Brera o NoLo? La milanese cerca casa
Per entrare nella psicologia della milanese alla ricerca della casa giusta bisogna partire dagli androni. Marmi e ottoni tirati a lucido, passiere rosse che percorrono le scale come alla Mostra del Cinema di Venezia, soffitti a cassettoni, vetrofanie, ascensori cigolanti con sedile in velluto dove però nessuno si siede mai perché la milanese non ha tempo da perdere: la sciura capitola davanti al fascino dell’«ingresso signorile». La questione a Milano è talmente seria che agli androni sono stati dedicati, nell’ordine: 1) un libro celebrativo scritto da un autore berlinese (Karl Kolbitz) folgorato sulla via di Milano, in cui si spiega, tra le altre cose, che la radice della parola significherebbe «passaggio per uomini» (dal greco andròs), il che giustifica l’aspetto austero e virile di questo spazio comune. Ecco forse chiarita l’incredibile attrazione della donna milanese per gli androni? Ma procediamo; 2) agli androni milanesi è stata intitolata una collezione di borse del marchio (parecchio) milanese Valextra con la pelle percorsa da venature grigiastre o rosate come uno scalone (signorile); 3) sempre per celebrare queste terre di mezzo è stato aperto un profilo Instagram, «Androni Milanesi», appunto.
Quello che in altre città è semplicemente l’entrata o l’ingresso o «in fondo alle scale», a Milano si arricchisce di un plus peculiare, come se fosse già un po’ casa, tanto che gli annunci immobiliari ne tessono le lodi parlando di «androne condominiale unico e introvabile protetto dalle Belle Arti». Può succedere che lo scafato immobiliarista cerchi di piazzare il garage buio nel cortile ora reso abitabile (categoria assai diffusa a Milano) decantando il «magnifico androne» che si deve percorrere per raggiungerlo.
Pur digitalizzata e smart come nessun’altra, la milanese difficilmente cerca la casa dei sogni attraverso gli alert dei siti online. Già proprietaria della casa in cui vive (si va dalla deliziosa mansardina parigina a Brera al loft zona Navigli, è in voga via Morimondo) esplora nuovi orizzonti e quartieri quando la famiglia si allarga. Il passaparola rimane lo strumento più usato, ma non mancano le agenzie di fiducia «che sanno esattamente cosa cerco».
Affascinata dalla verticalità della Milano dei grattacieli, pensa per un attimo di abbandonare il famoso androne per la lobby/reception con doorman 24/7, sistema di monitoraggio e vigilanza. Comincia a familiarizzare con l’idea di vivere in una torre al quindicesimo piano, esaltata dall’idea di cavalcare la nuova era e rincuorata dall’essere circondata da un bosco di 800 alberi, 4500 arbusti e 15 mila piante. Ma a Milano tutte le strade portano in zona corso Magenta, ed è lì, in quel perimetro magico tra la stazione Cadorna e piazza Conciliazione che, alla fine, si arresta la ricerca della milanese. La parola d’ordine, dopo androne, è «residenziale»: che significa cioè una zona ad alta densità di milanesi, con servizi per mamme milanesi, parchi per cani milanesi, panettieri, macellai, librai, edicolanti, asili, scuole dall’aria milanese.
Attenzione, perché la milanese soffre molto di una forma estrema di quello che nell’economia immobiliare viene definito effetto Nimby, Not In My Backyard: i servizi devono essere sotto casa, ma non proprio sotto la sua casa. Questo è uno dei motivi per cui rifugge la zona Garibaldi: se Brera «è bella ma c’è un gran viavai con tutti quei localini» (di fatto è il quartiere dei milanesi di seconda generazione, ovvero dei romani che rimpiangono il sampietrino e dei napoletani che si scaldano il cuore con l’umanità che tracima lungo le vie), la zona che gravita intorno alla basilica di Santa Maria delle Grazie è quella prediletta dalla milanese, che però riconosce la primazia del mercato di via San Marco, dove ogni lunedì passa almeno due ore della sua mattinata. Alcuni sono arrivati a sostenere che si potrebbe non fare vita sociale per un mese di fila, ma andando il lunedì al mercato di Brera le alte frequentazioni sarebbero lo stesso assicurate: scambiarsi consigli sul cachemire è stato a lungo lo sport prediletto dai quarant’anni in su. In epoca di virus e quarantena è stato rimpiazzato da aperitivi digitali su Houseparty con scambio di consigli sull’e-commerce con sconti interessanti.
La vera milanese si riconosce per la docilità con la quale acconsente a sborsare il prezzo richiesto per la casa e probabilmente con questo vezzo ha creato la bolla che rende Milano la città più costosa dove comperare e affittare un monolocale. Figlia della laboriosa borghesia lombarda, ricava una certa soddisfazione dall’aver concluso un buon affare, ma la trattativa non è ammessa nel settore immobiliare. Quando lei trova la casa dei sogni si tura il naso e firma: la futura abitazione deve avere però dei requisiti essenziali. Il primo è il piano, che deve essere sempre l’ultimo e con vista, anche se gli immobiliaristi, dopo il Coronavirus e l’uso parsimonioso degli ascensori che ne è conseguito, prevedono un futuro di gloria per piani terra, ammezzati e simili. Altro tic della milanese è la lavanderia: atterrita dall’idea di dover incastrare la lavatrice in cucina o nel bagno, paga quel che c’è da pagare per dare la giusta privacy agli elettrodomestici. Piccole querelle e rallentamenti di trattative possono nascere sulla stanza del personale di servizio, ma se si tratta di una «esigenza temporanea» si ingegna con soluzioni tampone al limite dell’acrobatico (con un letto d’appoggio nascosto dall’immancabile paravento di Fornasetti). Lo stallo totale della negoziazione può avvenire solo in assenza di portineria, che per la milanese è irrinunciabile. La frase più quotata in questi casi è «devo ricevere dei pacchi» (a volte il primo, ironia della sorte, è proprio la casa in corso di acquisto).
Questi capricci vengono messi da parte solo se la casa si trova in un palazzo progettato da un architetto milanese come Vico Magistretti, Luigi Caccia Dominioni o Piero Portaluppi: la milanese capitola davanti al prestigio degli urbanisti che hanno fatto la storia della città e le va riconosciuta la capacità di trasformare un appartamento oggettivamente brutto in status symbol. Nessuna come lei sa valorizzare il fatto di abitare nell’edificio progettato da Marco Zanuso in via San Vittore 7, che per precisa volontà dell’architetto doveva deperire e in effetti oggi è un palazzo decrepito con il cemento che si sgretola. La milanese si inorgoglisce di vivere nella Ca’ Brutta di via Appiani progettata da Giovanni Muzio, una specie di Panopticon in centro a Milano, con «marmi pazzeschi e magnifiche geometrie» (sic). Nel frattempo si è dimenticata che all’epoca venne chiamata Ca’ Brutta perché non piaceva a nessuno: oggi quel nome è un brand e a Milano il brand è tutto. Tra le gloriose costruzioni milanesi ci sono la Torre al Parco progettata da Vico Magistretti in via Revere (vista parco Sempione e rotaie del treno), Torre Rasini in corso Venezia e la dimora di Portaluppi in via Morozzo della Rocca il cui basamento di lastre bene si impasta con il grigiore cittadino: la milanese la elogia decantando la bellezza delle maniglie, i bagni rivestiti di sontuosi marmi d’epoca bordeaux e verdoni e l’originalità delle finestre che si aprono in orizzontale.
Il punto di arrivo rimane però la casa d’inizio secolo in via Cavalieri del Santo Sepolcro, via Telesio o ancora meglio Alberto da Giussano. Se non sposa qualche discendente, la milanese sa che questo sogno si realizzerà solo con la morte e l’intera estinzione della progenie del proprietario: trattasi di «beni limitati» ormai impossibili da reperire sul mercato. Si ripiega allora su una «casa di rappresentanza» in via Guido D’Arezzo, ma continuando a sondare, ai giardinetti Vergani o al mercato di via Wagner, se per caso si fosse liberato qualcosa.
Il quartiere gentrificato
L’Italia è la provincia di un impero e Milano ne è l’essenza: lo spostamento da un quartiere all’altro può significare per la milanese un rimescolamento di identità/relazioni/punti di riferimento paragonabile a un esilio. Di indole indomita e con una finestra sempre aperta sullo scenario internazionale, dalla sua torre d’avorio non smette però di guardarsi intorno: tra i passatempi c’è quello di scommettere sul futuro radioso di alcuni quartieri. La parola più utilizzata, spesso importata dalle figlie che studiano all’estero e vivono in zone come Shoreditch a Londra, è «gentrificazione» che, nella definizione aulica data dalla Treccani è «riqualificazione e rinnovamento di zone o quartieri cittadini, con conseguente aumento degli affitti e degli immobili»: in poche parole è la valorizzazione di quello che prima era un postaccio.
Il quartiere gentrificato è la fissazione della milanese più anticonformista, che ha resuscitato zone come le Varesine. Qui ora svetta la Torre Solaria: alle sue spalle sono nate persino villette urbane dove vivono alcune star del pallone (e per questo la milanese non ci va). L’area intorno ha visto subire un fenomeno simile a quello che è accaduto a Notting Hill a Londra: il valore di appartamenti ingrigiti è salito in modo esponenziale e gli inquilini inconsapevoli di essere seduti su una montagna d’oro vengono spesso fatti accomodare all’uscita con l’obiettivo di creare nuovi torri per bomber e influencer.
Ma cuore pulsante della gentrificazione è il quartiere Brenta, che ha il suo totem nella Fondazione Prada. La vecchia distilleria Società Italiana Spiriti degli anni Dieci, reinventata in istituzione artistica e culturale da Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, ha rinfrescato un altro grande vezzo della milanese, il mecenatismo: la soddisfazione di individuare il talento di un giovane artista oggi va di pari passo a quella di aver adocchiato il quartiere trendy. Ne consegue che oggi avere una casina in zona Lodi/Brenta/Corvetto è il non plus ultra dello chic: vivere tra via Tagliamento e piazza San Luigi è una raffinatezza che traccia la differenza tra la vera milanese e la inurbata, non fosse altro perché da anni ci ha stabilito la sua casa-studio l’artista icona delle dame meneghine, Luca Pignatelli. In una ex fabbrica divisa tra studio, magazzino e abitazione, l’artista ha il vezzo di aggirarsi in bicicletta, per esaltare la grandezza degli spazi e il suo amichevole anticonformismo. I vernissage a casa Pignatelli (vedi il capitolo «Save the date!») sono il massimo della mondanità senza lustrini: tra un aperitivo e un tarallo (il pittore d’estate si trasferisce in Puglia) la milanese convince il marito a investire su una testa femminile impressa in un telone ferroviario.
Con la sua curiosità e lo spirito da bookmaker, la milanese è in grado di plasmare il futuro di artisti, stilisti e ora anche di quartieri. Tra i posti che tiene d’occhio c’è NoLo, nickname che vorrebbe richiamare Soho e che in questo caso significa North of Loreto, inteso come il celebre piazzale definito dallo scrittore Aldo Nove come il «posto più incomprensibile d’Italia e sconsigliato a chi soffre di attacchi di panico». La zona tra Greco, Casoretto e Turro, prima insediamento dell’immigrazione nordafricana, si è trasformata lentamente in un concentrato di giovani professionisti, creativi e hipster. La parola chiave è «rivalutazione» e a NoLo raggiunge il suo apice. Al fianco dei kebab sono nate insegne che intrigano la milanese, come Spazio NoLo 43 o Bici e Radici che vende due oggetti del desiderio della sciura meneghina: fiori e biciclette.
La transumanza verso NoLo di personaggi chiave del lifestyle cittadino è stata dettata dal basso costo degli affitti, oltre che dalla presenza delle agognate palazzine Liberty con il plus del bovindo (la milanese lo venera) e dalla vicinanza alla metropolitana: la sciura scende malvolentieri nei suoi meandri, ma ne decanta l’efficienza e il valore aggiunto in caso di acquisto di casa. In ogni caso, serve sempre una spinta culturale-artistica per scegliere quartieri «esotici»: se il Fuorisalone ha trasformato in place to be Lambrate, a North of Loreto sono nati Radio Nolo, una Biennale d’arte contemporanea chiamata BienNolo e persino Sannolo, festival della canzone, che, partito dal cinema di quartiere Beltrade, premia artisti dal dna milanese, selezionati da una giuria popolare e, specifica il sito, da una «lobby gay». Il ricavato, ovviamente, è devoluto ai progetti di riqualificazione green, parola così tanto ripetuta dalla milanese che le genera una paresi facciale, come una volta accadeva con «cheese».
Palme a Milano
L’interior designer è un professionista che a Milano ha poteri soprannaturali: chi lo assolda gli assegna il mandato di cambiargli non solo la casa, ma la vita. Da questa idea è nata anche una fortunata trasmissione «Cambio vita, cambio casa» che ha per protagonista appunto un interior designer milanese, Andrea Castrignano. La milanese ci va cauta, perché il gusto le appartiene di natura e sa bene come rendere speciale la propria abitazione. Poi, però, al primo numero di «Architectural Digest» che le capita sottomano, cede alla tentazione di «farsi dare un consiglio»: inizia così l’occupazione militare dell’architetto di interni di turno che trasforma una casa in un teatro pieno di colpi di scena, dalle altalene appese in soggiorno ai camini sospesi per aria come fuochi fatui.
Nei lavori di ristrutturazione la milanese ha però un approccio conservativo: il parquet antico che scricchiola deve rimanere «croccante» e scende a compromessi con la contemporaneità rivestendo una piccola parte di pavimento, ma solo quella che si allunga in cucina, con la resina bianca. Gli infissi d’epoca sono sacri e da qualche tempo c’è persino un mercato «nero» dei vecchi termosifoni in ghisa con lo scaldavivande, grossolanamente smontati negli anni Settanta per fare posto ai caloriferi: esiste finanche una bancarella interamente dedicata alla reliquia al mercato dell’antiquariato sui Navigli. Chi trova un termosifone (antico) trova un tesoro. Tra i vezzi c’è quello di bazzicare case d’aste come Il Ponte, non tanto per il risparmio, ma per «ridare nuova vita a oggetti che nessuno vuole più». La milanese ha una nobile fissazione: il recupero. Ha riportato in auge la professione del rigattiere, che nel frattempo è diventato un esperto di materiali in disuso.
Altro oggetto del desiderio è il coffee table book, ovvero quel genere di libro in cui la copertina conta più del contenuto, tant’è che la maggior parte non è stata mai sfogliata e si narra che un editore burlone abbia stampato più di cento copie di un coffee table dove in una pagina scelta a caso fosse stata scritta la famosa frase «scemo chi legge» e che, tuttora, non abbia ricevuto alcun reclamo. Sono infatti più che altro oggetti di arredo da appoggiare sul tavolo con le ruote di Gae Aulenti o accatastati uno sull’altro sul tappeto tibetano acquistato da Ullian in via Manzoni o da Nilufar in via Spiga.
Le amicizie internazionali e i periodi di lavoro all’estero hanno newyorchizzato la casa della sciura: il baricentro non è più il salotto/sala di rappresentanza della Milano da bere. Appagata dal palcoscenico social, cerca in casa il suo angolo segreto, che è molto spesso il doppio bagno con doccia di un metro per due (il bagno turco è di serie) e il nuovo regno di ogni milanese: il closet (leggi cabina armadio), che deve essere rigorosamente diviso da quello del marito/fidanzato.
Al posto delle tende vengono proposte nei soggiorni del centro tende giapponesi di bamboo bordate in seta: la milanese è minimal e soprattutto pratica, ai tessutoni opulenti dei vecchi divani preferisce il nuovo rivestimento lavabile. «Divertente» è l’aggettivo più usato dalla milanese quando deve descrivere qualcosa che travalica i gusti classici e approda nella stravaganza: può essere divertente un cactus di rete intrecciata dell’artista locale Benedetta Mori Ubaldini o le altalene fluo (rieccole) di Paola Lenti per arredare il terrazzo. Divertente è anche la carta da parati che imperversa nelle case delle milanesi: dopo un periodo di tinte verde malva e ottanio, è arrivata la carta da parati palmizia. Ogni milanese oggi ha la sua piccola giungla in casa. Del resto se crescono le palme anche in piazza Duomo…