Il milanesino è una specie a sé: piccole/i Gertrude di manzoniana memoria che vengono addestrati fin da subito dalle mamme per diventare non monaci, ma (perfetti) milanesi. Se «a sei anni Gertrude fu collocata, per educazione e ancora più per instradamento alla vocazione impostale, nel monastero», i piccoli milanesi vengono collocati nella scuola che la mamma ha già scelto al momento della nascita, insieme al nome. Decisionista come nessuna, la milanese ha già in mente il percorso formativo dei figli: tra le altre cosa sa che, per iscriversi a scuole private con rette pari all’acquisto di una city car di lusso, deve battere le altre mamme sul tempo. Matura un piccolo vantaggio solo se ha già iscritto un altro figlio alla stessa scuola e se si tratta del terzo milanesino c’è anche uno «sconto comitiva». Ci sono casi, realmente accaduti, di bambini iscritti all’Istituto Gonzaga al compimento del sesto mese (di vita, per fortuna non di gravidanza) per essere sicuri di non dover interrompere la tradizione gonzaghiana di famiglia. Ma in genere la coda all’ingresso si verifica di più nelle scuole internazionali o bilingue, dove il piccolo milanese entra a cinque anni per accedere alla primary: da quel momento inizia una girandola di usanze e riti anglosassoni che ha come baricentro il calendario britannico.
Il fenomeno antropologico tipicamente milanese è che la scuola viene scelta non seguendo le attitudini dello scolaro, ma la professione/inclinazione personale della mamma. La St. Louis School è prediletta da mamme manager o membri di cda, socie di organizzazioni come Valore D o InspirinGirls: nei casi più eclatanti la working mum è presente nella classifica di Forbes. La Sir James e la American School hanno una densità più alta di expat (parola molto pronunciata dalla milanese), mogli di diplomatici e di manager globetrotter in balia di trasferimenti improvvisi. La San Carlo è la scuola delle mamme che hanno scelto di dedicarsi alla famiglia con specializzazione «gestione del personale domestico» (le colf sono l’argomento che tiene banco durante il caffè tra mamme del mattino o la pizzata di fine anno scolastico). Qualcuna di loro ha un ufficio di pubbliche relazioni o di consulenza che generalmente ha come cliente principale il marito. La milanese di credo ambrosiano prosegue la tradizione del Leone XIII, quella con più di due cognomi ha fiducia nella bontà della scuola pubblica o paritaria come lo Zaccaria o l’Educandato Setti Carraro, in passato noto come Collegio delle Fanciulle, «tanto l’inglese lo impareranno quando andranno a fare gli ultimi due anni di liceo a Londra». Questo genere di mamme di solito accompagna a scuola i bambini in sella a una specie di risciò o tuk-tuk dalla tripla sella, ma non mancano milanesi sul Christiania, il trike inventato nella omonima comune danese fondata negli anni Settanta che prevede un box in compensato dove trainare fino a quattro bambini. C’è poi uno zoccolo duro di fede steineriana che ha bambini ai quali è sconosciuta l’esistenza di Lyon, lo Youtuber che gioca a Minecraft idolo del novanta per cento dei novenni, e più in generale di canali come Yoyo e Cartoonito. I genitori prediligono proiettare pellicole d’autore, come Ponyo sulla scogliera del maestro d’animazione giapponese Hayao Miyazaki, che è l’equivalente per bambini della Corazzata Potëmkin di fantozziana memoria.
Le elementari sono precedute da anni di asilo non casuali: le anglofone sono indecise tra Clorofilla e Kid’s Coat (vince quello più vicino a casa), ma sanno che se vogliono un posto assicurato in primary devono cominciare a iscrivere i piccoli già alla materna (early years). Per rafforzare le basi di inglese del rampollo la mamma milanese si arma di buona volontà e con l’intercessione di una expat «inclusiva» riesce ad accedere alle merende carbonare di mamme con perfetto accento wasp. Tra i club più ambiti c’è il Benvenuto, dove capita che agli incontri le socie indossino i loro costumi nazionali. L’eccellenza nelle scuole inglesi viene coltivata a suon di accent che deve essere oxfordiano e pare che le bambine siano molto più diligenti e riescano nei casi più virtuosi ad allargare la «a» come la principessina Charlotte. I bambini, ovviamente, appena possono (cioè nell’intervallo), riprendono a parlare in slang milanese e un recente sondaggio non ufficiale ha rivelato che sotterrerebbero la divisa con cravattina e blazer così amata dalla milanese. Sempre lo stesso sondaggio ha rivelato che i tre giorni più felici dello scolaro iscritto alla scuola internazionale sono i «no-uniform days», un anticipo dei casual Friday di quando saranno brillanti banker della City.
La tata che non c’è
C’è solo un’altra attività che impegna la mente della mamma milanese al pari della scelta della scuola: è la selezione della tata. Anche qui l’inglese è un fattore cruciale. Il modello di riferimento inconscio è Miss Parker, la tata degli Agnelli: la milanese pagherebbe oro per sentire la baby sitter che vieta i dolci tra un pasto e l’altro dicendo, proprio come la tata anglo-sabauda: «It ruins your appetite». Invece la mamma di Milano paga lo stesso oro, ma per una tata filippina o srilankese che «parla un ottimo inglese, non conosce una parola di italiano, pensa che fortuna!». Altre volte viene selezionata una ragazza alla pari: ma come dice Tommaso Labranca il trash è il fallimento di un obiettivo alto, e invece di una fanciulla della middle-upper class inglese arriva la au pair di Glasgow campionessa di lancio del tronco. Nelle sere libere di inverno a volte succede di vederla uscire senza calze e sentirla rientrare all’alba in stato di avanzata ubriachezza.
Come per la scuola, la ricerca della tata inizia già con il primo test di gravidanza positivo: la prima figura di cui la milanese sa di non poter fare a meno è la puericultrice, versione contemporanea rivista e aggiornata della balia. Le più new-age preferiscono ricorrere alla figura della doula, in greco «colei che serve la donna» e in alcuni casi si insedia già durante la gravidanza come sostegno emotivo-pratico anche per il parto, che avviene in genere in luoghi come la clinica Mangiagalli (preferibilmente ala solventi Santa Caterina). Fanatica della piega come nessuno, la milanese prende appuntamento con il suo hair stylist il giorno prima della nascita: ecco perché alcune di loro, nella foto in sala parto, hanno capelli più in ordine di Kate Middleton all’uscita della Lindo Wing del St Mary’s Hospital.
Il momento dell’arrivo a casa è quello in cui la puericultrice, in realtà una cerbera, si impossessa della vita del neonato e della mamma, dettando agenda delle poppate, gestione del ruttino, cambio del pannolino (quelli di marca giapponese sono i più richiesi dalle puericultrici) e persino orario delle visite di nonni e parenti. Il suo stipendio è pari a quello di un parlamentare, ma per fortuna è una parentesi che dura al massimo tre mesi, dopo di che subentra la baby sitter.
La ricerca della tata perfetta è agevolata da gruppi Facebook come MaMi («Il club delle mamme di Milano per le mamme di Milano»), siti come Mumadvisor creato da una mamma milanese che ha trasformato i suoi problemi in opportunità e da alcune agenzie specializzate in formazione di personale domestico. I nomi – come l’Accademia della Casa – lasciano pregustare scenari di ordine, rigore ed educazione stile Villar Perosa: dopo aver sviluppato la sindrome del tunnel carpale in seguito alla compilazione del modulo, la milanese viene messa in contatto dall’agenzia con l’aspirante tata, selezionata in base ai requisiti inseriti nel modulo di cui sopra. La mamma milanese si entusiasma e si spertica in lodi con le amiche, dichiarandosi fortunata e in alcuni casi «miracolata» per aver trovato una tata così preziosa. Accoglie la neo-assunta con la divisa acquistata da Siti, il negozio-mecca per grembiuli e abiti da lavoro in zona Porta Venezia: il tocco glamour sopraggiunto negli ultimi anni sono le friulane, dette anche papusse, le silenziose pantofole usate dai nobili veneziani per introdursi nelle stanze delle amanti. Oni tata milanese ne sfoggia ai piedi un paio (generalmente blu).
La milanese è una donna socievole e anche in vacanza vuole essere certa di poter contare su qualche serata di libera uscita, così coinvolge la tata nella villeggiatura estiva (vedi il capitolo «Mari e monti»). Questo purtroppo è il momento in cui è evidentissimo il divario tra aspirazione e realtà. Se la famigerata Miss Parker a Forte dei Marmi faceva sdraiare i piccoli Agnelli «dieci minuti sulla pancia, dieci minuti sulla schiena, non di più», per poi tornare a riposare in villa, i bambini della mamma milanese vengono lasciati ribollire come spaghetti scotti nella piscina del Bagno Piero mentre la tata chatta con la famiglia in Perù, gettando loro ogni tanto uno sguardo svogliato. L’incantesimo di solito si spezza del tutto quando la milanese scopre che la tata: 1) ha un profilo Facebook aggiornato nelle ore di lavoro in cui appare seminuda in una milonga; 2) organizza sedute fotografiche Instagram dentro alla cabina armadio della datrice di lavoro spacciandosi come influencer sotto falso nome (fatto realmente accaduto); 3) scappa nel suo paese da un giorno all’altro inventando un lutto gravissimo in famiglia per poi essere avvistata qualche giorno dopo al lavoro dal parrucchiere di quartiere come phonista (altro fatto realmente accaduto).
I party di compleanno
Il mini compleanno è uno dei momenti di massimo sfoggio di potenza creativa della mamma milanese. La data, come nel caso dei matrimoni, viene annunciata con larghissimo anticipo con un save the date generalmente elettronico (il messaggio è duplice: io rispetto l’ambiente e soprattutto nessun altro occupi la stessa casella nel calendario). La griglia di classe dei compleanni, con le date non sovrapponibili, è un esercizio a metà strada tra il Subbuteo e la geopolitica internazionale. A ridosso dell’evento la milanese viene colta lo stesso da grandeur e sacrifica un pezzetto di Amazzonia per stampare cartoncini di invito tridimensionali da consegnare a mano come recall.
La scelta della location deve tenere conto di due fattori: la vicinanza dalla scuola e la presenza di gonfiabili. La mamma milanese ne farebbe volentieri a meno (dei gonfiabili) e tenderebbe a festeggiare in ludoteche con giochi antichi come trottole e cavalli a dondolo, puzzle intelligenti e succhi di frutta bio. Il momento istruttivo è fondamentale, quindi almeno una volta tenta di organizzare il compleanno alla fattoria didattica, all’Acquario civico o al Planetario. La parentesi educativa genera tra i piccoli invitati scontento e letargie: la mamma milanese fa tesoro dell’esperienza e per le volte successive prenota una ludoteca dove abbondano castelli, scivoli, fattorie e multipiani in pvc, affittata allo stesso costo di un posto in platea alla Prima della Scala.
La prenotazione di posti come Il Nano Gigante o Zero Gravity è solo il primo passo di una organizzazione che deve tener conto anche di una torta stile Chef Buddy e dell’animazione, il vero elemento che decreta l’insuccesso o il trionfo del tutto. Si va da Ciccio Tempesta al Mago Simone (da prenotare con un anno di anticipo attraverso la segretaria), dalla caccia ai Pokemon di Paola Maresca fino al «safari» ai giardini Montanelli a bordo di una macchina a pedali (che generalmente i bambini ritengono troppo vintage). Non manca l’angolo sushi o poke per i genitori, con bollicine di accompagnamento. Tutto termina con la piňata, alias pentolaccia, e «scarta la carta», l’apertura dei pacchetti che scatena l’invidia dei piccoli invitati e allena già da bambini alla competizione tipicamente milanese.
Vestivamo alla marinara (versione milanese)
Bianco d’estate, blu d’inverno: questa regola ferrea di eleganza infantile degli anni Cinquanta si è lentamente infranta contro la forza del mini-me. Più che una moda, una deriva sociale che oggi vede quarantenni vestiti alla stessa maniera di un seienne. La definizione del mini-me è già nel nome: la piccola milanese indossa in scala ridotta lo stesso look della mamma (vale anche per il figlio maschio con il papà). Questo ha generato fraintendimenti generazionali anche gravi, con nonne in maglietta Abercrombie come quella del nipote adolescente o mamme in hot-pants come la figlia liceale, errore da matita blu che Inès de la Fressange definisce «un po’ come continuare a usare il biberon dopo i quattro anni». Tra i vezzi delle mamme più casual c’è anche quello di acquistare le stesse Chipie (le scarpine in tela senza lacci) del bambino o nei casi più estremi i sandali a occhio di bue. La vanità delle mamme si specchia negli occhi dei figli e raggiunge uno dei suoi punti massimi quando organizza, trascorsa appena una settimana dal parto, il primo shooting con il bebé: il pacchetto «newborn» è uno dei più venduti da fotografe come Le Kelly, due ex professioniste legali che hanno lasciato l’aula del tribunale per dedicarsi a un’attività più redditizia (almeno a Milano) ispirata a quella di Anna Geddes.
La milanese più tradizionale, per la quale l’abito fa ancora il monaco, si arrocca in piazzale Tommaseo dove continua a seguire i consigli di Pupi Solari: la decana della moda junior milanese per sua stessa ammissione continua «a vestire i bambini tali e quali a quarant’anni fa». Il risultato è un innesto tra Mario Monti e il principino George. Il milanesino in questione ha in dotazione per l’inverno due paia di pantaloni lunghi, una camicia, un golf di Shetland preferibilmente a righe: fino ai quattro anni ha un cappotto genere loden che poi diventa un caban alle elementari; per la stagione media un blazer (sempre in Shetland) tre bottoni, scarpe Start-Rite inglesi per tutti i giorni e in gomma per la scuola da indossare con calzettoni in cotone al ginocchio. In primavera/estate i pantaloni si accorciano e si usano i pullover in cachemire che «la Pupi» propone in ben quattordici colori (si tratta pur sempre di bambini). La Pupi è Milano e le milanesi ricordano con nostalgia i tempi in cui, in periodo di saldi, metteva fuori le transenne e assegnava la precedenza a chi la mattina, già dalle 7, aveva ritirato il suo cartellino: un modo per calibrare gli ingressi che oggi la sciura vede come un «modello» da recuperare del tutto in linea con le norme sul distanziamento. Nella visione ambrosiana il genere ninfetta, o peggio Lolita alla Suri Cruise, è aborrito: per la bambina è il trionfo del colletto rotondo e del punto-smock. Il nido d’ape è il ritornello su camiciole e abitini, da aprile a settembre, ma certe volte la milanese mixa e matcha con pezzi di Zara. L’indole parca di Milano porta a non disdegnare alcuni punti di riferimento del risparmio dai nomi programmatici come Il Salvagente, che in epoca di saldi sconta merce già saldata: la milanese a quel punto fa incetta di scarpe e maglioni di due taglie in più «ma tanto il bambino cresce in fretta».
La ribellione arriva qualche anno più tardi, quando le bambine chiedono di partecipare al lancio della bralette di Chiara Ferragni per Yamamay in corso Vittorio Emanuele e i bambini si presentano all’ora di cena abbigliati come Giuse360, il videogiocatore di Fifa. Sic transit gloria mundi.