Come una megaptera.

Nella sua migrazione stagionale percorreva seimila chilometri di sconfinata acqua oceanica seguendo ogni anno con precisione assoluta la stessa identica variazione di grado; dai fiordi norvegesi di Alesund alle coste africane di Nouad­hibou non deviava di un millimetro dalla rotta consueta, come seguisse una strada invisibile, come se gli animali si muovessero seguendo orbite evanescenti.

Anche gli uomini sembravano percorrere traiettorie già tracciate, come Caracantulu, che scansava ogni volta la buca del marciapiede quasi non potesse farne a meno, o come Lulù, che andava a sedersi alla pensilina dell’autobus, come ogni giorno ripercorrendo la stessa strada. Fu il suo corpo adiposo e straripante che lo fece pensare alla balenottera.

A vederli dall’alto, nel Piano, in quell’ampio spazio al centro del paese verso cui confluivano le quattro strade principali e che lui guardava allo stesso modo in cui la sera osservava e studiava la volta stellata, gli uomini sembravano muoversi come corpi celesti. Giungevano dalla Piazza, dalle Cruci o da Musconì, disegnavano la loro misteriosa ma conclamata traiettoria e poi scomparivano chissà dove. Come megaptere antropomorfe, appunto. O come pianeti nei loro moti di rivoluzione e rotazione.

Anche in quel momento, mentre Cuncettina andava a riempire la bottiglia alla fontana, la Terra stava ruotando lungo un asse inclinato di 23,5 gradi. Non era nel suo destino quell’inclinazione, non era annoverata fra le leggi fondamentali della Natura, nessuna legge fisica la predestinava. Dal momento della sua origine il pianeta se ne stava lì, fermo, a riposo, come adesso Angeliaddu di fronte all’edicola, fin quando un giorno venne colpito con violenza da un asteroide che lo fece girare su sé stesso come il cane di Gogò Mattarùanzu intorno all’albero prima di decidersi a pisciarlo. Si fermò al momento giusto e fu una pendenza salvifica: bastava un grado in più o in meno, un misero grado, e non ci sarebbe stato niente, né il giorno né la notte, le stagioni, il volo degli uccelli, il tempo, gli uomini e i loro infiniti affanni. Nulla.

Un solo grado: il capello di don Venanzio impigliato nel pettine, un pezzo d’unghia rosicchiato e sputato da Mararosa, lo spessore della carta con cui Rorò impacchettava i pasticcini, lo stelo d’una primula, un lendine secco, una foglia d’origano, un vinacciolo, un grano di pepe nero, un trappeso d’argento, una ciglia perduta, un ago, un filo di broccato, un pelo di coniglio, un’ala di moscone, una trocofora, il punto d’una coccinella, un pizzico di sale, un poro della pelle, un girino, un coccio di grano, un chicco d’uva acerba, uno scrupolo d’oro, una spina di rosa, la vite di un goniometro, un grammo di ruggine, un punto croce, la fuga d’un mosaico, un seme di lino, una scheggia di vetro, una goccia cinese, un bigattino, la larva di una libellula, una virgola, lo spessore della particola, il bulbo di un capello, una staffa umana, un globulo rosso, un tarlo, la punta metallica di un compasso, un polline, la scala di Planck, il nulla tra la trama e l’ordito.