Mario Monicelli avrebbe voluto sulla sua tomba l’epigrafe «Non è mai stato alle Maldive». Una simile lapide non potrà mai essere quella della milanese, che ogni anno si vanta di aver scoperto una nuova isoletta dell’Oceano Indiano: se le comuni mortali ci vanno al massimo in viaggio di nozze, lei conosce ogni resort e negli atolli si sente un po’ a casa. Riservata e understated, non pubblicizza troppo la sua fuga al caldo, ma nell’era di Instagram è difficile mantenere il segreto. Tra fondali turchesi e spiagge bianchissime l’«ohhhh» è sempre in agguato: così la milanese cede e si avvinghia a una palma con l’Instagram husband che le scatta la foto perfetta appollaiato sopra la stessa palma.
Detox è la parola d’ordine più usata quando decide di partire per paradisi sperduti: indaffaratissima e sempre di corsa, dice che va in vacanza «per staccare la spina e spegnere finalmente il telefono». L’idea di una valigia leggera si infrange con il carico di caffettani, parei, vestaglie, tuniche e kimono, vero tic della milanese, che mixa marchi mainstream con pezzi di nicchia, come Orsorama. Esigente ma sognatrice, rinuncia al concierge per trovare un angolo sperduto di mondo: l’ultima mania è prenotare in posti remoti come Gaafu Alifu, per arrivarci ci vuole un triplo volo (di cui uno di stato). La milanese va alla ricerca degli atolli meno costruiti in mezzo al mare perché sa che «un solo palo può cambiare le correnti e mangiare la spiaggia». Portabandiera del turismo esperienziale, ha fatto impennare le prenotazioni delle guest house maldiviane, anche se a metà vacanza rimpiange il prosecco al tramonto del resort italiano. La sua fissazione è essere viaggiatrice e non turista: quando torna da un viaggio deve poter raccontare di aver raccolto le noci di cocco con i farmers del luogo. Non vuole essere spettatrice, ma partecipe: anche alle Maldive chiede di poter fare un corso di cucina, nuotare con le mante o medicare una tartaruga marina ferita dalle eliche di una barca.
Finge indifferenza se piove: lamentarsi non è da viaggiatrice e sperare sempre nel bel tempo è da provinciali. Ma se viene interrogata, sa tutto sul fenomeno del madden-julian-oscillation, i fattori variabilità intra-stagionale in atmosfera tropicale. Snobba la gita sul doni (per lei è l’equivalente della gondola veneziana), ma legge molti libri sull’hundoli, il dondolo maldiviano. Fanatica della water villa snobba la piscina privata in camera: fa un po’ rich kid e con il mare delle Maldive è un vero spreco. Ama il cibo tipico e diserta il buffet internazionale: le vere habitué, con il pizzicore alla gola per l’aria condizionata sull’aereo, chiedono un lomi lomi, la tisana di miele, zenzero e limone, rimedio delle nonne maldiviane. Alcuni comfort food in mezzo al mare la rincuorano: ha un guizzo di felicità quando vede in tavola l’acqua San Pellegrino e nel menu gli spaghetti ai pomodorini del Piennolo.
Alternativa sempreverde alle Maldive è Miami, però durante Art Basel, la fiera internazionale d’arte, che cade con tempismo nel ponte di Sant’Ambrogio. La milanese alterna pomeriggi in piscina al Delano a visite allo stand di Gagosian: l’arte in fondo è una scusa per vivere un weekend lungo divertente. Usa i servizi degli hotel, ma la smania di vivere da local la incoraggia ad affittare casa. Spesso ha un appartamento alla Portofino Tower (che dal nome lascia intuire la provenienza dei locatori), di cui elogia la comodità della palestra interna e del piccolo supermercato a disposizione del «condo». Conosce SoBe (così chiama South Beach) come fosse Milano e in fondo sa che gli abitanti di Miami non sono altro che milanesi in costume da bagno. Sempre attenta alle novità, è la prima a prenotare una lezione di yoga in spiaggia: anche se gravita intorno ai luoghi mondani aspira a frequentare posti «non turistici». Spesso viene avvistata alla riserva naturale di Key Biscayne a Cape Florida, ritenuta più esclusiva di South Beach, e se proprio vuole incontrare qualche faccia amica prenota al bagno Bentley. Lo stesso vale per i ristoranti: talvolta cede e si unisce alla tavolata simpatica a Casa Tua. Mangiare italiano fa molto turista e poco insediato, ma fa una eccezione per la pizza di Visa 01, così chiamato perché il pizzaiolo ha vinto il visto. E ovviamente non è turistico. Ma la milanese punta più a seguire la lista di Ambra Medda, la direttrice italiana di Design Miami, che è di casa al ristorante greco Mandolin Aegean Bistrot. Qualcuna esagera e prenota a Le Bocce, ristorante con giardino e, appunto, campo da bocce (la petanque è un vezzo tipico di alcuni abitanti di Milano). La parola più pronunciata dalla milanese a Miami è fancy, ovvero figo, di tendenza, da non confondere mai con famoso o affollato: al Cantina Ventana mangia cucina fancy messicana, il Coya è il regno del fancy peruviano.
Per far contento il marito collezionista, fa il bis di Art Basel anche in giugno a Basilea (un po’ controvoglia, dov’è la spiaggia?): se Miami è la versione in minigonna, l’appuntamento nel cantone è per puristi. Il pubblico è lo stesso dell’inaugurazione privata di Miart: il non plus ultra della ammissione al circolo di mecenati e collezionisti è l’invito a pranzo con gli artisti, in cui il cummenda in gessato siede a fianco dello scultore tatuato. La milanese, abituata al pinzimonio di cultura e vita sociale, si muove fluida tra un pranzo mondano al Kunsthalle e incontri con artisti di nicchia come Latifa Echakhch, amata per il blu delle sue opere legate alla primavera araba. Anche se fa molto chic dire di avere investito su un quadro di Giosetta Fioroni.
Ponti, che ossessione!
Pianificatrice e organizzata, la milanese ha come fissazione, all’inizio del nuovo anno, la ricerca nel calendario di ponti e feste comandate. Seppur innamorata di Milano non si lascia sfuggire occasione per la fuga fuori città: i ponti di primavera sono il momento in cui insieme alla natura si risveglia la sua voglia di viaggiare. Tra i grandi classici c’è il weekend lungo a Marrakesh: la passion marocaine della milanese è nutrita da un immaginario fatto di riad, hammam e gallerie d’arte. Appena atterra a Menara indossa subito un caffettano e in fondo vive la città come fosse un posto di mare, tra pomeriggi in piscina e l’immancabile massaggio. Un po’ come il Club Tropicana degli Wham dove «all that’s missing is the sea, but don’t worry you can suntan!» (manca solo il mare, ma tranquillo, puoi abbronzarti!). Decanta la visita a Majorelle, il giardino di Yves Saint Laurent e Pierre Bergé, e discetta sull’inconfondibile blu che vorrebbe replicare nella casa di Alassio. Almeno una volta nella vita ha dormito a La Mamounia, l’hotel più famoso, ma ora preferisce il riad della Medina o il nuovo resort nella Palmeraie. Passa da un tè alla menta allo shopping di tuniche Norya Ayron: contrattatrice spregiudicata per le vie del suq, solo da Amazonite, la bottega amata da Gianfranco Ferré, incassa con obbedienza il divieto di contrattare sul prezzo. Più dell’hammam a Palais Namaskar preferisce la gita a Essaouira: lungo la strada fa tappa nella farm della milanese Lucrezia Mutti, che produce un olio di Argan bio «che se lo usi è meglio di un lifting».
Il ponte per eccellenza è però quello di Sant’Ambrogio che può coincidere con due grandi riti: oltre a Miami per l’arte, c’è l’inaugurazione della stagione sciistica o lo shopping natalizio a New York. L’agenda viene ovviamente barrata con larghissimo anticipo, perché nulla va lasciato al caso: la prenotazione di ristoranti, musei e bar può avvenire anche tre mesi prima, perché tra le cose che non digerisce c’è il fully booked. La differenza tra una milanese e una finta milanese è la presenza del nome nel libro delle prenotazioni: non si esce neppure di casa senza la certezza di un tavolo riservato. Quando comincia a lavorare sulla fuga di Natale a New York di solito si trova nella casa in campagna per il pranzo di Pasqua: affascinata dall’idea del «reclaimed», piuttosto che in un hotel ad alto consumo tenta di prenotare in un albergo green. L’importante è essere nei dintorni di Central Park: anche se dissimulerà le sue intenzioni decantando l’atmosfera cool e gentrificata di Dumbo, a Brooklyn, nei suoi sogni c’è l’appartamento di Yoko Ono nel Dakota Building. Appena dopo il check-in in albergo, la milanese si immerge nell’atmosfera e procede con: 1) l’acquisto di una playlist natalizia da Saks; 2) un giro all’ice ring del Rockfeller Center; 3) lo shopping da Jeffrey, lo store di culto per lei che snobba Bergdorf Goodman; 4) la prenotazione del brunch con gospel da Red Rooster ad Harlem. Una volta ubriaca di Natale si mette in coda al MoMa dove si infiamma per la mostra sulla cucina con i bicchieri originali da cocktail in Pet di Tupper, il fondatore della dinastia di schiscette. Subito dopo fa tappa al Whitney Museum e si addentra nel Meatpacking District dove fa un giro sulla High Line, la ferrovia dismessa che sorvola il West Side: fanatica come nessuna del foraging, la raccolta di erbette eduli, decanta i cento tipi di sterpaglie autoctone urbane che spuntano tra le rovine industriali. La milanese è curiosa ma anche abitudinaria: non può dire di essere stata a New York senza aver pranzato da Pastis o fatto un brunch da Balthazar, ma poi, sempre con l’ambizione di vivere come una local, fa rotta a Madison Square Park dove ritira il suo numero al chiosco Shake Shack per burger e milkshake sotto una nevicata da Polo Nord. L’idea di sentirsi parte della comunità la dirotta fino a Brooklyn, in Williamsburgh Savings Banks, per visitare il mercato delle pulci e fare scorta di tempere da Robert Doak a Dumbo, il quartiere degli artisti. Anche se non dipinge è «un’esperienza esserci stati».
Monti, istruzioni per l’uso
La milanese è una montagnina convinta. Figlia della alta borghesia senza fronzoli, ma con molta sostanza, ha imparato fin da piccola a veleggiare tra cime e discese. E quando si incontra sulle piste si riconosce a prima vista. Solo lei, unico esemplare vivente, è riuscita nella sfida di essere comoda, calda e infine anche elegante aggrappata a uno skilift. Cresciuta con padri cultori di «scarpe chiodate, grosse, dure e pesanti come il piombo, calzettoni di lana e passamontagna, occhiali da ghiacciaio sulla fronte», ben descritti da Natalia Ginzburg nel suo Lessico famigliare, ha saputo mediare con destrezza. Lentamente ha introdotto lo charme dei dolcevita di Gianni Agnelli nelle discese a Sestriere, stando ben attenta a non scivolare sui jeans con le ghette di Claudio Amendola nel primo Vacanze di Natale. Oggi, grazie alla milanese, anche la vetta può essere una passerella: siccome ci tiene a far vedere che è in forma, indossa solo salopette effetto seconda pelle (quella da omino Michelin anni Ottanta l’ha prestata alla colf). La maschera a specchio è must, lo zaino è vietato, ma in tasca c’è sempre un rossetto per il momento della photo opportunity in baita.
La milanese si divide tra Sankt Moritz e Courmayeur: Cortina è troppo romana. La minoranza milanese che la popola abbraccia due diverse religioni, quasi inconciliabili: la prima prevede una vita ritirata, fatta di cene in casa e ritrovi al Club 18. Questo genere di milanese rimpiange gli anni Cinquanta di Indro Montanelli, riceve in casa con l’abito ampezzano e ci tiene a far sapere che la sua Cortina è quella del centro, con la chiesa, la piazzetta, la cioccolata calda di Lovat e l’Hotel Posta, dove non si ordina lo Spritz nordestino, ma un piatto di riso. Il rimpianto della sobrietà dell’Hotel Corona (nome infausto di questi tempi), frequentato da pittori come De Chirico e Campigli, si rafforza con l’avvistamento dell’Hummer di Gianluca Vacchi lungo i tornanti di San Vito di Cadore. Curiosamente preferisce comparire d’estate (per la precisone dopo Ferragosto) che in inverno: la milanese acculturata si dà appuntamento per un firmacopie a Una montagna di libri. Al versante opposto c’è la figlia degli anni Ottanta che a El Camineto sceglie i paccheri alla vodka, per un effetto revival, quando a ordinarli erano i genitori. O il «pomin», il grappino alla frutta, da gustare al Bar Sport che tutti conoscono come «dall’Emma».
La stessa milanese che a maggio stende le coperte a Villa Reale per il picnic di Theodora ad agosto si rifà viva nei prati di Socrepes al Cortina Summer Party. Il dress code, che oscilla tra il bavarese e l’ampezzano, viene osservato con rigore filologico: la milanese indossa a seconda del tema Lederhosen in pelle di capra, camicie a quadretti con stambecchi ricamati e abiti Dirndl. L’abbigliamento (o il mascheramento?) coinvolge tutta la famiglia: l’effetto finale è un tableau vivant dall’aria ampezzana. Il picnic è un po’ l’ossessione della milanese che non è mai sazia di colazioni sull’erba: tra gli indirizzi che tiene più a portata di mano, soprattutto in estate, c’è la Brite Mobile, un delivery di alta quota con piatti di malga gourmet con fornitura di plaid (se c’è sole) e di kway (se minaccia pioggia).
Più di tutto il resto, è la tradizione familiare che orienta la scelta del comprensorio sciistico. Anche Celerina, il villaggio attaccato a Sankt Moritz, è un luogo di affetti e memoria: la mamma della milanese nel 1946 ci andava persino in collegio, al Lyceum Alpin Zuoz, e oggi ovviamente fa parte dello Zuoz Club, l’organizzazione degli ex alunni.
Il salto logico tra passato e presente è impegnativo: i primi turisti invernali dell’Engadina hanno soggiornato addirittura gratis. Lo scrittore Michael Lütscher racconta che l’albergatore e collezionista Johannes Badrutt nel 1864 era riuscito a convincere alcuni inglesi a provare la montagna d’inverno, promettendo un soggiorno gratuito nel suo hotel. Da allora sono passati più di centocinquant’anni e l’avvento della milanese ha cambiato di molto il tariffario di albergatori, ristoratori e negozianti. Per questo la sciura, esigente ma al tempo stesso risparmiosa, sta a debita distanza da Sankt Moritz («troppi arabi e russi») e si arrocca a Celerina. A Pontresina («troppi svizzeri») va solo per la passeggiata in Val Roseg: prima di affrontare i dieci chilometri tra cirmoli e torrenti la milanese noleggia bob e slittini per i bambini da Gruber, al centro del paese. Al momento di tornare indietro, ignora le carrozze trainate dai cavalli che fanno sosta fuori dalle baite («troppo turistico»). La milanese conosce aneddoti che quasi tutti ignorano, come che all’Hotel Kulm è stata accesa la prima luce elettrica di tutta la Svizzera e che la Madonna Room del Badrutt’s Palace ospita una delle due copie della Madonna Sistina di Raffaello. Fa sfoggio di questa cultura all’ora dell’aperitivo nel bar dell’hotel, l’Altitude, dove ordina il drink Kulmino, mentre al Badrutt’s chiede un St. Moritzino: per cena si va nei posti tipici, ma gli habitué mangiano in casa.
Già primula rossa per indole, la milanese diventa ancora più imprendibile a Courmayeur, dove tutti vanno ma nessuno sa precisamente cosa facciano. Affollata in ogni periodo dell’anno di famiglie che partono il venerdì sera per il fine settimana, raggiunge il picco durante la settimana delle vacanze di Carnevale, in cui mamme, figli, tate e bassotti si muovono in una carovana alpina che da Milano si snoda verso la Val d’Aosta. Il marito strategicamente arriva solo nel weekend, retaggio di un vecchio vezzo lombardo della moglie «spesata» in vacanza e lui in città a tirare avanti la baracca. Lo shopping non è compulsivo, ma ricercato: il passaparola è piuttosto su un nuovo atelier di legno intagliato o sullo yogurt d’alpeggio del casaro. La milanese a Courmayeur fa dibattiti con presentazioni PowerPoint sulla qualità di questa o quella macelleria: le cene in casa sono il vero momento mondano di Courma, ma «difficilmente si avrà l’occasione di partecipare a una serata con i principi del foro che hanno casa qui», scriveva anni fa una rivista di viaggi. Gli incontri sono più favoriti sulle piste: la consuetudine è ritrovarsi prestissimo agli impianti di risalita e provare a sciare sulla Youla, che spesso è chiusa e ancora più spesso è ingorgata.
La milanese durante la settimana si rintana nella sua casa arredata con paralumi in loden e stoffe alpine. Poi dal venerdì sera (con l’arrivo del marito) comincia a prenotare con la meticolosità di un concierge di un hotel di lusso: la pizza con i bambini all’Etoile, la cena senza figli al Cadrane Solaire (trovare posto procura lo stesso livello di adrenalina della vincita della Green Card alla lotteria statunitense) e l’immancabile cena in baita, questa di nuovo con i bambini, arrivando a bordo di un gatto delle nevi o in motoslitta. Anche qui la milanese fa consultazioni a tappeto per individuare quella più adatta a lei, partendo quasi sempre dalla Maison Vieille, dove anche Penelope Cruz, in jeans e camicia da boscaiola, ha trascorso un Capodanno. Ma più del vip watching, a intrigare la milanese è il ritrovarsi in un posto in cui vanno tutti gli altri milanesi: da qui è nata la fortuna dello Chalet Plan Gorret, dove in mezzo a mille cuori si ordina il porceddu sardo e ci si conosce praticamente tutti. Stessa regola per l’aperitivo: la milanese non può prescindere dal Bar La Posta, con o senza bambini, che se sono grandicelli possono essere lasciati al cinema e poi ripresi a fine spettacolo.
Tra le poche cose senza bambini da fare a Courmayeur ci sono il massaggio nella spa dell’Auberge de La Maison e la serata karaoke sulle piste a Le Massif. Il virus ha solo momentaneamente sospeso il piacere della bevuta conviviale con la grolla, un rito da «iniziati» di Courmayeur, una coppa dell’amicizia munita di beccucci, usata per bere «à la ronde» il caffè alla valdostana. I milanesi, quando hanno dovuto rinunciare all’abbraccio o alla stretta di mano per il saluto in corso Roma, hanno introdotto l’alternativa dei due pugni che fingono di scontrarsi ma si arrestano in aria in un movimento plastico in stile Tai Chi.
Lo shopping è contenuto, ma un giretto nello chalet di Massimo Alba non si nega mai. A Courma la milanese investe più sull’abbigliamento da montagna: entra da Guichardaz per i pullover in lana grossa e i loden austriaci. Al massimo pensa più a come abbellire la casa e pratica lo sport della caccia all’oggetto dall’antiquario Angelini «che ha parascintille unici». In vista della cena alpina si rifornisce al negozio di alimentari Serafini, con marmellate di bosco e birre aromatizzate e come sorpresa per gli ospiti le fragolone di Santino. Il rito prima della partenza è la scorta da Panizzi, formaggeria che vende tome di fattoria e la mocetta da portare in città sottovuoto, ma che una volta arrivati a Milano «perde il suo gusto, a Courma ha tutto un sapore diverso».
Il sabato del villaggio
La milanese è la versione contemporanea del Sabato del Villaggio: il gusto del weekend sta tutto nell’attesa. Dopo la partenza del venerdì pomeriggio, concentra nella giornata di sabato le attività più disparate, dal giardinaggio al barbecue, dalla gita in barca alla ciaspolata. Ma la domenica, già al risveglio, comincia a pensare al ritorno. A differenza dei romani, che prolungano al massimo la gioia del fuoriporta, i milanesi non fanno programmi per la domenica, perché nella loro testa sono già a Milano.
L’operosità lombarda si impara già da bambini, quando dopo la lezione di sci del mattino ci si mette in auto per tornare a casa: lo stesso vale anche per il mare, perché il pensiero «arrivo con calma e sistemo le mie cose» prevale sulla giornata in gommone. Il tanto agognato weekend si riduce così a una giornata, ma tant’è. L’importante è «staccare la spina»: durante la settimana il tempo libero non esiste e tutto viene concentrato nel fine settimana, dove si raggiungono le ville al lago e nel piacentino (il Chiantishire della milanese).
A maggio, la sciura è molto indaffarata per la riapertura della casa al mare. Il fuori stagione non fa parte della mentalità della milanese: lei vuole esserci quando le cose accadono e raramente compare a Porto Cervo prima di luglio. Ma già a giugno trascorre i suoi weekend a Santa Margherita o Forte dei Marmi, i due topic marittimi. I milanesi si dividono in due tribù: quelli da barca e focaccia (Santa Margherita) e quelli da bici e tenda in spiaggia (Forte dei Marmi). Ma il duello, più che geografico, è antropologico.
La devozione che la milanese riserva al borgo ligure traspare già dal nome con cui l’ha ribattezzato: Santa. La mania di accorciare i nomi in questo caso diventa quasi una fede. A Santa si va fin da piccoli, e fin da piccoli ci si illude che sia vicina a Milano, con astucci di Travelgum divorati nelle curve a gomito della Serravalle. L’affezione è familiare e culturale: la verità è che se Santa non avesse il mare sarebbe una piccola Milano. La milanese trasporta qui abitudini e riti della città: come se fosse ancora in viale Bianca Maria sfreccia veloce per il porticciolo con una Vespa resa più local dal cestino di vimini. La giornata inizia con la colazione nei bar lungo il porto oppure nelle pasticcerie dei carruggi: in realtà la milanese ha già fatto colazione a casa, ma quella è una ghiotta occasione per incontrare persone che si conoscono, amici dei genitori, genitori di amici dei figli, figli senza genitori e amici stessi. Tra i discorsi che tengono banco anche quello delle frittelle di mele del Caffè del Porto, da farsi incartare per una gita in barca o per un take away dell’ultimo momento. Per raddoppiare le probabilità di incontri si fa tappa alla Farmacia internazionale, con la scusa «dei prodotti cosmetici ottimi e creme solari». Quasi sempre con famiglia al seguito, la milanese già di mattina pensa a organizzare il pranzo. Siccome è in vacanza non cucina, ma va in gastronomia da Seghezzo e dal Milanese (sic), il fruttivendolo che già nel nome fa intuire quale sia il target di riferimento della sua bottega.
Negozianti e ristoratori, d’estate, trasportano baracca e burattini nel golfo del Tigullio per inseguire la cliente più viziata e amata di sempre. Gli indirizzi di «casa», quelli che in città sono una certezza per le sere fuori d’inverno, sono la passione della milanese in trasferta. Come se non ci avesse mai messo piede in città, la sciura fa salti mortali per un tavolo alla Langosteria di Paraggi, «succursale» marina dell’insegna sui Navigli. Ma prima c’è l’immancabile aperitivo al Tortuga, lo stesso locale dove si torna per il drink prima della buonanotte: la tribù milanese è riconoscibile dai mariti in bermuda e camicia bianca.
Romantica e sempre pronta a sognare, la milanese al tramonto va fino a Nozarego, una frazioncina di Santa: quando comincia a pianificare il matrimonio raddoppia le visite, nella speranza di sposarsi nel Santuario del paese. Ma la vera milanese si riconosce dalla scelta del gelato: il migliore, anche a tarda ora, si mangia da Simonetti, ma al bar del Cinema centrale ordina con esperienza il gelato «pinguino», un cono ricoperto da un sottile strato di cioccolato. La cena in piazzetta a Portofino è una piccola evasione, ma alla vetrina di Puny la milanese preferisce i quattro tavoli di Ö Magazin: dopo, tutta d’un pezzo ma in fondo giocherellona, si lascia mettere il bavaglino da Ö Batti, per ripararsi dagli schizzi di sugo degli scamponi alla ligure preparati con una ricetta segreta.
Di giorno chi ha un barchino prende il largo: per la milanese è molto chic salire a bordo di una lancia Mussini Portofino foderata di spugna verde. Quando vede uno yacht storce il naso, «mica siamo in Costa Smeralda». Ma a prescindere dalla dimensione e dai cavalli del motore, la barca si àncora a Paraggi o comunque si passa da lì per vedere chi c’è. Dopo il «sopralluogo» si va verso Punta Chiappa, accoppiata bagno-pranzo adorata dalla milanese. In assenza di barca ci si sdraia al sole dei bagni Miramare (il lettino e ombrellone più amato per eccellenza) e ai bagni Fiore.
La diatriba sui bagni migliori è pari solo a quella, lunga cinquant’anni, che investe la focaccia. Meglio Fiordiponti o Pinamonti? Il milanese imbruttito – ovvero quello tipico, un po’ frenetico e performante – propende per la prima, perché dice che è più bianca, più unta e più sudata: ama la sensazione della carta che si appiccica alle dita e si esalta per la farcitura al momento con prosciutto e pomodorini. Il vero ligure e il visitatore habitué la mangiano fin dalla colazione, anche pucciata nel cappuccio. La milanese si mette in fila già dall’alba per procurare al marito e ai figli qualche porzione: la coda è talmente lunga e polposa che si può parlare senza dubbio di assembramento.
La voglia di passare un’estate quasi allegra, anche dopo il virus, ha portato la milanese a ingegnarsi in soluzioni diverse dal passato. Con la stessa lievità del Trio Lescano, le tre ungheresi che nel dopoguerra si ostinavano a cantare tra le macerie canzoncine come Tulipan, ha affittato già durante il lockdown la villa vista mare con altre due coppie di amici (ovviamente tutti testati) per creare una comunità allegra e sicura. Costretta a stare lontana dalle mete estere, ha deciso di sconfinare dalla «sua» Italia e invece che a Santa ha prenotato a Capalbio. Un altro tic tipico della famiglia milanese è quello di organizzare la vacanza insieme ad altre famiglie, in barca o in una villa in affitto, in genere un dammuso a Pantelleria. La motivazione ufficiale è condividere tempo di qualità insieme: la ragione sottorranea è l’autogestione del gruppo di bambini sintetizzata dalla frase cinica «almeno i bambini si neutralizzano giocando tra di loro e noi possiamo stare insieme». Peccato che dal momento dell’arrivo il marito della milanese, con strategie più simili a quelle di Willy il Coyote che di Lupin Terzo, cerchi senza riuscirvi di staccarsi dal gruppo. A fine vacanza, generalmente, hanno litigato tutti (adulti e bambini) e la milanese giustifica la débacle dicendo che «per andare in vacanza insieme ci si deve conoscere davvero a fondo».
Esserci o non esserci è il dubbio amletico delle vacanze della milanese. Anche per Forte dei Marmi vale la stessa regola di Santa: dopo un inverno sempre di corsa, stressante e frenetico, ci si ritrova tutti quanti sulla stessa autostrada ingorgata e poi sulla stessa spiaggia super affollata.
Le vacanze in Versilia sono per la milanese un mix magico di biciclettate, spaghetti alle arselle e cene sulla sabbia illuminata dalle fiaccole. Con Santa Margherita, questa opzione condivide i conti di stabilimenti e ristoranti: la «salassata» della sera prima è l’argomento forte delle chiacchiere dei mariti sotto l’ombrellone. Al momento degli scontrini tirati fuori come prova inconfutabile fa da controcanto la lamentela delle mogli che dicono come «i vecchi artigiani hanno ceduto il posto, anche qui, alle grandi firme e trovare una stoffa al metro è sempre più difficile». Certo sopravvive il mercatino della domenica dove la milanese contratta per il pullover in cachemire del marito con la tenacia di un commerciante di cammelli.
La milanese adora la tenda, che d’estate attrezza come se fosse una beach house: con la scusa della dieta proteica porta da casa il tupperware con la quinoa e l’avocado, soprattutto durante la settimana, quando il marito non c’è. Il suo bagno ideale è a metà strada tra i Bagni Piero, con Moratti in camicia anche a Ferragosto, e il Twiga, quintessenza della Vita Smeralda importata nella nobile Versilia. Alla mondanità da Capannina, preferisce la cultura di Pietrasanta, dove cena in enoteca e fa tardi nelle gallerie d’arte, che non di rado sono le stesse che frequenta a Milano.
La milanese si muove spesso sul filo di una contraddizione assenza/presenza: si chiede perché in un puntino in mezzo all’Egeo come Patmos possa vedere le stesse facce che incontra in città, ma se nella Chora non saluta almeno dieci persone si lamenta che «anche la Grecia non è più quella di una volta, sono spariti tutti». Pioniera delle Cicladi, si è spostata verso le isole del Dodecaneso, dove gli habitué si riconoscono non da flip flop e T-shirt parlanti ma da un guardaroba fatto di furlane di velluto e camicie di lino (gli uomini), sandali rasoterra e caffettani (le donne). Uno stile poco JLo e molto Jackie O: la milanese ad Arki si sente un po’ come Jacqueline Kennedy a Skorpios, che mostrandosi nuda voleva dire al mondo «anche senza vestiti sono molto meglio di tutti voi». Si riconosce perché indossa sandali alla greca e sfoggia abbronzatura da Sfp 50: tra le tante isolette predilige proprio Patmos, catturata da quella che molti chiamano patmosfera, un’atmosfera fatta di calette solitarie, cene in casa, inviti in caicco e di sera il rito del drink in platìa, la piazzetta dove tutti prima o poi passano. Il periodo fa la differenza: la sciura si aggira nell’isola subito dopo Ferragosto, ogni altro periodo è noia.
La (non) vacanza dei milanesini
Il vezzo della mamma milanese è di iscrivere i bambini a qualsiasi corso: in città la fantasia non ha limiti e si va dal taekwondo – arte marziale coreana che aiuta a coltivare cortesia, autocontrollo e perseveranza (qualità in effetti riscontrabili nella popolazione adulta milanese) – fino alla scuola di clowneria. La mania impenna al mare e in montagna: il milanesino non va in vacanza dove fa un corso, ma parte per un corso così fa vacanza.
In montagna, viene iscritto già due mesi prima della partenza alla scuola sci: chi perde questo passaggio fondamentale della prenotazione, rimane a valle. La mamma è esaltata dalla vita sana e dallo spirito di comitiva del figlio che viene prelevato «dallo skibus alle otto di mattina e lui è davvero felice». A questa convinzione granitica ancora nessuno ha osato ascoltare il controcanto dei piccoli sciatori.
Sono comunque i milanesini che determinano l’agenda della mamma in montagna. La scuola sci è solo l’inizio di una girandola di appuntamenti bambino-centrici: mentre i figli sciano, la milanese fa due discese con le amiche, poi predilige la baita con il baby club, così lei può mettersi in terrazza a prendere il sole. Quando torna in paese è indecisa tra l’organizzare una merenda in casa o fare tappa al Palazzetto dello Sport, per il pattinaggio o l’arrampicata. La scelta del maestro di arrampicata segue più o meno la stessa selezione della tata: sembra che i milanesini debbano diventare tutti dei Manolo, in realtà la fissazione è la metafora perfetta della città più ascensionale d’Italia. A Milano la scalata è una cosa molto seria.
Anche al mare si cerca di individuare un passatempo che impegni il bambino (e soprattutto lasci libera la mamma). Molto in voga la scuola calcio in qualche località chic come Forte dei Marmi: l’idea è in grande ascesa anche tra le bambine, perché la mamma milanese coltiva la parità di genere fin dai primi passi e spiega alla figlia che dovrà essere lei la breadwinner in famiglia e comunque mai dipendere da un uomo. In mezzo c’è anche qualche parentesi di umanità: la mamma tigre, sul bagnasciuga, allenta la morsa. Il rigore di Miss Parker, la già citata tata di casa Agnelli, che alle undici e mezzo in punto diceva «you can go in, now» autorizzando il bagno (e già a mezzogiorno meno dieci sventolava il fazzoletto per ordinare di uscire) viene considerato un’esagerazione: il nuoto fa bene e l’accumulo di vitamina D è il pivot dell’intera giornata.
Ma la milanese si lamenta che l’estate è in fondo troppo lunga e bisogna trovare una soluzione per impegnare i bambini in vacanze intelligenti. Se negli anni Ottanta spediva i figli all’Isola di Wight, oggi ha affinato i gusti. La vacanza studio estiva del milanesino è qualcosa che matura lentamente: si comincia da piccoli con i campi scuola in città, con una preferenza accordata a quelli in lingua inglese. Il settenne milanese, così indottrinato, dopo un paio di anni si ritrova in una colonia di lusso lontana anni luce dalle vacanze studio in famiglia dei tempi passati. Chi può investire sul futuro dei figli sperimenta formule collaudate come i collegi svizzeri di Rosenberg o Rosey, notoriamente la scuola più cara del pianeta e dove studiano i futuri potenti del mondo. L’entusiasmo del milanesino incagliato in sveglie mattutine alle 7.30 e conversazioni sul rugby con un amichetto svedese è simile a quello di Jacqueline Bouvier dal suo collegio nel Connecticut: «Se gli anni di scuola sono i più felici della nostra vita questa sera mi impicco con la corda per saltare». Ma la milanese è stra convinta del potere formativo dell’esperienza all’estero. Talvolta esagera e spedisce il milanesino negli Stati Uniti: l’espressione del bambino in partenza ricorda il musino della cagnetta Laika mandata in orbita a bordo della capsula spaziale sovietica Sputnik. Nonostante i genitori lo rassicurino che a differenza del primo passeggero a bordo di un satellite, lui/lei, prima o poi, tornerà.