Nella milanese convivono due anime: una è quella emancipata e combattiva che la porta a sedere nei tavoli di un consiglio di amministrazione con la tenerezza di Gordon Gekko. L’altra è quella romantica e sognatrice che si rivela nell’ambizione che coltiva (in)consapevolmente e porta allo scoperto solo quando finalmente incontra Mr. Big: il matrimonio.
Prima di buttarsi a capofitto nel suo, partecipa con vera sorellanza a quello delle amiche più care e le aiuta con il leggendario piglio organizzativo. Un entusiasmo fattivo inquinato da un malcelato transfert psicologico, specie quando l’amica milanese non è fidanzata: solo la speranza che il suo futuro marito sarà meglio di quello delle altre le consente di sorridere per tutta la cerimonia. Quando arriva il momento del suo matrimonio, si trova davanti a un bivio: può scegliere se appartenere al rito della milanese social o al rito ambrosiano della milanese di nascita/o adottiva, ma comunque (finto) low profile. Imboccare una o l’altra strada porterà a esiti opposti.
Le nozze Coachella
La milanese social comincia a pensare ai dettagli delle sue nozze due anni prima: il save the date elettronico può essere recapitato anche 730 giorni prima dal fatidico giorno (casi estremi eppure realmente accaduti). Il messaggio tra le righe è: «Non prendete impegni e soprattutto non accettate inviti di matrimoni altrui». L’organizzazione per la milanese è tutto e nulla può sfuggire al suo controllo. Il secondo passo verso il grande giorno è la scelta della wedding planner, una figura che ormai raggruppa aspetti da psicologa, confidente, personal assistant e balia.
La bride to be prima di tutto pubblica su Instagram primi piani del suo solitario, con inquadrature che esaltano e soprattutto ingigantiscono il castone: il gioielliere Laurence Graff dovrebbe andare a scuola dalla milanese social per l’allestimento delle sue vetrine in Bond Street. Tra le presunte regole dell’anello di fidanzamento c’è quella assai insidiosa secondo cui il valore deve essere pari a tre stipendi del futuro sposo: nasce probabilmente da questo il tic per cui sono ammessi solo i tre carati e a seguire solo numeri dispari. I golden boy che lavorano nella City tremano: ma qualcuno se la cava regalando l’anello di fidanzamento della mamma. Nel frattempo la milanese di tendenza passa al setaccio i siti americani e le ultime tendenze in fatto di lifestyle, che quasi sempre individua nei profili delle influencer e talvolta da tabloid britannici come «Tatler», in cui si documentano matrimoni di nobildonne o Sloane Rangers con velleità da nobildonne. Non è casuale che in questa fase organizzativa l’inglese prenda, talvolta, il sopravvento: al date con la wedding planner – preso via Instagram direct – la milanese arriva con un moodboard fatto con Pinterest. È in questo preciso istante che, mostrando il catalogo corredato di foto e suggestioni, pronuncia la famosa frase: «Vorrei una cosa proprio così, ma deve essere tutta diversa». L’unicità è l’obiettivo a cui tendere, nessuna ammetterà mai che la folgorazione è arrivata con il matrimonio dei Ferragnez (il sancta sanctorum di tutti i matrimoni social) o con quello più aspirazionale di Pippa Middleton. La promessa sposa con velleità da celebrities non ammette intoppi: quelle che hanno dovuto rinviare le nozze causa Covid hanno sviluppato lo stesso trauma di un abbandono sull’altare e adesso temono che lo sposo, scoperte le sue manie di grandezza, scappi per davvero.
Il finto acqua e sapone
Diametralmente opposto al matrimonio in stile Coachella, con il banchetto nuziale trasformato in un luna park di bancarelle gluten free, chiosco del casaro (per le mozzarelle e trecce di bufala fatte al momento), apecar gastronomici, showcooking e talvolta tende berbere, c’è la variante classic. La milanese con più cognomi e spesso con una casa sul lago Maggiore o al golf di Carimate approccia l’evento in modo diverso: disdegna l’idea che la festa di nozze abbia un tema e chiede «solo» che tutto sia perfetto. Il risultato dovrà essere understated e con un’aria di semplicità da minimo sforzo, ma in realtà ogni dettaglio, anche il più piccolo, pesa come un macigno: l’operazione è paragonabile a quella di una diva che impiega tre ore al trucco per ottenere un effetto acqua e sapone. Vestale di questo genere di matrimoni è la wedding planner Giorgia Fantin Borghi, «specializzata nell’arte della imbandigione» (sic): la sua consulenza, per le fanatiche del decoro, è più preziosa delle porcellane di Limoges che metterà in tavola.
La spaccatura tra i due generi – Coachella o tradizionalista – è già evidente dall’addobbo: da una parte c’è Vincenzo D’Ascanio che «eventizza» ogni cerimonia a colpi di piogge di petali, labirinti fioriti e voli di colombe; dall’altra c’è il calvinismo del vivaio Rattiflora: ha interiorizzato così a fondo il mantra della moda less is more che qualcuno sospetta ci sia dietro il braccino corto del padre della sposa. Se la milanese social mette al primo posto la festa, il dj set e l’open bar (quello che si beve conta più di quel che si mangia), la tradizionalista punta dritta al fine dining e sbarra con un anno di anticipo l’agenda dello chef stellato che cucina cibi di famiglia, ma ovviamente rivisitati. Il costo è ammortizzato dall’esilità del menu: al massimo due portate.
La bomboniera è aborrita trasversalmente: ogni milanese è in fondo di fede «armaniana» e punta a eliminare dal suo orizzonte visivo ogni elemento acchiappapolvere. Il vecchio bric-à-brac di damine segnatempo e sacchetti profumati alla lavanda è stato rimpiazzato da ciondoli personalizzati (vanno per la maggiore le letterine) distribuiti da hostess in peplo a fine serata; le più ricercate distribuiscono quadernini in carta riciclata di Pineider o porte-bonheur dell’argentiere milanese Ganci, nome di fiducia anche per la lista nozze classica, tra sottopiatti in peltro e coppe per libagioni. Riscuotono un certo gradimento anche Amleto Missaglia e Mario Luca Giusti, il santo patrono di brocche, ciotole e oliere delle tavole meneghine. Anche sulle partecipazioni c’è convergenza di gusti: il classico biglietto Pineider «a vassoio» con il bordino oro è stato oscurato dalla carta di cotone dall’aspetto sfrangiato: la più chic è quella bianca, di cui la sposa elogia trama e ordito. La milanese ragguaglia in tempo reale gli invitati attraverso il sito del matrimonio: un countdown dall’aria sinistra accoglie il visitatore in cerca di idee per il regalo. Anche qui la gamma è ampia: piatti, piattini, portaombrelli e chincaglieria varia di Fornasetti, il beniamino dell’alta società meneghina. La lista nozze prevede quasi sempre un’opera d’arte da rintracciare nella galleria di Antonio Battaglia, fratello delle webstar Sara e Giovanna, o da Robertaebasta in Brera. Qualcuna osa e mette l’Iban per finanziare il viaggio di nozze in Polinesia al The Brando, ma vanno bene anche le Maldive (soprattutto se la coppia già convive e «sai la casa è piccola e abbiamo già tutto»). Raramente c’è l’opzione beneficenza, perché sbandierare le opere buone è per la milanese disdicevole: anche per questo l’idea di sostituire la bomboniera con pergamene che attestano donazioni e lasciti viene respinta con una smorfia.
Tra Sanremo e Arturo Brachetti
Ma lo Zenith si raggiunge con il vestito, anzi i vestiti: la sposa social ne cambia più d’uno in corso d’opera, la cerimonia diventa una specie di Festival di Sanremo diviso a momenti, con il gran finale dell’abito della torta, che non potrà mai essere lo stesso con il quale ci si è scambiati la promessa d’amore. Un trasformismo paragonabile solo ad Arturo Brachetti nello show L’uomo dai mille volti, ma ora facilitato dall’avvento degli abiti versatili, con gonne staccabili, strascichi rimovibili e maniche dimezzabili.
La forbice degli stilisti va dal primo prezzo di Atelier Emè all’alta moda di Valentino. Ma qualsiasi sia la scelta la cosa certa è che ogni abito, anche il più prezioso, subirà una modifica: la scusa ufficiale sono i chili persi durante i preparativi («è lo stress», in realtà è una dieta basata sulle abitudini nutrizionali delle popolazioni del Sahel durante la siccità degli anni Settanta/Ottanta). Le irriducibili del bon ton ricorrono alla rassicurante consulenza di Luisa Beccaria, che dopo aver agghindato stuoli di fanciulle milanesi in età da marito garantisce un passaporto di eleganza certificata. Tiene botta in grande ascesa l’atelier di Pupi Solari, arbiter elegantiarum di generazioni di milanesini che sperimenta una terza via possibile tra la sposa «suora» e l’abito «tattoo» seconda pelle della neo-ammogliata, che durante la festa nuziale viene vista twerkare come Elettra Lamborghini. Basta un semplice gesto della Pupi, come il cingere la vita con un nastro di velluto burgundi, per mandare in visibilio la milanese dal palato meno commerciale. Solo una cosa accomuna le due diverse tipologie di milanesi sull’altare: nessuna rispolvera più dall’armadio il vestito della mamma o della nonna. Quello era la bandiera di uno status faticosamente raggiunto: oggi che il matrimonio più che un obiettivo è un grande party, già dopo il lancio del riso la sposa pensa a come sarà facile riutilizzarlo al Ballo del Doge in Laguna.
Anche lo sposo milanese, che in passato ha raggiunto livelli di sobrietà degni di Enrico Cuccia (andando all’altare con lo stesso abito poi indossato nel cda in calendario la settimana successiva), ha scoperto un lato più edonista. Se la sposa ha le sue sacerdotesse di abiti nuziali, lui ha Alessandro Martorana, il sarto «tesoriere» di gran parte del guardaroba di Gianni Agnelli. Nel suo atelier in via della Spiga ha convinto anche i clienti più «ingessati» a osare con il frac monocolore, di solito il blu, a patto che la cerimonia sia un kolossal. Se il matrimonio è più classico il milanese si sbizzarrisce soprattutto con le fodere: nei casi di romanticismo estremo si è arrivati a riprodurre la foto degli sposi. Il cambio d’abito è ormai prassi anche per lui: prima della torta (ovvero prima del party), si mette lo smoking da ballo con giacche in tessuto silver e revers neri. Tra gli accessori c’è l’ingresso delle pantofole British con ricami personalizzati (sempre con rimandi ai convolati a nozze) e al momento del party si infila le velvet shoes (con la gomma antiscivolo per le piroette). Tocco di vanità 2.0 è la tuba, richiesta non per indossarla: al massimo si tiene in mano e la si calza solo per la photo opportunity. In grande ascesa anche il bastone da passeggio.
Se la milanese tiene l’abito del matrimonio nascosto dentro a un caveau che neppure il Rovazzi del video Faccio quello che voglio riuscirebbe a violare, lo sposo è più aperto: svela piccoli dettagli agli amici e le macro anteprime alla mamma (milanese), che sottotraccia dirige tutta l’operazione «abito nuziale». Capita che ci metta lo zampino anche la futura sposa, o con waterboarding intelligenti (del genere «l’uomo più bello del mondo è David Beckham il giorno delle nozze con Victoria») o usando mezzi al limite dello spionaggio. Pare che in qualche sartoria maschile milanese siano stati recapitati pezzetti di tulle o addirittura bozzetti dell’abito della sposa: un messaggio criptato di facile comprensione («cerca di regolarti e adeguati al livello», fatto realmente accaduto). La deriva è meno epica in caso di matrimonio civile: lo sposo che scambia la sua promessa d’amore a Palazzo Marino se la cava in abito grigio con gilet doppiopetto, camicia bianca e cravatta. I gemelli non sono necessari. Evviva.
Di Venere e di Marte
Se Cenerentola ha sposato il principe azzurro in una domenica di sole, Kate Middleton ha portato all’altare William un venerdì pomeriggio nuvoloso. Anche in Italia, da qualche tempo, sono caduti quei paletti scaramantici che invitavano a evitare le nozze di «Venere e di Marte». La milanese, dallo spirito anticipatore e poco conformista, ha abbracciato subito la novità, con qualche caso estremo come il matrimonio infrasettimanale, disperazione degli invitati, costretti a indossare velette e smoking in orario d’ufficio. Di solito sono i matrimoni in città, con cerimonia civile e poi party in una location aggregante. Vanno per la maggiore i tavoli conviviali di ex falegnamerie (vedi Carlo & Camilla in Segheria), ma il vezzo della milanese è addobbare una location da zero: le Officine del Volo, ex officine aeronautiche ora prestate a bisbocce di vario genere, sono una garanzia. «Sul lago» si conferma il gradimento di Villa Balbianello a Tremezzo (insidiata ora dal Grand Hotel Tremezzo) o Villa d’Este a Cernobbio.
La tradizione di sposarsi nella parrocchia della sposa è travolta dalla ricerca della chiesa dei sogni (e soprattutto disponibile). Liste d’attesa pari a quelle dell’acquisto di una borsa Kelly Hermès a Milano si registrano nell’ordine: 1) a Milano nella chiesa di San Cristoforo sul Naviglio; 2) nella cappella di San Vittore in ciel d’oro all’interno della basilica di Sant’Ambrogio; 3) nella beneaugurante chiesa di Santa Maria Incoronata, a Brera, prediletta dalla milanese perché è in centro e perché qui è stato celebrato il matrimonio di Bianca Maria Visconti, madre putativa di tutte le milanesi, e Francesco Sforza (che chic).
L’ultimissima novità, accolta con il solito entusiasmo, è stata quella dei weekend wedding e delle destination wedding. Non più un solo giorno, ma un weekend lungo in località deputate al sì, un mix tra una cerimonia e una zingarata, in cui gli sposi si accollano dal venerdì alla domenica il sollazzo di centocinquanta invitati. Jean Paul Troili, maestro di cerimonia dei diciottesimi e dei matrimoni più prestigiosi del mondo, individua la lontana origine dei matrimoni-maratona nel 2006, con le nozze tra Tom Cruise e Katie Holmes che hanno portato mezza Hollywood sul Lago di Bracciano. Ma in realtà a fare breccia nel cuore della milanese sono state nozze nostrane, come quelle tra la modella e fashion blogger Giovanna Battaglia, che ha trasformato i suoi tre giorni di matrimonio caprese con Oscar Engelbert in un trending topic. Complici i social, alla milanese è arrivata anche l’onda lunga del matrimonio pugliese di Cristel Carrisi, figlia di Al Bano, e Davor Luksic, che ha trasformato la chiesa in un uliveto e applicato un ramoscello argentato anche sull’invito. Ma la vetta a cui aspirare è quella di Beatrice Borromeo con il matrimonio con Pierre Casiraghi, durato nel complesso otto giorni, tra cerimonia civile a Monaco, cerimonia religiosa ad Angera, pranzo ristretto all’Hotel de Paris e cavagnetu (picnic) monegasco con gli amici. Tra gli highlights ci sono anche le nozze campestri a Pantelleria tra Marta Ferri e Carlo Borromeo e quelle siciliane di Lucilla Bonaccorsi Beccaria con Filippo Richeri Vivaldi Pasqua nella dimora di famiglia a Castelluccio, in Sicilia, con corollario di ricotte ‘nfurnate, coroncine di fiori intrecciate al momento, damigelle abbracciate a fasci di grano e l’effetto-wow del baldacchino rivestito di pizzo al seguito della sposa come al festino di Santa Rosalia.
La scelta della location ha inevitabili strascichi: per un matrimonio in masseria l’abito può non essere in tulle bianco (colore messo in discussione già dall’eventualità di seconde o terze nozze) e si spazia verso colori e tessuti più bucolici come l’azzurro polvere, l’ostrica, il pizzo Sangallo, la mussola di seta e pizzo, il tutto accompagnato da bouquet di campo o di fiori autoctoni, dalle zagare ai crochi. La milanese è donna di mare più che di lago: se non c’è il vincolo dei festeggiamenti nella casa di famiglia di Menaggio, si punta dritti a La Cervara di Portofino, anche se c’è la lamentela di sottofondo che «le ville dei dintorni sono sempre le stesse e bisognerebbe scoprire posti nuovi». Con il passaparola si arriva alla masseria salentina che intruppa gli invitati milanesi in balli di gruppo come taranta e pizzica, alla rotonda sul mare caprese o all’intramontabile white wedding a Formentera, l’unico nel quale è disdicevole (oltre che impossibile) indossare il sandalo gioiello a stiletto. Tra i grandi classici dei matrimoni vista mare merita una menzione anche l’accoppiata tra cerimonia nella chiesina Stella Maris di Porto Cervo e party in spiaggia al White Beach Club a Liscia Ruja dove vengono allestiti tavoli rotondi con posateria d’argento e gli indispensabili tovaglioli bianchi che verranno fatti roteare in aria dagli ospiti al momento della musica (in genere Volare dei Gipsy Kings, rieccoli). L’organizzazione prevede un minimo di etichetta. La festa della sera prima deve essere organizzata in una location diversa da quella del matrimonio. Per la cerimonia, il giorno ideale è il sabato. Ma di pomeriggio, così ci si riprende dai festeggiamenti della sera prima e gli ospiti hanno a disposizione la mattina per visitare i dintorni o rilassarsi nella spa.
Il matrimonio invernale è una variante che può portare in due direzioni opposte: o a una cena placée in città alla Società del Giardino, il club per gentiluomini/schermidori, che in quella sera prevede un consumo di cera – in questo caso di candele – superiore al museo Madame Tussauds, o a una cerimonia nella località di montagna (quasi sempre Courmayeur o Celerina) «dove ci siamo incontrati la prima volta». In entrambi i casi la moda ecostenibile (oltre al buongusto) ha bandito da anni l’uso della stola di pelliccia candida o il muso di volpino delle spose anni Settanta dall’indole tassidermica.
Anche gli invitati devono rispettare alcune regole basilari e ricordarsi che sono come le comparse: se non sono in sintonia con lo stile del matrimonio, sembra di vedere un altro film. In alcuni matrimoni la sposa non solo prevede il cambio del proprio abito, ma chiede agli ospiti di fare lo stesso, inviando un moodboard per aiutare gli invitati nella scelta. Il matrimonio di giorno richiede il morning suit (tight) per gli uomini e abito non da sera per le donne. Se il matrimonio è in campagna la milanese preferisce abiti lunghi in cotone e a fiorellini, da indossare con zeppe e furlane. L’invitata con la borsa a tracolla e le décolleté in pelle non è chiaramente una milanese, mentre le headband in bronzo e argento di Madina Visconti tra i capelli sono un segnale di Docg. La vecchia regola di non superare la sposa in fulgore è condivisa anche dalla milanese e dal suo accompagnatore. Se non c’è un tema la regola è essere invisibili: per non sbagliare basta ricordarsi che si sta andando a un matrimonio e non alla finale di X Factor.
Mariachi o Portofinos?
La milanese è maniaca delle foto, soprattutto se ritraggono lei. Il matrimonio si trasforma in una occasione ghiotta per avere centinaia di clic senza essere accusata di protagonismo. Ma ovviamente anche in questo deve dimostrare di saperla più lunga delle altre: il vecchio servizio posato è sostituito da shooting improvvisati e scatti (fintamente) rubati da fotoreporter. L’obiettivo è duplice: perdere meno tempo possibile prima di buttarsi a capofitto nella festa e avere foto poco costruite. Tra gli specialisti c’è Matteo Coltro, conteso per il suo mimetismo tra sposi e ospiti. Anche per il filmino ci si rivolge a nomi di nuova generazione come Matrimonio all’Italiana e Nitrato d’Argento Films che consegnano agli sposi un cortometraggio di dieci minuti invece del kolossal del passato.
La milanese è politically correct e dal suo matrimonio non esclude né cani né bambini. Talvolta il bon ton dell’intera impalcatura scricchiola proprio per colpa dei paggetti, che contravvengono alla regola principale di ogni festa nuziale: mai mettere in ombra la sposa. Il paggetto «invadente» e agghindato come un putto barocco è considerato «tremendo» dalla milanese più asciutta, mentre è accolto con giubilo nei matrimoni meno ingessati. Per i più piccoli l’organizzazione prevede un’animazione degna del Club Méditerranée, mentre per i cani, in grande ascesa, c’è la wedding dog sitter, primo servizio di dogsitting professionale per matrimoni. Con grave scorno della milanese, lo ha inventato una romana.
Tra gli intrattenimenti vanno per la maggiore i mariachi, menestrelli messicani che strimpellano serenate centroamericane anche a Porto Cervo (di solito la sposa li ha scoperti durante i mesi di lavoro all’estero, soprattutto a Londra). Più di nicchia il funky di band come Joe Dibrutto (per la sposa più revival che vuol fare contenti anche gli amici anzianotti dei genitori), da prenotare un paio di anni prima invece il richiestissimo Alessandro Ristori con i Portofinos, soprattutto se l’obiettivo finale è buttarla in caciara ballando sui tavoli, mentre i genitori della sposa battono il piede a tempo di musica e pensano che «sono tanti soldi, ma i ragazzi si stanno divertendo».
Di solito tutto l’ambaradan finisce intorno alle 2 di notte ma qualcuno si ostina a fare l’alba per poter stupire gli ospiti con il chiosco del cappuccino e brioche in stile riviera romagnola. Il day after prevede brunch o picnic informale, rigorosamente a scarpe piatte, con vecchi plaid, cestini vintage di canne e le brocche in vetro per l’acqua (così si rimarca il credo plastic free). Quel che conta è la location: una spiaggia, un poggio in fiore, un uliveto secolare. La milanese sa saggiamente che le prime cose più belle al mondo sono gratuite. Come sa perfettamente che le seconde più belle sono quelle più care.
Il non-matrimonio: la milanese e il divorzio
Il divorzio della milanese è la prova che Gordon Gekko talvolta ritorna e raramente si è convertito sulla via di Damasco. Presa la decisione di lasciare il marito, la milanese affina la propria strategia scegliendo l’avvocato divorzista. Figura mitologica, è una persona che riassume i pregi della wedding planner (quindi, come abbiamo detto, funge da psicologa, confidente, personal assistant e balia), ma alla quale viene chiesta la freddezza di un killer.
Per questa ragione la milanese, normalmente prima di avere comunicato le proprie intenzioni al futuro ex coniuge, comincia ad approcciare in modo carbonaro i princìpi della Sezione Nona del tribunale di Milano. Nonostante abbia scelto sin dall’inizio chi l’assisterà, la strategia prevede un contatto con tutti i più spietati avvocati divorzisti. Nelle richieste economiche e patrimoniali, segue in prima istanza le linee guida della più grande pensatrice moderna del divorzio e cioè, Zsa Zsa Gabor che in società si vantava: «Sono bravissima a tenere la casa. Ogni volta che divorzio ne tengo una». Ma la milanese non si accontenta di accrescere il proprio patrimonio e mira spesso a un cospicuo assegno divorzile: non per niente la regola secondo la quale l’ex marito deve garantire alla ex moglie lo stesso tenore di vita di cui godeva durante il matrimonio è nata proprio nelle aule del tribunale di Milano (ed è morta, seppure dopo molti lustri, nelle aule romane del Palazzaccio).
Anche dopo l’avvento del divorzio breve e il tramonto degli assegni di mantenimento alle miliardarie, per non lasciare nulla intentato gli avvocati stilano liste lunghe quanto i precetti del Talmud. In quest’opera, la milanese affianca il proprio legale e si scopre archivista. Vengono rinvenute «casualmente» tutte le ricevute della panetteria, del verduraio, del suo parrucchiere e di quello dei bambini, le quietanze della scuola, le fatture delle vacanze e dei ristoranti e i conti spropositati delle spese veterinarie dell’immancabile bassotto.
Qualora la milanese abbia smesso di lavorare dopo il divorzio, gli avvocati sviluppano argomenti iperbolici per dimostrare dapprima che se lei avesse continuato la carriera avrebbe svolto nella storia un ruolo paragonabile a quello di Marie Curie e, in seconda istanza, che il successo del quasi ex marito dipende solo da lei. Questi argomenti sono sviluppati traendo ispirazione da parole, opere e omissioni e possono variare da «con il mio comportamento non ho ostacolato la tua ascesa lavorativa» a «se non ci fossi stata io non saresti andato da nessuna parte» a, qualora il marito non abbia un pedigree meneghino, «tu a Milano senza di me non eri nessuno».
Spesso nella diatriba sono coinvolti anche gli ex suoceri, in qualità di co-finanziatori di una start-up di insuccesso. Si narra che in una causa divorzile l’avvocato di una milanese abbia portato quale prova a suo favore una cartolina spedita trent’anni prima, nella quale un ignaro groom to be esprimeva la propria gratitudine al futuro suocero per aver regalato un viaggio vergando con le proprie mani la frase: «Un ringraziamento allo sponsor». Questo a riprova che la milanese non butta via niente soprattutto se si parla di documenti che potrebbero essere utili in una causa divorzile.
Il divorzio della milanese, dal punto di vista estetico, non è sicuramente ispirato a La guerra dei Roses. Mancano infatti le litigate furiose, il lancio della chincaglieria, le auto distrutte e i cani (in questo caso, ovviamente, bassotti) (in)volontariamente investiti facendo manovra. La milanese, piuttosto, si ispira a Scene di un matrimonio di Ingmar Bergman: lunghi silenzi, gocciolii di rubinetti e come musica di sottofondo le urla degli avvocati.