino a qui è venuta da sola!”.
“Ci hanno fatto qualche scherzo?”.
“O è così, oppure chi l’aveva rubata l’ha riportata”.
In quel momento don Guari ebbe come un’illuminazione. Nei giorni successivi al furto, pensando al motivo per cui qualcuno avrebbe dovuto sottrarla, era una l’ipotesi che più lo convinceva. Mai nessuna reliquia era mancata in tutti quei decenni d’esposizione, eccetto quell’anno, guarda caso qualche giorno dopo un evento miracoloso come la guarigione di Giobbe. A don Guari quei due fatti straordinari sembravano collegati. E adesso un’ulteriore conferma: il giorno dopo che si era saputo che quello di Giobbe non era un portento divino ma un evento assolutamente terreno e medicalmente possibile, ecco che reliquia spuntava di nuovo. Non era un caso.
“Gli hanno fatto le corna quei disgraziati! Qui c’entra qualche messa satanica!”, disse la sacrestana.
“Di certo non quel poveraccio di Angeliaddu”, chiosò il prete.
“Dobbiamo avvertire il maresciallo”.
“Ci penso io”.
Il padre mancato
Angeliaddu arrivò al circo che già erano cominciate le operazioni di smontaggio. Si mise ad aiutare Batral che stava riponendo alcune sedie. Lo aiutò fino a quando le campane suonarono mezzogiorno. Quel giorno non poteva fare tardi perché i nonni venivano a pranzo. Andarono verso la roulotte. Batral s’assettò sui gradini con una bottiglietta d’acqua in mano.
“Ho saputo cos’è successo l’altro giorno. Ho dimenticato di dirtelo in questi giorni, sei stato davvero in gamba”.
“È stato grazie a te!”.
“A me?”.
“Sì. Nel momento in cui dovevo saltare ho pensato a te, a come prendi la rincorsa, e poi se non ci fossero stati gli esercizi e gli allenamenti di questi giorni… Ho afferrato il balcone solo per pochi centimetri, e quei centimentri me li hai dati tu. L’hai salvata anche tu la bambina, perché tu eri con me quando ho fatto quel salto”.
Parlò troppo e si prese una breve pausa.
“Non ci vedremo più”.
La voce di Angeliaddu era rotta dall’emozione.
Anche Batral era commosso.
“Non si può dire. Magari tra qualche anno andrò a vedere un circo con un bravo trapezista e ci sarai tu là in alto”.
“Lo credi davvero?”.
“Certo. E devi crederci anche tu. Non smettere di farlo”.
Subito dopo l’accusa del furto della reliquia, Angeliaddu aveva pensato di lasciare tutto e di chiedere a Batral di portarlo con lui. Glielo aveva anche chiesto, una sera, fugacemente, ma il circense aveva fatto finta di niente. Quella fantasia gli fece compagnia per qualche tempo e un po’ lo consolò. Ma adesso tutto era cambiato, il nuovo lavoro della madre, i nonni, la gente che cominciava a volergli bene. Adesso era più difficile lasciare tutto, e Batral glielo ricordò: “Ogni giorno ci svegliamo e non sappiamo cosa ci accadrà. Basta un attimo, Angelo, un attimo perché tutta la vita cambi. Non ti sei arreso e hai fatto bene, non arrenderti mai, potresti farlo un attimo prima che si compia il miracolo”.
Il trapezista gli sarebbe mancato come una persona cara, quell’uomo che avrebbe voluto avere come padre, che fino ad allora tutte le volte che pensava a questa figura assente immaginava un individuo senza volto, senza corpo, un’ombra indifferenziata di grigio, e invece da quel giorno, tutte le volte che avrebbe pensato al padre gli sarebbe venuta in mente la faccia di Batral, e l’eredità paterna sarebbe stata la sua bravura nel trapezio, che forse non era così assurdo che anche lui avesse il ciuffo bianco. E allora salutare qualcuno che assomigliava a un padre era più doloroso, e gli venne da piangere e lo avrebbe fatto se màmmasa non gli avesse insegnato che non si piange davanti a nessuno.
“E non abbandonare mai tua madre, che lei è stata affidata a te”.
Angeliaddu non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi.
“Tieni”.
Batral si tolse il foulard che aveva in testa e glielo porse.
“Promettimi che lo indosserai la tua prima volta sul trapezio, solo quella”.
Angeliaddu lo prese e lo strinse forte.
“Te lo prometto”.
“E adesso vai, se no fai tardi. E poi qui hanno bisogno di me”.
“Ci incontreremo ancora?”.
“Ci incontreremo. Prenditi cura di te”.
Angeliaddu fece per andare ma dopo solo due passi ritornò indietro e corse ad abbracciarlo, e questa volta non riuscì a trattenere il pianto, adesso che finalmente stringeva ciò che più al mondo era simile a suo padre: fu come se quell’abbraccio lo aspettasse da sempre, e in quell’intervallo di tempo capì qual era la parte mancante della sua vita. Che ancora una volta non aveva fatto in tempo a conoscere un padre che già il destino glielo allontanava.
Se ne andò così, Angeliaddu, piangendo con gli occhi bassi per non farsi vedere, mentre Batral, col cuore gonfio, ritornò ad aiutare i compagni.
Sul principio d’indeterminazione
Quando gli disse che sarebbe andata al mercato di Borgia con il pullman, Cosimo lì per lì non disse niente. Memore di quello che s’ammunzeddàva nella testa della mugghièra, non osava contraddirla. Anzi, le chiese che se voleva saltava la mezza giornata di lavoro e l’accompagnava ma lei s’affrettò a negare.
Mattina dell’Ottavara si svegliò presto, con le prime luci dell’alba, ma aspettò a letto che il marito uscisse. Voleva stare da sola. Andò in cucina, e quando mise il latte sul fornello gli occhi caddero sul ciucciotto che era ancora nel bicchiere dell’acqua. La colazione gli diede meno fastidio, così andò a lavarsi e vestirsi senza la solita sensazione di nausea. L’autobus passava alle otto e dieci alla fermata di fronte al bar di Rocco Ziparo. Guardò l’orologio, aveva un quarto d’ora. Prese la tazza e la tovaglietta e le appoggiò nel lavandino. Lo sguardo cadde ancora sul ciucciotto. E allora fece un gesto quasi involontario, come quando si scaccia una zanzara, prese quel pezzo di caucciù, lo asciugò e se lo mise nella borsa.
Scese all’inizio del mercato e s’infilò tra le bancarelle ma camminava velocemente, come se dovesse andare in un posto preciso. E infatti, a metà strada, deviò e s’infilò in una via secondaria. Un’ora dopo era già sulla corriera che la riportava a Girifalco.
Andò a casa, appoggiò la borsa sul tavolo e s’impose di cucinare anche se la sua testa era altrove. Quando mise il sugo sul fuoco, si chiuse in bagno. Aprì il foglietto delle istruzioni. Di mattina, certo, aveva aspettato apposta, ma che dovesse bere meno liquidi possibili non lo sapeva. Pensò se un bicchiere di latte e uno d’acqua non fossero troppo. Quando sei pronta estrai lo stick dalla pellicola di protezione e rimuovi il cappuccio blu. Era pronta, non lo era mai stata così. Afferrò lo stick facendo attenzione e si sedette sul vaso. Si era trattenuta tutta la mattina e così si liberò facendo attenzione che il flusso finisse sull’estremità assorbente. Bastavano cinque secondi ma lei lo bagnò fino alla fine. Sentì un odore diverso. Rimettere il cappuccio sullo stick per il test e appoggiarlo in piano. Attenzione: durante il test non tenere mai lo stick per il test con l’estremità assorbente rivolta verso l’alto. Attendere tre minuti. La comparsa di linee blu indica che il test di gravidanza è in corso di esecuzione. Tre minuti in cui si sforzava di non pensare a niente malgrado folle d’immagini e pensieri mbuttàvanu per entrare. Tre minuti nei quali fissò lo stick e l’orologio, che basta un minuto a cambiarti la vita, in un minuto possono nascere e scoppiare intere galassie, migliaia di nebulose che passano millenni a prepararsi a un’esplosione di pochi attimi, come certi uomini che vivono una vita a volte solo per pronunciare una parola o sfiorare qualcuno per strada. E per farli passare prima contava i secondi, ingannandosi, che minuti e secondi sono uno stratagemma umano per illudersi che il tempo funzioni, il tempo scorre e io vivo, il tempo scorre e io vivo, che se l’orologio si fermasse improvvisamente anche tu finiresti di vivere. Positivo: se sono visibili due linee colorate e la linea di test ha lo stesso colore o è più scura rispetto alla linea di controllo. Negativo: non vi è alcuna secrezione di LH. Sulla finestra di controllo appare solo una linea colorata o la linea di test risulta più chiara rispetto alla linea di controllo. Cuncettina fissò la finestra di controllo: tutto il suo universo e la sua eternità erano stipati in quei pochi millimetri di bianco opaco.
Principi primi di conservazione
Lo aveva tenuto con molta cura. La sera prima, appena arrivato a casa con il cuore gonfio di tristezza, lo aveva srotolato, appoggiato sul tavolo del soggiorno e tenuto disteso da quattro oggetti che aveva poggiato sugli angoli.
Quella mattina Venanziu si svegliò con le idee chiare: sul tavolo c’era anche la cornice ventipertrenta che aveva comprato apposta. Prese il vetro e lo appoggiò sopra il volto di Mikaela, lo spostò qualche centimetro per centrarlo e poi ritagliò il manifesto in corrispondenza del vetro. Sistemò la cornice e andò verso la parete. Alla stessa altezza della copia di Lamantea aveva infilato un chiodo qualche giorno prima. Vi appese il nuovo quadro, il volto di Mikaela, che era come l’origine di un nuovo mondo nel quale non sapeva ancora come avrebbe vissuto, ma si sentiva come uno che cambia città e che è disposto a sbagliare strada pur di assecondare la nuova vita. Si vestì elegante, s’improfumò sotto le ascelle e sul collo e andò da Antonia, con un mazzo di fiori.
Nei gesti, la misericordia
La Spartenza, a essere precisi, cominciava già il quindici agosto, quando le statue di san Rocco e della Madonna s’incontravano, che negli incontri è spesso già prefigurato il momento dell’addio. E così, per tutta la settimana di festa, quando le statue una al fianco dell’altra erano inseparabili, non si poteva non pensare all’ultima processione che quel giorno sarebbe uscita dalla chiesa alle cinque e mezza per finire il suo giro nella piazza di fronte alla Matrice intorno alle otto.
Metteva tristezza l’Ottavara, che ogni spartizione è come una piccola morte. Lo sapeva il fidanzato del Nord che tra due giorni avrebbe lasciato il suo amore estivo, e la guardava di profilo sapendo che tra qualche mese, quando la neve sarebbe scesa su Torino, lui sarebbe stato solo un ricordo. Lo sapeva Pepè Rosanò che il giorno dopo avrebbe accompagnato la fìgghia e i nipoti alla stazione, che ogni volta se li abbrazzàva come se fosse l’ultima, chiudendo gli occhi e sentendo quelle piccole braccia circondargli il collo e lui che pensava ricordalo, ricordalo, che il prossimo anno potresti non esserci; lo sapeva Domenico che il giorno dopo avrebbe preso l’aereo per Pisa, che lui odiava gli aeroporti e le stazioni, che solo a pensarci diventava triste, di una tristezza che rasenta il dolore. Che anche domani avrebbe pianto vedendo la figura solitaria di màmmasa sparire dietro una porta automatica, di màmmasa che fino all’ultimo cercava di non ciangìra ma che poi, appena sola in macchina, si lasciava andare sciogliendo un dolore atavico, ancestrale, depositatole nel sangue già prima della nascita, quei dolori che misteriosamente le comunità distillano nelle vene dei loro discendenti. Le bastava vedere un aereo o un treno perché le stimmate invisibili scavate da centinaia di partenze, di abbandoni, di addii, di solitudini inconsolabili, ritornassero a sanguinare cariche e appesantite dall’ultima sofferenza. Era un dolore senza consolazioni, stagnante, che mai le gioie future avrebbero bilanciato la somma di tutte le piccole morti provocate dalle partenze del figlio.
Già alle sette le strade, il Piano e la Chiàzza scoppiavano di gente come quando, mattina di Pasqua, si faceva la Cunfrunta. Quando mancava qualche minuto alle otto, le statue seguite dalla processione arrivarono da Musconì e si fermarono affiancate di fronte alla scalinata della Matrice.
Lo spiazzo era pieno al punto che se qualcuno avesse rovesciato la palla di neve e fatto nevicare, l’asfalto sarebbe rimasto pulito. Don Guari prese il microfono e con la sorpresa generale lo porse a don Antonio: era il suo modo per ringraziarlo del servigio reso alla comunità. Pace e bene, le prime parole che risuonarono solenni in quella navata a cielo aperto, aprirono un’accorata omelia nella quale il giovane sacerdote elogiò la famiglia, i piccoli gesti quotidiani, in cui invitava tutti, una volta ritornati a casa, ad abbracciare le persone che avevano accanto, perché le occasioni non sono eterne come spesso ci sembrano. Bisogna partire dai piccoli esempi quotidiani perché i gesti valgono più di mille parole, e ci sono alcuni gesti che di parole ne valgono milioni.
A quel punto don Antonio sospese la parola e guardò nella piazza verso un punto preciso.
“Angeliaddu, vieni qui, al mio fianco”.
Il ragazzo era seduto sulla finestra del palazzo comunale e all’improvviso sentì gli sguardi di tutti i paesani addosso. Arrossì. Non riusciva a capire.
“Vieni Angeliaddu. Fategli spazio, lasciatelo passare”.
Dalla finestra al sagrato si aprì un piccolo corridoio e il ragazzo, sospinto dalla madre, avanzò timidamente. Don Antonio lo accolse sotto il suo braccio.
“Ci sono gesti che segnano vite, e il gesto che l’altro giorno Angelo ha compiuto segna la nostra intera comunità. Questo ragazzo, a rischio della propria vita, ha salvato la piccola Annarella da una morte atroce. Non ha esitato quando c’era bisogno di aiutare il prossimo, perché è nei gesti che si misura la misericordia divina. Se non fosse per lui oggi Girifalco piangerebbe una inenarrabile tragedia; oggi, invece, grazie a lui, è un giorno di festa. Attraverso il gesto di Angeliaddu la Provvidenza ci ha benedetti, ed è questo il vero miracolo di san Rocco. E vi prego di dare segno della nostra gratitudine a questo giovane eroe con un applauso”.
Dal Piano si alzò uno scrosciante battere di mani, e anche il geometra, lì vicino, le batteva forte, con gli occhi commossi, dopo che per l’intera omelia si era tenuta stretta sul petto la figlia. Alla fine dell’applauso don Antonio fece tornare Angeliaddu al suo posto. Mentre avanzava, la gente si apriva come il mar Rosso al passaggio di Mosè, e la Terra Promessa del giovane furono le braccia aperte e orgogliose della madre.
Nelle carni e nel sangue
Malarosa per gustarsi la Spartenza si metteva ogni anno allo stesso posto, vicino al bar Catalano, ma quella volta avrebbe cambiato, e così arrivò intorno alle sette e mezza e si fermò di fronte al palazzo municipale, là dove cinque minuti dopo le otto, trafelato, sarebbe giunto Sarvatùra subito dopo aver chiuso la bottega. Ne sapeva a memoria le abitudini: ogni Spartenza lo cercava con gli occhi, e quando gli vedeva Rorò accanto cominciava con la sua cascata di maledizioni sebbene le statue cominciassero già ad arrivare anticipate dal suono della banda. Che lei lo conosceva bene il dolore della spartenza, e ogni anno, quando san Rocco salutava la Madonna, riviveva nelle carni e nel sangue il suo addio a Sarvatùra, che lei conosceva il patimento dell’addio, la compunzione dell’abbandono. L’odore delle mandorle caramellate si diffondeva per tutto il Piano, indifferente agli addii umani.
La gente si alzava sulle punte dei piedi, la tensione cresceva, ma lei guardava verso la scindùta da cui sarebbe giunto Sarvatùra un poco prima della processione. E alla fine giunse, trafelato, e facendosi spazio tra la gente arrivò a un metro da lei. Non la vide subito, solo quando fra di loro si spostò come una tenda la sagoma di Giudecca Pandura. E questa volta, a differenza delle altre, la guardò più del dovuto tanto che lei, proprio lei, Malarosa Praganà, fu costretta a distogliere gli occhi. Si voltò un momento verso la chiesa e quando ritornò a guardarlo, Sarvatùra le sembrò più vicino, come se avesse fatto un passo ancora. Il vociare aumentò, la banda si avvicinava, e allora le guardie cominciarono a spingere la gente per liberare il passaggio e nell’arretramento Malarosa attruzzò Sarvatùra.
“Scusatimi”.
“Scusatimi vui”, si affrettò a rispondere con una gravità che parìa un’anima penitente giorno del giudizio universale.
Idda ritornò a guardare avanti, ma chìdda parola continuava a risuonarle ncià la càpu. Scusatimi. Il suono della banda le pàrze più bello, e anche il cielo stellato, perfino le sue vecchie scarpe con la vernice nera consumata. Quando santu Ruaccu e la Madonna comparvero, le genti cominciarono a spingere e Sarvatùra si trovò appoggiato a Mararosa, e per non farle male le mise una mano sulla spalla e la lasciò qualche secondo in più. La donna sorrise, d’un sorriso sepolto nelle macerie di tutto quello che non era stato ma avrebbe potuto essere.
Dalla costellazione celeste
Anche chi non credeva ai santi e alle madonne presenziava alla Spartenza. Tutti, credenti e no, in quell’addio figurato celebravano un rito collettivo in cui rivivevano il proprio abbandono, e nel riprovarlo addosso in tutta la sua afflizione, insieme agli altri, lo sentivano meno lacerante.
Anche Archidemu lo faceva ogni anno: la sua finestra dava proprio sul Piano, in quell’ampio spazio al centro del paese verso cui confluivano le quattro strade principali e dove nelle loro migrazioni esistenziali gli uomini, come megaptere, gli sembravano muoversi alla stregua dei corpi celesti. Ma quella sera era diverso: sentiva di aver abbandonato per un attimo il suo posto nella costellazione ed essere caduto tra gli uomini, a vivere come loro, a proiettare in quelle statue i loro addii. La forza di gravità che reggeva l’Universo ristabiliva anche sulla Terra i giusti rapporti. Ricordava da Aristotele che i pesi che cadono stanno semplicemente cercando il loro luogo naturale, quello che raggiungeranno se non ci saranno ostacoli. E così fanno gli uomini, si muovono avanti e indietro solo per cercare il loro luogo naturale: la gravità gli ricordava che gli esseri umani sono destinati alla terra. Dall’arrivo del circo, erano due settimane nelle quali sembrava che la meccanica terrestre avesse dimenticato le proprie leggi e cancellato le proprie regole, che nuove orbite si stavano prefigurando.
Lasciò la veduta aerea e scese per strada, e non si stupì, quando il rullio del tamburo cominciò a dettare i tempi della Spartenza, non si stupì di alzarsi sulle punte dei piedi per vedere meglio, non si meravigliò di sentire addosso la sensazione di sospensione, di tristezza, di fine imminente. Non si sorprese di rivedere in quelle statue sé e il fratello: lui era la Madonna, quella che resta, quella che viene accompagnata e seguita fino alla soglia di casa, e Sciachineddu era san Rocco, colui che tra poco sarebbe andato via.
Lo immaginò, mentre sistemava le sue cose per la partenza, guardare di tanto in tanto la sua foto, e un giorno era certo che avrebbe ricordato e il figlio prodigo sarebbe tornato alla casa del padre. Anche lui il giorno prima aveva esitato, era andato via per ritornare subito indietro, aveva provato la tentazione di san Rocco ogni volta che la Madonna scompare dietro la porta, entro anch’io, abbandono la mia casa e vado con lei, al suo fianco. Aveva esitato anche lui, era ritornato dubbioso sui suoi passi, aveva cercato di procrastinare più possibile il momento in cui le spalle si voltano e le strade si biforcano e si ritorna a essere sconosciuti l’uno all’altro. Per tre volte le statue si allontanano e si avvicinano, per tre lunghissime volte, fin quando la Madonna entra in chiesa con le spalle all’altare, guardando fino all’ultimo san Rocco, che se non fossero santi sembrerebbero i gesti di due amanti folli, Eloisa e Abelardo, Francesca e Paolo, Teresa Sperarò e Salvatore Crisante. Quando la Madonna scomparve in chiesa e la banda suonò la marcia per accompagnare la statua di san Rocco verso la Piazza e tutte le genti si mossero dietro di lui, Archidemu rimase immobile e solo come un centro di gravità. Che in fondo, a pensarci bene, tutte le nostre vite sono una catena di eventi sospesi: le cose s’interrompono improvvisamente, senza avvisaglie, senza avvertimenti, ed è questo il dolore della vita: il congedo mancato. Ma poi accade qualcosa: Plutone e Nettuno che dovrebbero scontrarsi non si urtano mai, dimostrando che anche nell’indefettibile meccanica celeste c’è posto per la pietà; e così anche tra gli uomini fallibili, ai quali talvolta è concesso di lasciarsi al momento giusto, con la consapevolezza dell’ultima volta.
Mancante della parte finale
Alle diciannove e quattordici del ventiquattro agosto, mentre le statue dei santi imboccavano l’inizio di Musconì, il circo Engelmann era pronto a lasciare per sempre Girifalco. Il paese era deserto che tutti erano alla Spartenza, e l’aria quasi nebbiosa scesa da Covello sembrava la cappa malinconica dei sogni di addii e spartenze che ancora trattenevano i cirifarcùati lontani dalla coscienza dell’attesa. C’era qualche vecchio seduto di fronte al bar, gli ambulanti che cominciavano a raccogliere le bancarelle, Carruba che attaccava il manifesto di qualche cristiano morto nottetempo.
Lulù era assettàtu nella penultima roulotte, al fianco di Luvia che gli teneva la mano. Era contento di stare vicino alla madre, felice. Dagli spiragli della tendina socchiusa per non farlo vedere, scorgeva alcuni particolari: l’insegna della potìga di Catarnuzza, Roccuzzu Vonella che abbassava la saracinesca della sua bottega, il cane di Gogò Mattarùanzu che cacava nel centro geometrico del mondo. E poi a un certo punto sul vetro comparve il riflesso di un uomo. Gli sembrava di conoscerlo e fece uno sforzo per pensare a dove l’avesse visto, e recuperò a stento il ricordo di una chiesa, una fila di finestre e di angeli, e l’ultimo, l’ottavo, che non aveva riconosciuto ma che adesso era lì, di fronte a lui, a imitarne i gesti.
Ritornò a guardare fuori e vide l’icona della Madonna della Grazia che segnava il confine meridionale del paese, e fu come un’esplosione che in un attimo, in quell’impercettibile secondo ingoiato da orologi disubbidienti, nella caotica galassia della testa di Lulù si compose una costellazione di parole, un ordine quantico di sillabe, un’impercettibile visibilità di particelle linguistiche, e per la prima e unica volta nella sua vita s’arricordò la preghiera di mamma sua, e la pronunciò a fior di labbra, impercettibile, finalmente nell’ordine giusto anche se mancante della parte finale, come ogni atto che appartiene al genere umano:
Angelo di Dio
che sei il mio custode
illumina, custodisci,
reggi e governa me
che ti fui affidato