Era una giornata calda calda, che l’aria avvampava come zeppole appena tolte dall’olio bollente.
Le aveva assaggiate da poco: Lulù tornava dalla Cannaletta e sentì nell’aria una fragranza che l’arricordò il paese dov’era nato e cresciuto, e allora s’affacciò alla finestra di Rosuzza Stranìari e vide sul tavolo una distesa di zìppuli filati pronti per essere immersi nell’olio bollente. La comare gliene mise qualcuna dentro un foglio di giornale e, visto che era il compleanno del figlio, gli diede anche un bicchiere di gazzosa. Lulù era contento come una sposa, che alla fine si mise perfino a leccare la carta di giornale zuppa d’olio, e così lo vide Caracantulu, ma poiché sulla pagina c’era la foto di un’attrice in costume, quel farabutto malevolo andò seminando maldicenze su Lulù che si stava depravando e che prima o poi, invece delle figure dei giornali, avrebbe leccato le femmine in carne e ossa, forse màmmata o sùarta.
Ignaro delle dissolute malignità che andavano tessendosi, Lulù tornava alla sua branda nel padiglione C del manicomio di Girifalco.
Luciano Segareddu, da tutti chiamato Lulù, era nato a Brancaleone Calabro il ventitré aprile, secondogenito legittimo di Vrasciò e Pietrina Spordigna, e figlio illegittimo di Ananke e Achlys.
Il padre, angariato dalla sorte, non aveva soldi nemmeno per comprarsi nu cafìssu de rànu, e quella disgraziata della moglie, che malediceva il sole che gli mostrava i casciùni vuoti e i buchi dei cozìatti, doveva arrabattarsi in ogni modo per far mangiare i suoi poveri fìgghi. Gaetanu, il grande, almeno lavorava alla giornata, e invece Lucianu era un problema, un ragazzino strano che balbettava, nu mbarzamàtu, come lo chiamava il padre prima di dargli u cazzòttu quotidiano.
Lucianu alla scuola restava sempre arrìadi, come un cane zoppo, e proprio non riuscivano a fargli entrare nella testa che nel mondo esistono lettere e numeri, segni a lui indifferenti come mosche sul vello dei caproni: nella testa di Lulù tutto entrava e usciva all’istante come acqua dentro nu panàru. Tutto, tranne l’amore per màmmasa e per la musica, che erano in fondo la stessa cosa.
I giovedì mattina, Pietrina Spordigna s’aiutava sulla càpu la cesta carica di cipolle e corone d’agli e mazzi d’origano e assieme a Lulù s’incamminava per il mercato. Dalla casa del maestro Malfarà si effondevano le note del suo giradischi: speriamo che oggi suona quella musica bella, sussurrava al figlio, e quando c’era, il piccolo se ne accorgeva perché màmmasa s’illuminava come un cero, affrettava il passo e giunta sotto le finestre, approfittando della fontana di fronte, si smerlava del carico e s’assettàva a godersi la melodia.
In quel momento si ricrijàva: gli occhi torbidi e pastosi s’incristallivano, le labbra secche e arsicce s’irrigavano e le guance e la fronte scheggiate a rughe si levigavano sotto le passate di una pialla invisibile.
“Ascolta, Lucià, ascolta, e fatti le orecchie e il cuore, che se il Signoriddio tornasse sulla terra sarebbe questa la musica con cui si farebbe annunciare”.
E allora il giovane si concentrava, talvolta chiudeva gli occhi come vedeva fare a lei pensando che certi miracoli si compiono al buio, e con le palpebre socchiuse la fissava e la vedeva felice, che le note le foggiavano il volto come pasta di mandorle, ogni nota un arrotondamento, una piega, un sorriso, così, in quel luogo e in quel momento, la faccia brulla e cretosa di Pietrina Spordigna diveniva agli occhi trasecolati del figlio lo spartito su cui rughe e pentagrammi giocavano alla fanciullezza. Lulù imparò così ad amare la musica attraverso la felicità che procurava alla madre.
“Se tu sapissi, Lucià, la prima volta che l’ascoltai! Era guagliùna come a te, forse più piccirìdda, e fu la prima volta che il mondo mi pàrze bello, che capiscìvi cos’è quella cosa che chiamano paradìsu. Vieni ccà, fatti abbrazzàre”.
E Lulù si rintanava tra quelle braccia che odoravano di culle e ninnananne, che per un momento anche a lui era concesso di saggiare, in questo mancante mondo, uno spicchio di perfezione.
Quando la musica finiva, màmmasa s’alzava, rimetteva in testa il cesto e s’affrettava verso il mercato, e ogni volta, prima di far ritorno alla campagna, lasciavano un fiore alla statua della Madonna, fallo sempre, Lucianu mio, c’accussì ti benedizziòna la vita.
A mammasua non la lasciava mai sola, che le si accodava come il destino, soprattutto nelle tarde serate primaverili, quando Pietrina s’assettàva sotto il pergolato di zibibbo a guardare l’oscurità impossessarsi del mondo, che forse anche in quell’avvicendamento di universi c’era come una musica.
“Lucià”, frusciava talvolta, “che bello quando il mondo s’astùta e tutto è nigro come una coddàra, che quando è buio siamo tutti uguali, signori e villani, brutti e belli, spiccàti e scemunìti, e pure la nostra miseria, pùru ìdda non sembra più solo nostra”.
Un giovedì che andarono al mercato e c’era quella musica che a Lulù s’era ficcata nella testa e nel cuore come le spine di una corona, mentre erano assettàti sulla pietra della fontana come sulla loggia di un teatro, Lulù per la prima volta vide piangere sua madre.
“Perché piangìti, mammà?”.
“Lucianu mio”, sospirò, “piango perché questa musica è bella, e le cose belle sono vietate a gente come noi. Tu, figlio mio, una melodia così non potrai mai suonarla: per le scuole e gli strumenti ci vogliono i soldi, e noi siamo miserabili”.
Quando ne aveva voglia, Lulù lasciava i terreni e la casa di Muscedda per andare sotto la finestra del professore ad ascoltare la musica. Un pomeriggio che le strade erano deserte, il professore si affacciò per fumarsi una Nazionale. Lulù si alzò e fece finta di bere. Mentre asciugava il rivolo d’acqua che gli correva sul collo sentì una voce: “Ti piace la musica?”.
Lulù alzò la testa, spagnùsu, e guardò verso la finestra.
“Dico a te, ti piace la musica, vero?”.
Il ragazzo, asciugandosi il muso, fece cenno di sì con la testa.
“E allora sali, sàgghia che la ascolti meglio”.
Buttò la cicca lontano e rientrò. Lulù si sentìa avvampare come un seme di piparèdda, che la prima tentazione fu di scapparsene, ma poi udì il ticchettio metallico del portone che si apriva e restò immobile.
“Sàgghia, non ti appaguràra”.
La casa del maestro profumava di vasilicò.
Al piano di sopra il giradischi era poggiato su un tavolino sotto la finestra: Lulù non ne aveva mai visto uno. Si avvicinò. Fissò il disco rotare su sé stesso, come la pala di un mulino.
“Vi vedo qui sotto il giovedì mattina, con mamma tua, sai? Per questo metto sempre la stessa musica, perché so che vi piace. Aspetta”.
Alzò la puntina dal disco e andò a prenderne un altro in mezzo a una lunga filèra.
Il professore s’appicciò un’altra Nazionale e prese dei fogli. Lulù gli andò vicino e li guardò.
“La musica che stai ascoltando, è scritta qui”.
Gli sembrava una vera stramberia. Guardò le pagine fitte di righi e palline ed ebbe un capogiro, come a scuola, che forse mammasua si sbagliava, che per suonare la musica non servivano solo i soldi, ci voleva anche la testa, e lui nemmeno quella aveva.
Poi il professore gli mostrò la copertina, un bosco autunnale di alberi e foglie marrone: “Si chiama Valzer triste, è questo il titolo della musica che vi piace”.
Uscì dalla casa del professore mezz’ora dopo, come una vìaddusa carica di polline, e corse da màmmasa a spargerglielo sui capelli, che aveva faràfole da raccontarle, di come è fatto un giradischi, di come la musica viene scritta sui quaderni, e soprattutto portando con sé, come un simsalabìm, il nome di quella melodia incantata.
Da allora a Lulù l’arrivo dell’autunno lo rese ancora più malinconico, che quando vedeva foglie cadere e ingiallirsi sentiva nella testa quella musica triste che però non aveva niente a che fare con la disperazione di certi risvegli, aveva ragione màmmasa, era una tristezza che faceva stare bene.
Un giorno che vagabondava come una lucertola tra i campi di grano di Cannariari, sentì come un canto.
Sotto un ulivo, Misticheddu Fricalora solfeggiava una foglia.
“Chi facìti?”.
“U sonatore”, rispose sarcastico u pecuraru.
“E come si fa?”.
“Lulù, mu ti màngianu li cani, che domanda mi fai? Prendi na pàmpina e jùjia, soffia che sona”.
Misticheddu s’alzò contrariato che non gli piaceva essere disturbato durante il riposo, fischiò ai cani e andò verso il gregge. Lulù gli si attaccò addosso come una zecca.
“Chi c’è, Lulù? Dàssami stare che oggi non è jornàta”.
Ma il ragazzo lo seguiva in silenzio come niente fosse.
“Inzòmma Lulù, che vuoi da me?”.
“Imparàtimi a sonàre i pàmpini!”.
“Ma chi pàmpini e pàmpini!”.
“Imparàtimi a sonàre le foglie!”.
Misticheddu si voltò di scatto, alzò la pertica che teneva in mano per colpirlo con rabbia, ma quando stava per spaccargli la testa, l’impassibilità del ragazzo lo bloccò; non s’era mosso di un millimetro, non aveva alzato il braccio per difendersi né chiuso gli occhi per la paura: era rimasto lì, sotto l’ombra minacciosa di un tòccio di castagnàra, imperturbabile come certe querce di sentiero.
Misticheddu colpì a terra per scaricare la rabbia, jestimmàndu santi e madonne.
“Chìstu mi mancava oggi, nu scemunìtu che vuole imparare a sonare!”.
Si avvicinò al gregge, e Lulù dietro di lui.
“Vuoi sonare le foglie? Va bene, ma devi sudartelo. Tè, pìgghia questa vòzza e va a riempirla”.
Lulù eseguì quell’ordine come tutti gli altri che da allora Misticheddu gli impartì ogni giorno, e in cambio il pastore gli insegnò come scegliere le foglie, come predisporre le labbra, come trattenere ed emettere il respiro.
Quando suonò la prima melodia, Lulù aveva undici anni quattro mesi e tre giorni, e non immaginava che sarebbe stata la sua ultima estate a Brancaleone.
Era festa in paese e le strade erano illuminate come una torta di compleanno. Lulù non era stato bene tutto il giorno ma aveva lo stesso seguito l’affollata processione della Madonna. Alla fine del lungo giro, il corteggio si fermò nella grande piazza della Chiesa dove, in religioso raccoglimento, l’intero paese recitava il Padre Nostro.
Fu proprio allora, nell’ora e nel momento sbagliato, che Lulù, estraneo a sé stesso, cadde a terra agitandosi e dimenandosi e urlando come azzannato da una tarantola. La gente indietreggiò terrorizzata: il prete interruppe la preghiera e nel silenzio primordiale della piazza i lamenti del ragazzo echeggiarono come guaiti infernali. Quando i carabinieri si avvicinarono, il brigadiere venne colpito in faccia da una manata di Lulù e cadde; si rialzò e si buttò sul ragazzo per fermargli il braccio, e con lui gli altri, fin quando lo bloccarono a terra che ancora mugugnava come un cane rabbioso. Qualche vecchia si segnò. Fazzolaro, il medico condotto del paese, giunse poco dopo e gli bastò vedere la bava lattiginosa, le contrazioni degli arti e le pupille alzate per capire che si trattava di un attacco epilettico. Dopo pochi secondi le convulsioni si sedarono e l’unico segno della crisi appena trascorsa fu un rantolo profondo e catarroso.
Lulù fu portato in caserma e venne fatta chiamare la madre se quegli attacchi era la prima volta che accadevano, e lei abbassò il volto e disse no, erano successe altre volte anche se mai così forti. Ma adesso?, chiese, e scoprì così che il figlio era un pericolo sociale, e che avrebbero parlato col sindaco e col medico per vedere cosa fare.
In realtà il brigadiere Verratanu, con la guancia incerottata e un cuore che schiattàva d’odio per quei parassiti nullatenenti, aveva già deciso per tutti; l’indomani mattina ottenne il certificato medico di Fazzolaro e il nulla osta del sindaco per l’internamento del ragazzo.
Fu egli stesso a spiegarglielo all’inerme padre: “Pensateci, Vrasciò, e poi questa è un’estate che sembra che l’inferno la sta scaldando, avete visto come sono duri i terreni: le piante intòstano, le sorgenti sono secche. C’è fame in giro, nevvèro Vrasciò? E a quale santo vi votate voi che non avete neanche una terra vostra da zappare? Una bocca in meno da nutrire”.
Vrasciò pensò che il brigadiere tanto tanto non si sbagliava, che c’erano giorni che nemmeno insalata di spelèndru e culimùaddi si mangiava, e quello scemunito del figlio invece stava sempre con quelle cazze di foglie in bocca. Aveva provato a portarlo con sé ma non era capace di fare niente, e mò s’era messo anche a stare dietro a quel delinquente di Misticheddu. Che poteva fare? Il brigadiere e il dottore avevano deciso, e poi dove sarebbe andato il mangiare non gli sarebbe mancato, e proprio questo avrebbe detto alla moglie, mentre segnava con una croce il foglio passatogli da Verratanu, è come un ospedale e dormirà sempre in un letto e mangerà ogni giorno brodo caldo, è per ìddu che lo facciamo.
Pietrina, nella sala d’attesa, sola più del calendario di tre anni prima appeso alla parete, già piangeva perché era povera e analfabeta ma non cùnna, che i dadi erano già stati lanciati e a lei non rimaneva altro che pronunciare i numeri a voce alta, come sempre nella vita.
Quando le fecero vedere Lulù e le dissero di salutarlo che l’avrebbero portato via, Pietrina cominciò a urlare come una prefica, si abbrazzò il figlio come a farlo passare dentro di sé, così forte che nessuno avrebbe potuto più separarli, e Lulù piangeva disperato e la pregava mamma voglio stare con voi, vi prego, non lasciatemi, tenetemi stretto, legatimi… fìgghiu fìgghiu mio, còra de màmmata, no, no, tu resti cu mìa, tu sei il mio, io ti criscivi, io t’allattai, tu sei cosa mia, e voi, disse agli uomini in divisa, lasciatelo stare.
Verratanu si stancò e le si mise davanti: “Sentìti, contadina, e tagghiàmola corta: vostro figlio va chiuso per forza, a voi tocca scegliere se in galera o al manicomio!”.
Pietrina subì quelle parole come una coltellata, e di fronte all’inesorabilità dell’abbandono si slanciò ancora verso il figlio ad abbracciarlo, Luciano mio, gli sussurrò mentre lo stringeva un’ultima volta a sé, tu sei la vita mia e senza di te io muoio, non ti appaguràra, fìgghiuma, io non ti lascio da solo, io vengo dietro di te, io sono con te, non ciangìra, luce degli occhi miei, non piangere, abbracciami, abbràzzami.
I carabinieri dovettero fare forza per dividere quei due corpi che sembravano uno, e tra le urla, i pianti, i graffi sulla pelle, Lulù venne portato via.
Il giorno dopo, Luciano Segareddu venne rinchiuso nel manicomio di Girifalco: la sua vita terrena si arrestò, come un ramo che all’improvviso smette di fare i fiori; allontanato dalla luce e dal terreno materno, il debole cervello rimase uguale a sé stesso, sebbene le braccia, le gambe e il corpo crescessero.
L’unica sua passione rimase la musica suonata con le foglie, ch’egli esercitava per ore, per giorni, per anni. Ne aveva sempre le tasche piene: se qualcuno gli chiedeva una musica, subito lui prendeva la foglia giusta e suonava in cambio di una gazzosa al limone che gli piaceva tanto. Tutte le musiche che gli richiedevano suonava Lulù, tutte tranne una.
Il pomeriggio di un nove agosto di tanti anni dopo, Sciccapariddi l’infermiere andò a chiamarlo che c’era una visita per lui. Lo pettinò, gli fece mettere la maglietta pulita e lo condusse per la prima volta nella sala d’attesa. Si sentiva agitato, allora mise la mano in tasca, toccò sorelle foglie e si tranquillizzò.
La porta si aprì e lentamente entrò una figura. Lui la squadrò, immobile, chiedendosi chi mai fosse quella vecchia vestita di nero che si trascinava e lo fissava negli occhi senza dire niente. Quando fu a un metro, la donna allungò la mano tremante per accarezzargli la guancia e rantolò col poco fiato che le era rimasto: “Luciano mio, Luciano mio, sei tu?”.
Quella voce antica fu come se aprisse una botola e scivolasse Lulù verso un mondo dimenticato: i campi di papaveri, un pastore che suonava, un giradischi, gli abbracci di màmmasa, màmmasa, màmmasa… il volto che gli stava davanti, che assomigliava al santino della Madonna di Torre di Ruggiero che aveva trovato un giorno alla fiera e che aveva attaccato con uno spillo alla maglietta perché gli arramentàva qualcuno ma non sapeva chi, e adesso gli era chiaro che invece l’aveva stipata perché quella Madonna gli ricordava mamma sua, mamma sua. Non fece in tempo a chiamarla che la vecchia, con un vigore trascorso, gli si lanciò incontro e lo abbracciò e lo strinse come a spremerlo di tutti gli abbracci mancati, di tutti i baci e i sospiri di cui la vita li aveva privati, questa vita maledetta che separa ciò che nulla dovrebbe separare.
Pietrina pianse accorata che non gli sembrava vero di riavere tra le braccia Luciano suo, che quanto lo aveva cercato, quanto! Quell’infame brigadiere aveva fatto credere che lo avevano rinchiuso in Sicilia, e lì c’era andata, scentìna, ma non l’aveva trovato e allora non sapeva cchiù che fare: si vestì a lutto e lo pianse morto, ogni giorno, fin quando non le suggerirono di cercare pure a Girifalco, che lì c’era un manicomio.
Lulù era felice come una pasqua, era stordito che nemmeno gli sembrava vero, forse era un sogno, che forse lui una mamma non ce l’aveva mai avuta e quella vecchia era la Madonna in carne e ossa venuta a consolarlo.
Guardando il volto del figlio che sembrava ancora quello del suo bambino, il cuore di Pietrina comprese molte cose ma non volle sapere, che adesso era lì, abbracciata a lui, e non voleva sciupare quegli attimi.
Si sedettero e màmmasa gli stringeva le mani.
“Come stai, figlio mio? Che t’hanno fatto?”.
E lui sorrideva, non diceva niente e sorrideva, dondolandosi come una pendola.
“Papà tuo è morto, non c’era giorno che non mi chiedeva che fa a quest’ora Luciano? Sventuràtu ìddu, che brutta fine ha fatto! Fìgghiu mio, quanto aspettai stu momento, quante notti sonnài di abbracciarti come adesso, ma mò non ti lascio ccà, sai? No, Luciano mio, màmmata ti porta con sé, alla casa tua, che al paese non ci sono più quelle persone brutte che t’hanno fatto male. Luciano mio, mi prendo io cura di te. Tu non hai bisogno di medicine, so io cosa ci vuole per farti star bene. Che miracolo è mai questo, fìgghiuma! A proposito, anche il professore morì, te lo ricordi il professore, quello della musica triste?”.
Il volto di Lulù s’allumò, annuì con la testa sorridendo e farfagliò qualcosa di poco chiaro. Tirò fuori dalle tasche una manata di foglie, ne scelse una, ripose le altre e guardò la madre negli occhi come a dirle ascolta e cominciò a suonare come se non avesse in bocca una foglia di castagno ma un flauto di vetro, perché una melodia dolce e triste cominciò a imperlare le rughe materne, il valzer che ascoltavano i giovedì mattina e che Lulù aveva imparato dopo infinite prove ma che mai, mai aveva suonato ad anima viva, perché quella era la musica della madre e della Madonna, e solo a loro gliela avrebbe fatta ascoltare.
Màmmasa pianse perché era fìgghiusa quello che suonava come un angelo, erano sue le labbra che soffiavano note di autunni e primavere, era suo il fiato che raccontava di vite sprecate, di esistenze mal riuscite. Màmmasa pianse di gioia e tristezza, che a volte un’intera vita, milioni di secondi, anni e anni di tramonti si condensano in un attimo, in un fatto, in un incalcolabile minuto, come se le nascite, i pianti, gli innamoramenti e gli abbandoni non servissero ad altro che a preparare il palcoscenico dove avverrà, in un fugace atto unico, quella rappresentazione che sola era la vita, quel singolo momento, nient’altro prima né dopo, come un attore che per anni si prepara una battuta, la pronuncia e poi scompare per sempre dietro le quinte. Col cuore gonfio, la madre chiuse gli occhi e si ritrovò alla fontana, seduta col figlio a guardare verso una finestra vuota, e a pensare a tutte le cose belle che non le erano toccate, che forse c’era un’altra vita nascosta da qualche parte, che l’aspettava, con strade asfaltate di musiche e primavere. Poi la musica finì. Pietrina aprì gli occhi e s’accalò su Lulù: “Quantu si bravu, fìgghiuma, sei diventato un maestro, un professore, quantu si bravu Luciano mio”.
La porta si aprì e comparve Sciccapariddi.
“Non ti preoccupare, che adesso vado dal direttore, gli chiedo cosa devo fare per farti uscire da qui e poi ritorno e ti porto via con me, per sempre, che non ci lasceremo mai più, mai”.
Se lo abbracciò forte un’ultima volta, lo baciò sulla fronte e andò verso l’uscita.
“Torno presto, Luciano mio, torno presto”, e per la prima volta fu come se un corto circuito appicciàsse la lampadina consumata del cervello di Lulù e gli mostrasse come si mettevano in fila le parole: “Mammà, non andatevene mammà, portatemi con voi”.
Pietrina non resistette, tornò indietro, se lo abbracciò e lo tranquillizzò come faceva dopo i brutti sogni, no, non preoccuparti, màmmata non ti dice mai le bugie, màmmata viene e ti porta via. Tieni, prendi questa immaginetta della Madonna di Polsi, che è come se ci fossi io qui con te a proteggerti, si prenderà cura di te per questi pochi giorni che mancherò. E prega, prega l’angelo di Dio, te la ricordi? Angelo di Dio che sei il mio custode, prega che l’angelo fa il miracolo e mi fa tornare.
Luciano Segareddu, che tutti chiamavano Lulù perché era così che la sua lingua balbuziente pronunciava il suo nome, fu l’ultima volta che vide la madre. Quella scentìna di Pietrina, quando chiuse la porta, per colpa della musica pensò che una vita diversa era possibile, pensò che il figlio aveva strappato le foglie dalla siepe che nascondeva una vita altra e felice, che adesso si apriva e lasciava filtrare la luce.
Andò dal direttore e gli disse che aveva intenzione di portarsi Lulù a casa. Quello non fece obiezioni: da qualche anno gli attacchi epilettici erano curabili con le medicine, ma bisognava sbrigare delle pratiche, in primis una carta del sindaco in cui si specifica che il nucleo familiare accogliente – lei, signora – è in grado di provvedere alle necessità del curato, dopodiché si riunisce la commissione che preso atto delle condizioni positive ratifica le dimissioni temporanee del malato. Alla donna anche le parole del direttore sembrarono come una musica, altre foglie strappate alla siepe, e andò via da Girifalco con il cuore che s’agitava come nu sporcìgghiu in gabbia.
Povera Pietrina, quantu si cùnna!
Pensi davvero che a gente come te è permesso cambiare vita? Pensi davvero che uno si può sciogliere quando vuole il nodo maledetto che l’ha legato al mondo come si fa con un fazzoletto? Hai ragione, in fondo: una vita altra c’è, una vita diversa, dal sapore buono di pane appena sfornato e fichi maturi, ma non per noi, abituati a mangiare moddìchi e culimùaddi, mai per noi.
E così Pietrina Spordigna, nata sotto una stella malaventurata, morì tre giorni dopo, fulminata dalla felicità improvvisa di un cuore che troppo s’agitò dopo essere stato a lungo fermo: morì di notte, assettàta sotto il suo pergolato di zibibbo, ad ascoltare la musica dolce e triste di un avvicendamento di universi indifferenti.
Lulù non lo seppe mai. Passò la vita ad aspettare màmmasa che lo prendesse e lo portasse via, mammasua che l’ultima volta che la vide, dalla finestra, stava salendo sulla corriera, che quando la vide andare via e si sentì solo pregò Angelo custode governa il Dio che illumina me della pietà, màmmasa che assomigliava alla Madonna e non diceva mai bugie, màmmasa che da allora ogni giorno andò cercando nel paese chiedendo a tutti vidìstuvu mammà? Avete visto mamma?
Anche quella sera, tanti anni dopo, disteso sulla branda del padiglione C del manicomio di Girifalco, Lulù guardava il cielo e aspettava màmmasa come se fosse una stella che doveva cadergli sulla testa, come se si fossero lasciati il giorno prima.
Faceva caldo e s’affacciò alla finestra. Sentì una fragranza nuova, nell’aria, di rosmarino e trifoglio fresco, così persistente come se avessero aperto una boccetta di profumo, e si guardò intorno per vedere chi fosse stato.