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La milanese e il lavoro

Il nuovo brillante è il lavoro. La donna milanese di oggi non ambisce ai carati, ma alle medaglie della carriera. Le amiche workaholic si riconoscono facilmente da dialoghi che seguono il medesimo copione: «Come stai?». «Bene dai, sempre di corsa, ma bene.»

La milanese che lavora non si ferma un minuto: efficiente, organizzata e problem solver cerca di far quadrare tutto al millimetro per conciliare lavoro e famiglia «perché i tempi del tinello sono finiti e le donne oggi siedono in un cda» (frase ricorrente). Anche quando torna a casa alle 20 vaga da una stanza all’altra con le AirPods alle orecchie parlando ancora di lavoro, mentre figli e marito la guardano con aria rassegnata: qualcuna prosegue a telefonare persino durante l’ultima passeggiata con il bassotto, intorno a mezzanotte. Se potesse userebbe le AirPods anche quando dorme: per un periodo le ha sostituite con gli «sleepbuds», cuffiette sonore che riproducevano suoni bianchi come cinguettii e cascate e la aiutavano a rilassarsi. Poi le hanno tolte dal mercato. Quasi sempre ha sul comodino tappi di cera e mascherina, che indossa dopo aver assunto qualche goccia di melatonina (la ritiene un toccasana anche per i bambini): la milanese lavoratrice quando va a dormire è simile a un passeggero di un volo intercontinentale in business class.

In famiglia si sveglia prima di tutti gli altri, anche perché spesso ha il personal trainer che la raggiunge all’alba per una lezione di pilates o l’estetista per la ceretta a domicilio: è lei che accompagna i bambini a scuola perché non vuole delegare i gesti materni, ma senza fermarsi nel bar per il caffè con le altre mamme. Lei ha da fare. Tra i ritornelli della milanese in ufficio c’è spesso «solo io mi sbatto come un’aquila, le altre hanno una vita più rilassata». La ricchezza non la misura in soldi, ma in tempo, e quando ne dedica un po’ a se stessa e alla famiglia lo declama sui social con l’hashtag #qualitytimetogether: ai colleghi in ufficio dice che quella boccata d’ossigeno le ha fatto recuperare creatività.

Smart working o lavoro smart?

La corsa all’oro non prevede fermate e la milanese, dopo una breve sosta, va come un treno anche perché soffre di horror vacui: persino il tempo libero deve essere organizzato perché senza la comfort zone delle connessioni si sente sperduta. Le sale d’attesa per la sciura sono gli spazi più punitivi in assoluto: quando la receptionist le dice di attendere cinque minuti comincia a mostrare segni di insofferenza. Inganna il tempo controllando se è entrata una nuova e-mail o facendo zapping tra articoli web dissonanti come «tutto quello che devi sapere sulla cellulite» e la classifica Forbes delle donne di potere.

Tra i motti preferiti della inarrestabile milanese c’è quello della ex ceo di Yahoo! Marissa Mayer: «Nei primi cinque anni in Google mi sono fermata almeno una notte a settimana». Il digital detox è la fissazione della milanese malata di lavoro (e di telefono): quando riesce a staccare per un weekend dice che ormai i sottoposti non si riconoscono dalla busta paga, ma dall’asservimento al telefonino. Ripete con un filo di snobismo la frase di Lina Sotis: «Chi è sempre reperibile o è un giovanissimo in cerca di avventure o è uno che conta poco».

La liason discontinua con il telefonino è però diventata un matrimonio indissolubile con lo smart working: la milanese che prima si lamentava del troppo tempo passato in ufficio, ora si lagna per il troppo tempo passato a casa per colpa del Coronavirus. Incontentabile e progressista, teme che lo smart working la faccia tornare agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando le mamme casalinghe si conquistavano un minimo di indipendenza facendo la venditrice di cosmetici Avon. Prima, quando era sempre in viaggio, diceva di soffrire di jetlag, da quando si è fermata per la pandemia ricorda come era bello viaggiare per il mondo.

Ai tempi del lavoro in ufficio, l’open space è sempre stato considerato dalla milanese con sentimenti alterni: da una parte un simbolo di modernità, dall’altra un’infernale macchina di convivenza forzata. Il braccio di ferro si è consumato su temi diversi come: 1) aria condizionata; 2) il pasto sul posto di lavoro (con relativa diffusione di odori più o meno graditi); 3) telefonate a voce troppo alta. Abituata però ai grandi studi internazionali, si è fatta paladina della flexible chair e delle postazioni itineranti che hanno decretato la scomparsa della scrivania fissa. In nome del progresso ha rinunciato al tappetino del mouse con il fenicottero o a forma di bottiglia di Chanel n. 5: territoriale quanto basta, però, tende a riprenotare sempre la stessa e se qualcuno gliela soffia si lamenta di come gli altri la lasciano. Il lavoro da casa tanto sognato è stato un fuoco di paglia: dopo una fase iniziale di entusiasmo per il telelavoro, è passata alla fase preoccupata.

Più che dallo smart working la milanese è affascinata dal lavoro smart, ovvero in un bell’ufficio, con colleghi rampanti e la possibilità di ampliare la propria rete di relazioni. Così il lavoro a domicilio si è lentamente trasformato in un «domiciliare». A deprimerla è stata anche la mancanza di un dress code per lo smart working: prima viveva come una corveé il vestirsi per andare in ufficio, elogiando i turtleneck seriali di Steve Jobs. Ma con l’avvento del look sporty chic da casa lamenta un calvinismo estetico eccessivo. Pur di non cedere alla deriva della tuta, qualcuna mette a frutto i pijiamas acquistati in maniera compulsiva negli scorsi anni, facendo finalmente ritrovare ai coordinati in seta la loro giusta collocazione: non agli aperitivi, ma in camera da letto o al massimo in soggiorno. Qualcuna esagera e si sposta da una stanza all’altra della casa con la borsina, dove tiene la Eichos, il cellulare e la stessa crema idratante che usa per i voli intercontinentali «perché senza mai uscire la pelle ingrigisce». La milanese ai «domiciliari» anche in questo è un passo avanti alle altre: non si fa bella per piacere al mondo, ma per sentirsi bene. Quella che vede riflessa nel video del suo pc deve essere sempre all’altezza della situazione. Naufraga delle relazioni lavorative, improvvisa un soliloquio con il suo ego, come Tom Hanks con il pallone Wilson nel film Cast Away: in fondo l’unica persona a cui la milanese vuole davvero piacere è se stessa (mica al capufficio, che cosa provinciale…).

A Milano l’abito fa il monaco: dalla divisa si intuisce in quale luogo di lavoro si sta dirigendo la milanese. Se va in tribunale ha la giacca e i tacchi, se lavora in uno studio professionale ha la camicia di seta stampata (spesso di Stella McCartney): la creativa indossa jeans o gonnellone e talvolta zoccoli Dansko. Negli ambienti a prevalenza maschile cerca di essere elegante ma sobria, senza commettere mai l’ingenuità di indossare un tailleur giacca e gonna che fa hostess. Ma le riunioni su Zoom non esigono quella patina glamour che solo lei sa infondere in un consesso. Per dare un’aria seria e produttiva alla sua attività lavorativa casalinga, si collega spesso con le spalle alla libreria e in mancanza ha acquistato su Amazon maxi poster con scaffali pieni di libri come scenografia domestica. Ha rivalutato persino il traffico e il tempo passato in auto verso l’ufficio, che peraltro lei di solito raggiungeva in bicicletta o a piedi, ascoltando la musica con le AirPods per «caricarsi».

Il lavoro da casa risolve in parte anche il problema delle colazioni di lavoro, che quando invece è in ufficio la milanese organizza quasi sempre nei dintorni dell’ufficio/studio. La più affermata può disporre di una foresteria dove si faceva «deliverare un pranzo healthy» da consumare insieme al cliente (che paga una parcella da mille euro all’ora).

Tra casa o ufficio, insomma, finisce col pensare che si stava meglio quando si stava peggio e la scelta non era nemmeno contemplata: alle amiche confida di lavorare più di prima ed è preoccupata perché si è informata sull’invecchiamento cutaneo dovuto alla «light blue», il riverbero di luce blu del pc. Allora recupera vecchie e sane abitudini: prenota una piega a domicilio e un massaggio dalla app Madame Miranda, gruppo di phoniste/coloriste/massaggatrici che in pausa pranzo possono raggiungerla a casa come in ufficio mentre lei continua a inviare e-mail e a rispondere al telefono: avere il loro numero in agenda certifica un elevato grado di milanesità.

Lavoro versus famiglia

Il lavoro in ufficio in fondo è una grande mamma, che accudisce (leggi «sequestra») i suoi dipendenti: alcuni uffici hanno una palestrina interna e un’area massaggi per problemi di cervicale. Ma la cosa che esalta di più la carrierista è la sala per allattare: il bambino le viene «consegnato» dalla tata direttamente al lavoro e lei sente di aver trovato la perfetta via di mezzo tra famiglia e carriera.

La milanese ambisce a essere una mamma diversa dalla propria, che ha sacrificato l’enorme talento per spianare la carriera del marito: si ispira a donne alfa come Sheryl Sandberg, il ceo di Facebook, autrice del libro Facciamoci avanti, che quasi sempre è nel comodino della super lavoratrice. Ambisce a portare a casa la Mela d’oro del premio creato da Marisa Bellisario che incorona il talento e la tenacia femminile, ma a volte si scontra con l’indifferenza/ignoranza di amiche reazionarie che hanno più dimestichezza con il Telegatto e che la commiserano per gli orari infernali. Le arpie anzi esaltano le gioie domestiche che la milanese carrierista può assaporare solo per brevi istanti di tempo. Ma lei ha un apparato infallibile che la sostiene e fa le sue veci, dalla dog sitter per il bassotto alla baby sitter: può succedere che la milanese controlli entrambe con la webcam riportata dagli Stati Uniti «dove tutte le mamme che lavorano danno un’occhiata a quello che fa la tata».

Impegna i figli con attività, hobby e corsi e già a tre anni sono carichi di impegni: la milanese in carriera oscilla tra la sindrome da mamma tigre raccontata da Amy Chua nell’omonimo libro del 2011 e quella da genitore elicottero, più nostrana. Il modello inflessibile proposto dal saggio dell’autrice americana di origine cinese, in fondo, le sembra eccessivo. La milanese non adotterebbe mai il metodo usato dalla scrittrice per la figlia, lasciata senza cibo e acqua finché non ha imparato a suonare al pianoforte Il piccolo asinello bianco di Jacques Ibert. Oltretutto non potrebbe mai aderire alle regole di non mandare a giocare i bambini dagli amici, non guardare la tv o i videogame come Roblox: per lei tutte e tre le situazioni sono opzioni salvavita nella tribolata conciliazione familiare.

Sotto sotto però la milanese coltiva l’eccellenza e già dai primi mesi si vanta con le altre mamme che suo figlio dorme per una notte intera di fila: il suo bambino d’altra parte va a letto alle 20 e le altre mamme si chiedono perché i propri invece al momento della nanna si trasformino come Linda Blair ne L’esorcista. A chi le chiede come fa a far quadrare tutto dice di aver letto il libro di Tracy Hogg, una puericultrice anaffettiva inglese che più o meno dice: «Fateli piangere finché non si sgolano».

Abituata a gestire e a risolvere i problemi la milanese, che in fondo è una mamma italiana, aderisce però più volentieri al modello del genitore elicottero, iperprotettiva a distanza, con la pianificazione di attività intelligenti, schiscette bio e controllo capillare di ciò che avviene in sua assenza. Raramente riappare in famiglia prima di sera: la casa per lei è un luogo sconosciuto. Non sogna la cristalleria di brocche e bicchieri da lucidare: il suo sogno è infrangere, come le ha insegnato la sua eroina Hillary Clinton, il tetto di cristallo che la separa dall’antipatico empireo maschile.

La Lady Finance milanese fa parte di un board o di un collegio sindacale: spesso è lei che porta a casa la pagnotta. Ma solitamente è sposata a un uomo così intelligente ed evoluto che non rimane schiacciato sotto il peso dei ruoli invertiti. La coppia emancipata ha fatto suo il motto della già citata Sheryl Sandeberg: «In un mondo equo le donne governerebbero metà dei Paesi e delle aziende e gli uomini metà delle nostre case». Può accadere anche che proceda mano nella mano con il marito verso la scalata: la power couple, la coppia di potere, è un genere assai diffuso tra le milanesi, dove il passo di uno è anche un passo per l’altro. Il prototipo perfetto erano fino a poco tempo fa Harry e Meghan: avevano come vicini di pianerottolo il Principe William e Kate, come migliori amici George Clooney e Amal. Ma adesso fanno cose/vedono gente e non si capisce bene dove trovino i soldi per le sigarette. Quindi la milanese ha rispolverato coppie di potere più ortodosse come Michelle e Barack Obama, Brigitte e Emmanuel Macron (anche per la differenza d’età che esalta la milanese matura). Non serve più aspettare gli anni d’argento per tirare le somme della rete sociale costruita negli anni: le nuove coppie di potere sono fatte (anche) di millennials che trascorrono molto tempo insieme e fanno squadra sulle questioni importanti fin dall’inizio: il marito della power couple cita come modello Zuckerberg, che ha promesso alla moglie di passare almeno un giorno alla settimana con lei.

La office mum

Quando rilassa i gomiti, la milanese ha anche un cuore tenero e spesso trasforma il posto di lavoro in un luogo di affetti. Mischiare professione e sentimento è parecchio fuori moda, soprattutto da quando è lei a comandare e quelli che si accoppiano dentro al lavoro sono definiti in un crescendo di cinismo come: 1) esseri senza relazioni sociali; 2) sfigati; 3) animali in cattività. Insieme alla copula lavorativa, è stata però superata anche la vecchia linea di condotta professionale troppo algida: la cultura anglosassone di fare squadra ha convinto la milanese a sacrificare l’amatissimo «lei» in favore del «tu» più amichevole. I social network hanno dato la spallata decisiva: grazie alle community la milanese vede e può vedere ogni cosa, compreso il profilo del capo. Dopo anni di business, Facebook ha riportato calore in azienda con cuoricini e like. Ma avendo il rigore nel dna, lei sa che nella vita reale non deve prendersi confidenze eccessive: un conto è essere amichevoli, un altro è essere amici.

Tra colleghi si concede qualche affettuosità in più: in ufficio, in redazione e in azienda, la milanese ha il suo office spouse che coincide quasi sempre con la dirimpettaia o il collega gay, una persona con cui beve il caffè, condivide l’Aspirina ed esce dopo il lavoro a mangiare sushi. Il capriccio è nato negli Stati Uniti e ovviamente la milanese lo ha fatto suo: ma da qualche tempo le omologhe newyorchesi hanno avuto un revamping femminista e hanno cominciato a boicottare l’affettuosa formuletta perché non c’è bisogno di un’etichetta carina e romantica per le amicizie platoniche sul posto di lavoro. Così la milanese si riconosce di più nella formula office mum, la collega che più degli altri ha un atteggiamento amabile, tiene alto lo spirito e se intercetta l’umore storto di un collega lo convoca con una e-mail alla macchinetta del caffè.

La posta elettronica della milanese è facilmente riconoscibile perché quasi sempre ha la firma in cui, soprattutto se è in carriera, specifica il suo grado e ruolo. Con il caratteristico piglio efficientista lei sa trasformare tutto in business: grazie al suo modo di fare accudente, entra in possesso di informazioni riservate e si trasforma nell’indispensabile ago della bilancia: non a caso, spesso è anche rappresentante di classe nella scuola del figli.

Spesso si lancia nell’organizzazione dei retreat di studio o di team building – quei weekend in posti aggreganti come il Marocco o l’Alta Badia, in cui si consolida lo spirito di gruppo tra persone che solitamente si detestano – e della cena aziendale di Natale, un altro momento cruciale della vita lavorativa. L’appuntamento viene accolto con spirito contraddittorio dalla milanese: se c’è si lamenta per l’ennesimo brindisi natalizio ipocrita e buonista, se non c’è si lagna ancora di più dicendo che non ci sono neppure i soldi per panettone e spumante. Di solito è sempre lei che si incarica di organizzare la cena di classe con gli ex compagni di liceo, momento in cui misura anche la sua ascesa professionale e la battaglia vinta contro il tempo. Rivedersi dopo tanti anni è simile a un appuntamento al buio, ma la milanese che per prima si è buttata a capofitto nei blind date – gli incontri romantici con sconosciuti – non teme la reunion. Le carriere globalizzate e le distanze spesso rendono difficili i raduni: la milanese più in carriera chiede agli ex compagni di piazzare un iPad al suo posto e connettersi via Skype. Alla fine la reginetta della classe è sempre lei.

Le ragazze delle campagne vendita

La milanese che non è una esperta di contenzioso o diritto di famiglia, in genere, spicca in professioni tipiche che sono nell’ordine: 1) esperta in pubbliche relazioni; 2) venditrice stagionale in showroom; 3) creativa di gioielli alternativi (come choker o orecchini earcuff, una specie di monile rampicante); 4) stilista di bikini e accessori da spiaggia.

La pierre è una figura che imperversa a Milano dagli anni Ottanta e ha subìto modifiche sostanziali. Da signore bene che ricevevano nel salotto di casa, riconoscibili dall’abuso linguistico della parola «tesoro», si è passati a un rampantismo fatto di baci e abbracci. Il modello a cui tendere sono Karla Otto ed Emanuela Schmeidler, donne di relazioni e di potere che hanno fatto del loro ufficio la Columbia University per aspiranti comunicatrici. Va precisato che non tutte le pr milanesi sono autoctone, ma lo diventano prestissimo, in perfetto stile wannabe. Grazie alla loro conoscenza capillare della moda e delle tendenze cittadine si mimetizzano con estrema precisione tra le native: nessuna incorrerà mai nella filippica sul maglione ceruleo di Miranda Priestly nel Diavolo veste Prada. La pr milanese sa perfettamente distinguere un blu, da un turchese e un lapislazzulo, ha un profilo Instagram in ascesa e coccola le sue prede con fascino e piccole astuzie: nella sua rete finiscono intrappolati giornaliste, blogger e ovviamente gli uomini che da clienti diventano mariti. Milano è l’humus perfetto di un’altra categoria, le venditrici di showroom, che non va assolutamente confusa con quella delle commesse in negozio. Chi lo fa tradisce profonda ignoranza di usi e costumi della milanese. Generalmente si tratta di ragazze alte, belle, bilingue, con un piccolo tatuaggio fatto al Morro di San Paolo. Il lavoro stagionale da venditrice infatti si incastra perfettamente con gli esami allo Ied o alla Marangoni: la milanese della campagna vendita, come viene chiamata in gergo, sogna un futuro nella moda e si allena negli showroom.

Spesso accade infatti che le venditrici ricompaiano qualche anno dopo sotto una nuova veste, quella di stiliste di gioiellini e costumi da bagno: Milano abbonda di showroom di nuovi marchi di escapulari e trikini, resi indispensabili da stories pubblicate su Instagram. La milanese vecchio stile ha decretato il successo di marchi come Eres, dove il sopra e il sotto del bikini sono prezzati separatamente e al momento del conto si affaccia la tentazione di praticare il topless, giusto per risparmiare un po’. La milanese new way dice di essersi svincolata dalle firme mainstream e di essersi aperta a marchi freschi e facili (leggi: più economici). Spesso sono realizzati dalla vicina di casa che prima lavorava nel marketing poi un giorno ha deciso di lasciare tutto e mettersi a fare costumi da bagno. Il vecchio sogno esotico «mollo tutto e apro un chiringuito» è stato declinato dalla milanese in «mi licenzio e apro un sito di e-commerce». Di solito l’eureka arriva dopo l’ennesima estate senza il costume giusto: a quel punto decide di disegnarselo da sola e le amiche fanno gli ordini. Il nome non può essere mai banale e la milanese si scervella in claim sofisticati ma graffianti come Je m’en fous (me ne frego). Ha due fedi incrollabili: il passaparola e l’online «perché la mia cliente si fida di me e non ha bisogno della prova in camerino». Altre prove di intraprendenza vengono testimoniate dall’apertura di pokerie e truckfood chic dove vende cibo ipocalorico. A volte inventa un laboratorio di pane a casa sua, altre apre una ludoteca con laboratorio di biscotti con farina di farro.

Ma la milanese è soprattutto imprenditrice di se stessa e a volte costruisce la carriera sulla sua immagine: la socialite è una figura che trionfa a Milano, onnipresente ai party e alle inaugurazioni. Fuori dalle sfilate viene fotografata come una star grazie al suo look che non è mai scontato: molti si chiedono chi sia, ma poi si uniscono all’onda dell’inseguimento. Il suo profilo Instagram è curato con l’aiuto di un social media manager che a volte è più star di lei. Viene invitata a provare ristoranti e hotel, viaggia in coppia con giornaliste inacidite che la guardano come una sbafatrice e che per colpa sua alle sfilate di moda sono state retrocesse dal front row alla seconda fila. Le socialite spesso sono anche blogger che sopravvivono grazie ai banner di pubblicità che lampeggiano nel loro blog e nuotano tra inviti personali e comunicati stampa con «preghiera di pubblicazione» come Zio Paperone faceva tra le monete e le banconote verdi. La strada verso il successo è in salita, ma la regola della socialite in ascesa è, che anche se tutto va male, di far credere agli altri di essere felici, invitati, corteggiati: la sua esistenza digitale deve essere molto più seducente di quella reale.

Lo stratagemma per passare dallo status «anonimo» a quello di celebrity è avere un agente (spesso è il cugino che studia alla Cattolica), anche se potrebbe smistare tranquillamente da sola le proposte di lavoro. A chi le chiede una foto solo perché si dà arie da grande diva la milanese socialite risponde: «Volentieri, però per favore senta la mia agente». E in quel momento nasce una stella.