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La milanese esce

Il «qui e altrove» è la fissazione della milanese. Quando scopre un posto nuovo in città per prima cosa dice alle amiche: «È bellissimo, non sembra di essere a Milano». Il sentirsi in una dimensione un po’ diversa la esalta. Al punto che, invitata a bere un caffè sul terrazzo dell’amica in pieno centro di Milano, è capace di commentare entusiasta: «Che paradiso, non pare di essere a Milano».

La milanese è milanocentrica, ma quando approda in angoli inesplorati della città ha un’impennata di buonumore. Da questa preferenza è nato il mito di locali abbastanza fuori mano, ma ormai «iconici» (aggettivo che a Milano raggiunge il record d’uso) come il Garghet, ristorante in fondo a via Ripamonti che deve il suo nome onomatopeico al fatto che prima, lì intorno, c’erano solo le rane che gracidavano (garghet in milanese). Fanno parte del medesimo filone di trattorie e locande con giardino e pergolato in gran voga a primavera/inizio estate: la più rinomata è Il Gallo, che in realtà sarebbe a Gaggiano, ma la milanese accorcia le distanze collocandola «in fondo al Naviglio grande». Anche lo chef stellato milanese Davide Oldani ha puntato sul fascino esotico di San Pietro all’Olmo per convincere gli abitudinari manager milanesi, fanatici del Torre di Pisa nel cuore di Brera, a spingersi fino al suo ristorante: «Che bella questa trattoria sulla strada, sembra quella del Sorpasso di Gassman!», esclamava la moglie una volta arrivata nel vecchio locale. Volubile e aperta ai cambiamenti, ora che il ristorante si è spostato nella piazza accanto in uno spazio minimalista, sempre la stessa moglie dice: «Qui è tutta un’altra cosa, molto meglio».

La milanese preferisce sempre ammantare le sue esperienze di cultura, e il pranzo Al Laghett, accanto all’Abbazia di Chiaravalle, unisce la monastica cistercense al risotto al salto: l’unico inghippo è che riuscire a prenotare un tavolo sotto il pergolato di glicine ha un indice di probabilità pari a trovare un ombrellone in prima fila in Riviera romagnola a Ferragosto ai tempi del Covid. Il connubio cultura-divago raggiunge il picco al Torre, il ristorante al sesto piano della Fondazione Prada, uno dei must della milanese che dalla terrazza, come recita la locandina, si bea di «una prospettiva inedita sulla città». Stessa sensazione di «altrove», sempre alla Fondazione, al bar Luce, progettato addirittura da un regista, lo statunitense Wes Anderson, che ha cercato di ricreare «un luogo in cui mi piacerebbe trascorrere i miei pomeriggi non cinematografici».

Ma Milano offre angoli di evasione anche in pieno centro. Il caffè alla Vigna di Leonardo, in corso Magenta, con vista sulla Casa degli Atellani progettata dall’architetto Portaluppi (vedi il capitolo «Brera o NoLo? La milanese cerca casa») fa parte di questo immaginario onirico, che ha portato a un’altra peculiare creazione meneghina, quella degli osti-fiorai. Non è chiaro se sia nato prima l’uovo o la gallina (si tratta di fiorai diventati ristoratori o di ristoratori reinventati fiorai?), ma in fondo non è importante. Fatto sta che per assecondare questa voglia di Eden, in via Mirabello a Brera, è (ri)nato il Fioraio Bianchi: i fiori che vendeva lo storico negoziante Raimondo Bianchi ci sono sempre, ma adesso la milanese entra più che altro per farsi servire involtini di pesce spada da un ruvido signore francese con i baffi studiati e la erre moscia. Ma l’asticella dello stupore non fa che alzarsi: fiori e cotolette insieme non bastavano e Rosalba Piccinni, meglio conosciuta come la «cantafiorista», ha condito il suo locale Potafiori con canzoni di Mina che interpreta dal vivo riproponendole, su richiesta, anche a domicilio. Organizzare una cena a casa con gli addobbi della cantafiorista che poi gorgheggia davanti agli ospiti è uno degli ultimi vezzi della milanese.

«Ladies Who Lunch»

Gli impegni «mondani» della milanese iniziano già dalla mattina, quando dà appuntamento nel Quadrilatero per un caffè da Marchesi, Cova o Sant’Ambroeus. Il Mib – nel senso di Milan Index Borough, ovvero l’incidenza della zona di residenza sulla scelta di bar e luoghi di ristoro – in questo momento della giornata raggiunge il picco più alto. Chi abita in zona piazza Risorgimento-Monforte fa tappa da Marotin o da Sissi, il pastry-shop dipinto di rosa fenicottero dove la milanese di domenica compera la Charlotte di mele, dolce introvabile fuori dai confini cittadini. Per gli abitanti di corso Magenta ci sono il caffè Leonardo e il San Carlo, quelli di corso di Porta Romana vanno da Panarello («adoro la torta alle mandorle»). Tra i classici c’è Taveggia, in ascesa ci sono Baunilla, pasticceria creativa per le mousse ai frutti tropicali in via Broletto, e Pavé in via Casati, dove si va per la sfoglia e per fare incontri interessanti.

La milanese ama però iniziare la giornata con una chiacchiera nel bar vicino casa, dove conoscono già i suoi gusti. Un dato per nulla trascurabile: insieme alla meccanica quantistica c’è un’altra materia altrettanto complicata, che non si impara a scuola ma solo vivendo, ovvero la preparazione del caffè per una milanese. Quello che ogni altra donna ordina pronunciando quattro parole («un espresso per favore»), a Milano viene accompagnato da aggiunte, modifiche, rivisitazioni e piccoli capricci. La milanese, che ha lanciato nel mondo il marocchino, ha innalzato le pretese con il caffè normale e un po’ di acqua calda a parte, il macchiato freddo con latte di soia, l’americano, il deca, il deca macchiato in tazza grande, il caffè schiumato, quello corretto, il doppio, il ristretto, il freddo in tazza di vetro o shakerato (d’estate), il cappuccino (deca, al vetro, scuro, chiaro) l’orzo e il ginseng (entrambi sia in tazza piccola che grande). Il barista, figura a metà tra un alchimista e un giocoliere, talvolta è chiamato anche a realizzare foglie o iniziali aerografate di cannella o cacao.

Il pranzo scorre su binari altrettanto impegnativi. Se i vecchi gagà si compiacciono ancora di dire «ci vediamo a colazione» – creando quel vecchio dubbio se sia un invito al bar o in trattoria – la milanese snellisce e semplifica grazie all’uso massiccio dell’inglese. L’incontro di lavoro alle 9 del mattino è un «breakfast», quello delle 13 è un «lunch». L’uso della parola «cena» varia a seconda delle circostanze: se la milanese vuol far capire che a casa sua non si mangerà fino a scoppiare invita a un «light dinner» o a un cocktail rinforzato, se vuole proprio evitare l’illusione di un pasto caldo dice agli invitati di venire «cenati». Termine considerato però un po’ cheap, al pari dell’«apericena». La milanese ama particolarmente gli appuntamenti all’ora di pranzo e ha ricreato il fenomeno British delle «Ladies Who Lunch», ovvero donne benestanti e ben vestite che si ritrovano all’ora di pranzo in un ristorante alla moda, come il Paper Moon Giardino, ma a volte anche in qualche showroom per un giro di shopping e un pasto leggero. In genere le «ladies» londinesi sono sposate e non lavorano. Le loro equivalenti nostrane, invece, quasi sempre sono donne in carriera, ma si scapicollano in pausa pranzo per raggiungere la colazione a casa della decana delle P.R. Noris Morano Orsi in via Bagutta o per unirsi al lunch di Michela Bruni Reichlin, icona milanese degli orecchini pendenti che vende durante i friends&family, tra una tartina e un succo di frutta, nel suo showroom in via Montenapoleone. Durante questi convivi si mangia (poco) e si interagisce (altrettanto poco): il tic della milanese è esplodere in un «ciao come stai, che piacere vederti!» e nella medesima frazione di secondo guardarsi intorno per vedere se c’è un’altra persona da salutare. A volte capita che si scambino indirizzi non inflazionati come Puccio & Franco, parrucchieri che fanno «colpi di sole sani». Non mancano ritrovi che ricordano i vecchi incontri Tupperware: può accadere di essere invitate tramite passaparola a un pranzo in un pied à terre in via San Marco («che bello, non sembra Milano!») e assaggiare solo piatti frozen, semi congelati o scongelati che hanno come secondo fine quello di promuovere l’acquisto dell’abbattitore prodotto dal marito della padrona di casa (fatto realmente accaduto). Le Ladies Who Lunch spesso sono anche corporate wives, ovvero mogli che curano pubbliche relazioni utili al marito e collezionano biglietti da visita a pranzi, in palestra, all’uscita da scuola, a tornei di burraco. Saranno le stesse mogli che poi, in fase di divorzio, chiederanno un assegno commisurato al contributo offerto alla fortunata carriera del coniuge.

L’arte del ricevere

Il meglio di sé la corporate wife lo dà quando apre la casa agli ospiti. Ricevere è in generale una delle fissazioni della milanese, che già quando acquista la nuova casa pensa a dove potrà sistemare il tavolo conviviale. L’arte di apparecchiare a Milano travalica il galateo e sconfina nella scenografia: le porcellane Richard Ginori della mamma sono un sempreverde, ma la ricerca di tovaglie di lino grosso e piatti dall’aspetto shabby per le cene in terrazza hanno fatto la fortuna di negozi come Society e Cargo High Tech (per la tavola simpatica e la casa al mare va bene anche Zara Home).

La milanese riceve di solito il giovedì, mai nel weekend, perché di venerdì già è in viaggio verso mari, laghi e montagne. Gli inviti per una cena a casa vengono fatti dieci giorni prima: la frase «domani sera sei libera?» viene accolta con una smorfia di compassione verso l’ingenuità di chi la pronuncia. La mise en place è fondamentale per creare argomenti di conversazione tra i commensali, che vengono invitati secondo logiche diplomatiche/economiche/salottiere: la padrona di casa assegna i posti a tavola, ma può essere che una cena seduti si trasformi in un buffet in piedi se qualcuno porta incautamente il tredicesimo ospite non atteso (fatto realmente accaduto). La milanese indipendente, simbolo vivente delle magnifiche sorti e progressive, nasconde un lato scaramantico, che la porta a smantellare in tempo record un tavolo imperiale pur di non attirare la sfiga. La superstizione viene però giustificata e nobilitata come un interesse verso le carte astrali: la milanese dice di leggere solo l’oroscopo di «Internazionale», ma il 27 dicembre viene avvistata a Malpensa in partenza per le Maldive mentre consulta l’oroscopo di Simon & The Stars. Anche se Branko ha acquisito punti dopo aver predetto il Covid, l’attrazione per l’ignoto ha determinato la fortuna di alcuni personaggi come il sensitivo Mario Azzoni con il suo Istituto di Biopsicotronica, al quale la milanese accede dopo anni di attesa simile a quella di Penelope per Odisseo. Più goliardicamente, rallegra le cene in società con il mago Eddy, illusionista che fa sparire e riapparire l’Amex Centurion del marito.

Nessun contrattempo, compreso quello scaramantico, può scalfire le innate doti da padrona di casa della milanese: persino quando lavora fino a mezz’ora prima dell’arrivo degli ospiti è in grado di far bella figura, anche grazie all’uso sempre più massiccio di servizi di agenzie dal nome evocativo come «Noi tutto» o «Soluzioni di casa». Esperti di economia domestica, prendono in carico la to do list della sciura, che però si riserva il vezzo finale di accendere le candele acquistate da Ceratina, sistemare le peonie, creare soluzioni arty come riempire di frutta di stagione i vasi che sarebbero in realtà destinati ai fiori. Tra le fissazioni della milanese ci sono i centrotavola fioriti, le alzatine e, sotto Natale, le lucine dell’albero stese sul tavolo da pranzo. La cena non deve mai essere da chef stellato: tra i menu più quotati e temuti dagli ospiti ci sono i piatti unici, il vitello tonnato (d’estate) e il polpettone ripieno di carciofi e prosciutto cotto (d’inverno). Lo show off non fa parte del dna meneghino, ma quando è stagione di funghi e tartufi la milanese telefona al Chiosco di Mimì, per un po’ di bianco d’Alba: la «tartufata» è un rito immancabile della stagione invernale e il weekend nelle Langhe si programma di anno in anno. In autunno la «grattata» in città per gli amici è un appuntamento fisso. Ma senza esagerare. La milanese, figlia della operosa borghesia lombarda, non sperpera né soldi né sonno e segue la regola di Camilla Cederna: alle 23 ci si congeda da qualsiasi salotto mondano.

Le mille luci di Milano

Milano in fondo è una piccola New York: la milanese ama ripeterlo con un misto di orgoglio e di stanchezza, perché la città è impegnativa e tentatrice. La sua forza centripeta porta tutti, anche chi non ci è nato, a immedesimarsi nei suoi riti: nessuno vi proporrà mai una passeggiata in centro (fa provinciale, a Milano ci sono mille centri), ma un brunch al Four Seasons (con visita alla stanza del cioccolato), un ape al Radetzky o un drink sul rooftop del Ceresio7. Nata nella culla dell’aperitivo, la milanese non soffre di invidia del Cosmopolitan, il cocktail rosso di Sex & The City. Sperimentatrice e curiosa, frequenta enoteche e «bar à vin» come le Cantine Isola e da qualche tempo il Botanical Club. Da quando ha scoperto il «Giantonic», il gin-tonic profumato al bergamotto che lo chef Giancarlo Morelli serve dentro l’Hotel Viu, lo preferisce al Negroni (oltretutto ingrassa di meno). La milanese rifugge il buffet anni Novanta, ma chiede il bis di pinzimonio e crudité. Se gay friendly, ama l’atmosfera del Lecco Bar: ci va per evadere dai soliti posti con l’amico stilista o autore televisivo. Per un drink dopocena ordina il Moscow Mule o l’Hugo «perché è profumato»: cenare con un cocktail è diventata la nuova fissazione della milanese che, al mixologist del Dry, ne ordina uno da abbinare alla focaccia gourmet e persino al misto crudo di mare.

Da tempo l’eating out di britannica memoria, quell’andare a cena fuori esploso negli anni Novanta, è diventato uno dei passatempi preferiti in città, ma dopo il lockdown la milanese è riuscita a far diventare di moda anche il pacco consegnato direttamente a casa dai ristoranti. Quel misto di fedeltà alle insegne storiche e di curiosità verso la pokeria ha mantenuto intatto il suo spirito anche in epoca di delivery e si ordinano con la stessa disinvoltura il sushi di Iyo, il giapponese preferito, e il sugo alle cipolle e la crema pasticcera di Bice. Il girarrosto di fiducia e la gastronomia sotto casa sono diventati i nuovi indirizzi alla moda: il pollo arrosto del Leoncino, il vitello tonnato di Faravelli e il paté di Campagnoli. Ma la vera passione della milanese esplosa durante la quarantena è il delivery della Langosteria, il ristorante di pesce più fancy della città: abituata a dare il suo tocco finale, apprezza l’idea che sia lei a dover cuocere gli spaghetti che le vengono consegnati insieme alla salsa di aragosta già pronta. L’adattabilità è la sua caratteristica: la milanese cavalca il mood del momento e ci aggiunge tocchi della sua personalità. Non sceglierà mai il posto dove vanno tutti (e tutte), ma un locale che è una espressione algebrica di tradizione, qualità, frequentazioni, location, simpatia del cameriere, accoglienza del proprietario, acustica, insonorizzazione e climatizzazione («si può abbassare un po’ l’aria condizionata?»). Sono nati così autentici pilastri della vita sociale milanese, come la Latteria di via San Marco, che segue un po’ il passo evangelico «è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un cliente affamato entrare nel regno di Arturo e Maria». I proprietari del minuscolo locale in Brera cucinano nelle pentole d’argento uova al tegamino e zucchine trombetta a chi dimostra più tenacia nell’attesa. Il successo o l’insuccesso di un locale è decretato da fattori imprevedibili ma c’è una costante: la milanese trasforma in oro tutto quel che tocca, compreso il gelato. Quello «come una volta» di Grom è diventato un fenomeno da fila al botteghino, con colte discussioni sulla bontà comparata del gusto cannella e noci pecan o delle creme più semplici. Con il suo tocco, la sciura riesce a rendere anche la pizza margherita un momento gastronomico-mondano: la preferita è a Le Specialità, dove prenota la domenica sera quando torna dalla casa in montagna a Silvaplana per una margherita gluten free. I figli preferiscono Pino Malastrana per i tavoli con vista (su veline e calciatori).

Per la milanese mangiare bene è solo uno degli aspetti della serata: il ruolo del cibo può essere talvolta messo in ombra dall’atmosfera di festa, come quella della Briciola, dove è Natale tutto l’anno come a Chinonsò, il paese del Grinch. Tra i posti foodtainment – dove l’ascissa del cibo e l’ordinata del divertimento si incontrano – ci sono Penelope a Casa, altro regno di lucine natalizie e barattoloni di marshmallow e il Porteño Prohibido: qui la milanese mangia empanadas guardando lo spettacolo di un gruppo di tangueri (o tangheri) argentini. Milano è una città di mare e la sua abitante ha il culto del branzino e del pesce fresco in generale. In passato è riuscita persino a trasformare una pescheria in un luogo mondano di aperitivi (Claudio): adesso è di casa al The Fisher, mentre i mariti mantengono (in)fedeltà a La Risacca 6 (che coniuga abbondanza e qualità di presenza femminile). La milanese è anticipatrice e ha battuto tutte sul tempo con la moda di mangiare in hotel: le antesignane hanno cominciato con il Baretto al Baglioni, per l’atmosfera Vecchia Inghilterra, il viavai di facce note e le attenzioni dei titolari Ermanno e Vincenzo che chiamano i clienti per nome: le riservate milanesi in fondo amano essere riconosciute dappertutto. I direttori, di sala e di albergo, sanno viziarle: «Il solito, signora?» è la frase che fa gongolare le sciure.

Qualcuna ha il vezzo di fare, di tanto in tanto, una fuitina in hotel con il marito, per rinverdire complicità e passione: il weekend in un albergo di lusso del Quadrilatero è un capriccio tipicamente milanese. Tra le abitudini importati dai viaggi all’estero c’è anche la cena al museo: la milanese ha sete di conoscenza e fame di quinoa. Così, terminata la visita alla mostra di arte contemporanea, sale all’ultimo piano della Triennale a La Terrazza o dallo chef Enrico Bartolini al Mudec: dopo decenni di borghese insalata di carciofi, ha preso confidenza con la cucina stellata. Ordinare la lattuga prima dell’arrivo degli altri piatti fa chic, ordinare solo quella è fuori moda e un po’ cafone.

La matineé e il turno: cinema e teatri

Nessuna è cinefila come la milanese. Già la mattina, mentre beve il caffè, scorre la pagina dei tamburini del quotidiano che ancora ha il vezzo di ricevere sullo zerbino di casa. Tra i cinema del cuore ci sono quello alla Fondazione Prada o l’Anteo a Brera: previdente e organizzata, quasi sempre prenota il posto in sala via Internet e spesso seleziona la poltrona esterna per avere una via di fuga se il film non le piacesse. Un tic della milanese è la matineé, sogno che riesce poche volte a realizzare per via dell’isterica agenda lavorativa (e non solo): sta alla larga dai multisala ed elogia le sale d’essai, come il Cinemino in Porta Romana, cine-circolo per grandi e bambini (e cani) con film in lingua straniera talvolta sottotitolati, o il Beltrade a NoLo (vedi il capitolo «Brera o NoLo? La milanese cerca casa») dove corre a vedere l’ultimo film di Abdellatif Kechiche. Il non plus ultra è accaparrarsi la tessera della rassegna «Cannes e dintorni» per vedere i film della Croisette nel suo cinema di quartiere. Sui film apre con le amiche grandi dibattiti, che proseguono anche in ufficio e dal parrucchiere: nessuna aspirante milanese può ignorare il cartellone in città.

Se la televisione generalista fa cheap, il cinema fa chic. Una frenesia che ha avuto un rallentamento con il Coronavirus (solo temporaneo), ma che ha rinsaldato altre due passioni molto milanesi: le serie televisive e il cinema all’aperto, già molto amato ma diventato anche safe. D’estate la fissazione è la rassegna di film en plen air a Palazzo Reale, dove la milanese trascina anche il marito e i figli dopo averli spruzzati di antizanzare o ancora meglio di essenza di geranio (mai sottovalutare il lato bio). Ma ci sono anche i Chiostri dell’Incoronata e quelli di via San Barnaba: i più vintage prenotano al drive-in Cinema Bianchini all’Idroscalo (la dose di Autan in questo caso raddoppia). D’inverno invece la milanese compete sul terreno delle serie: durante la chiusura dei cinema sono diventate una dipendenza. Capita che la mattina interroghi la meno competente compagna di scrivania sulla serie The Crown e in contropiede le chieda: «Tesoro tu preferivi Matt Smith o Tobias Menzies nel ruolo del Principe Filippo?». Specialista nel mescolare alto e basso, trash e stile, la milanese guarda con simpatia la puntata 6600 di Beautiful (del resto anche Camilla Cederna non ne perdeva una), mentre fa una smorfia un po’ puzzona quando facendo zapping incappa nel Segreto. Se nelle altre città d’Italia si va a teatro a Natale e per le recite e i saggi dei figli, la milanese doc non si perde uno spettacolo oltre ad avere l’abbonamento alla Scala, turno A, B o C. Il sacro fuoco teatrale si coltiva già da piccoli: prima con gli spettacolini «family» del sabato pomeriggio al teatro Manzoni, poi con brevi e mirate incursioni alla Scala, con titoli come La Cenerentola di Gioacchino Rossini. L’impegno dà i suoi frutti: il gruppo milanese dei giovani amanti dell’opera è il più numeroso del mondo e comprende centinaia di iscritti e altre centinaia in lista d’attesa. Quando è il suo turno e l’amica non può, la milanese si fa accompagnare dai figli: prima però li prepara a casa leggendo il libretto. Sempre in cerca di novità, a volte chiede alle amiche di cambiare turno, «per non incontrare sempre le solite facce»: raramente va alla Prima della Scala ma ogni volta che è il suo turno si veste elegante per un senso di rispetto e di tradizione. Per la milanese, in realtà, ogni volta è una Prima.