«Non rispondo mai al telefono quando suona, non so usare il cellulare. E ricordo solo il primo numero che avevamo quando io e mia moglie ci sposammo: 464060.» L’indifferenza intellettuale dello scrittore Mario Vargas Llosa verso il mondo delle comunicazioni non appartiene alla milanese. Lei è iperconnessa: conosce a memoria quasi tutti i numeri della sua rubrica, anche se adesso con Siri ha abbreviato i passaggi e si rivolge a lei con il suo tipico tono efficientista. Per quanto predichi il verbo «staccare», anche nell’angolo più remoto di mondo cerca il wi-fi per poter controllare quello che succede in sua assenza e non rimanere tagliata fuori.
La milanese ama comunicare ma a volte va in affanno e si dichiara stanca di troppa connessione. Da questo è nato un capriccio tipicamente meneghino: non rispondere al telefono. Le alternative vanno dal tasto rosso (nelle situazioni più esasperate) ai dribbling educati della suoneria silenziosa. Talvolta imposta la modalità offline, come a bordo di un aereo, ed è come se fosse in Ramadan: al tramonto, quando si riconnette, si rifocilla con i messaggi lasciati in segreteria. Sempre di corsa e impegnata nel tentativo di far quadrare tutto, la milanese può concedere alle conversazioni telefoniche un tempo limitato, anche se non perde occasione per dire come era bello quando le persone facevano lunghe chiacchierate invece di scambiarsi messaggi asettici. Una volta ce l’aveva con i telefonini che toglievano spazio agli incontri, ora con i messaggi che sostituiscono le chiamate: ma in realtà la milanese adora ricevere sms, Messenger e WhatsApp e in quel caso la sua risposta arriva tempestiva. Se la giovane milanese usa il cellulare come un walkie talkie, assumendo una posa che nelle ombre cinesi potrebbe essere confusa con la sagoma di un lama, la milanese adulta detesta i messaggi vocali. Quando ne riceve uno ha la tentazione di non aprirlo: vince la curiosità anche se poi aggiorna lo status WhatsApp con un: «No Voice Messages».
Il vezzo di non rispondere al telefono è iniziato con i numeri privati o non rubricati, che quasi certamente nascondevano una seccatura. Poi è stata la volta del blocco delle chiamate in entrata di alcuni contatti indesiderati: l’incubo della milanese sono le persone che dicono dieci volte «ti saluto» e poi non ti salutano mai veramente. La regola è quella di rispondere sempre alle telefonate di lavoro e a quelle dei familiari: per il resto c’è WhatsApp, che in alcuni casi è più funzionale persino per parlare di affari, soprattutto se si deve comunicare un progetto che richiede condivisioni di foto o disegni. A voce servirebbe il doppio del tempo e a Milano time is money.
Ovviamente esiste qualche eccezione snob: la milanese più ostica si stizzisce se riceve un messaggio di lavoro su WhatsApp, ritenendolo una invasione della privacy. A chi profana la sua sfera privata spiega che per comunicazioni di lavoro si usano gli sms, mentre per amici e famiglia si può usare la chat, funzionalissima alla sua vita sociale. Esiste quella della scuola dei figli, quella dei colleghi, il gruppo del pilates e quello del mare: spesso la fine di amicizie/interessi/progetti viene ufficializzata da un «ha abbandonato». Un piccolo lutto che si rimargina in fretta, perché in fondo si può sempre rientrare. Il romanticismo ai tempi di WhatsApp prevede che due persone che si conoscono e si scambiano il numero di telefono non si dicano in faccia di aver voglia di rivedersi, ma aspettino di essere lontani e mandarsi un messaggio. La milanese più underground ha cominciato con il bluetooth, quando andava di moda «si agganciava» in metropolitana con una persona che la incuriosiva: ora c’è il messaggio in direct su Instagram.
Se Cesare alla testa delle sue legioni che procedevano a marce forzate trovava anche il tempo di scrivere un trattatello di retorica, la milanese non è da meno: mentre guida scrolla la bacheca Facebook, dà un’occhiata a Instagram, risponde a un sms, controlla lo status del fidanzato su WhatsApp e apre un gruppo per il regalo di compleanno all’amica. La multitasking attention è la specialità della milanese che sopperisce alla sua pigrizia vocale comunicativa con un uso intensivo della tastiera.
La velocità della comunicazione è favorita dagli emoji: la milanese all’inizio ha tollerato con fastidio cuori, smile e pollici insù, ma poi ha scoperto che grazie alle faccine poteva ammorbidire il tono di messaggi e accorciare ulteriormente i tempi della conversazione. Ora anche i messaggini le appaiono prolissi. Delegando tutto agli emoticon, però, si sono verificati talvolta dei corto circuiti: se lui ha un Blackberry e lei un iPhone, cioè due dispositivi non in grado di «parlarsi», le faccine si trasformano in J e la conversazione muore, come quando due persone non hanno nulla da dirsi (fatto realmente accaduto).
Post o stories?
Una volta era segno inequivocabile di noia mortale, ora vale l’esatto contrario: più la festa è bella, più la milanese passa la serata incollata al proprio cellulare, per fotografare, taggare, pubblicare, commentare, twittare, proprio con chi a quel party non c’era. Il rapporto con il cellulare ai party è contraddittorio: a volte la milanese dice di volersene liberare e annuncia «lascio il telefono in borsa e mi scateno punto e basta». Ma più spesso, e anche se si lamenta del fatto che ormai ai party non ci si diverte più come una volta, non resiste alla tentazione di documentare la serata. Lei stessa, quando organizza una festa, tra le prime cose si preoccupa di creare l’hashtag sperando che il suo party diventi un trending topic e sempre con il medesimo intento allestisce il photobooth, il fondale per scattare foto professionali.
Il profilo Instagram della milanese da sette generazioni non ha mai troppi follower: sui social trasporta la sua visione dell’amicizia nella vita reale, che la porta a coltivare solo poche e scelte relazioni. Ovviamente segue in incognito profili di influencer un po’ inflazionate, ma senza essere una follower: «Non vorrei mai che si vedesse che seguo quella tipa lì» (frase realmente pronunciata). Non coltiva l’invidia social del vicino e il low profile ambrosiano è applicato anche a Instagram e Facebook. Questo tipo di milanese non perde occasione per dire come «postare» sia una mania tipicamente italiana, perché «è abbastanza raro vedere inglesi o americani con il telefono in mano, solo le ragazze russe hanno un’attitudine simile». La milanese tiepida ai social non soffre della sindrome Fomo (fear of missing out, ovvero la paura di essere tagliata fuori), ma anzi produce sui follower un effetto Momo (mistery of missing out), l’invidia che scatta quando non si posta più e gli altri credono che il motivo sia una vita talmente piena che non lascia spazio a divagazioni virtuali.
All’opposto c’è l’irriducibile dei social, che se manca il segnale sfida i meno trenta gradi sotto la neve per taggarsi al Dracula di Sankt Moritz. Se invece alla sua festa vede gli invitati con il telefono perennemente in mano lamenta mancanza di educazione e sospetta che stiano «sondando» se altrove c’è una situazione più divertente. Se una volta ogni milanese lavava i panni sporchi in casa, ora fa un prelavaggio sui social. Quando litiga con il compagno cambia subito lo status di Facebook e dichiara di vivere una relazione complicata. La bacheca può diventare un comunicato sindacale, in cui vengono esposti delusioni di amore, tradimenti e liti tra amiche. La milanese non arriva mai al punto di sbandierare tutto pubblicamente come una starlette, ma si toglie qualche sassolino dalla scarpa virtuale: se la relazione finisce trascorre un intero weekend a ripulire i profili dalle immagini dell’ex fidanzato, perché l’oblio del cuore non basta, ci vuole anche quello digitale. Se una volta cercava quindici minuti di celebrità adesso insegue i quindici like di popolarità: cerca di ricavare una sua identità e spesso nella scelta del nickname usa suffissi come real o official perché spera di acchiappare follower. Si dedica a ottenere la certificazione del profilo con la spunta blu, con lo stesso impegno messo nell’esame da avvocato, e sotto sotto spera di diventare personaggio pubblico, tradendo l’indole riservata dei suoi antenati. L’ossessione di questa milanese è la photo opportunity, l’occasione imperdibile per acquisire visibilità sui social. Tramonti, prove costume brillantemente superate, selfie con personaggi famosi: tutto fa brodo. La milanese è stata un precursore dello «sharenting», unione tra share (condividere) e parenting (essere genitori) e giustifica la presenza dei figli sui social dicendo che per lei Instagram è come un album fotografico dei ricordi più belli.
Entrambe le tipologie di milanesi hanno una cosa in comune: odiano il bastone da selfie e le suonerie con le musiche di successi pop. Anche in pieno delirio social, è opportuno rivendicare un po’ di stile. Tutte condividono l’idea che Instagram diverte e Twitter informa: quando c’è il Festival di Sanremo la milanese crea un gruppo d’ascolto e passa la serata con il capo chino sul tablet a vedere cosa la gente scrive sul tema. Lo stesso avviene ai congressi: twitta i contenuti e li legge in pillole anziché ascoltarli dal relatore che sta nella stessa aula. Avere un profilo Facebook invece le è utile per evitare di scambiare il numero di cellulare con la persona appena conosciuta alla quale non si vuole dare troppa confidenza: quando ci si saluta ci si ripromette di sentirsi su Messenger.
Invidia social e nétiquette
Secondo l’Urban Dictionary, l’hater «è qualcuno che non è per nulla felice del successo di un’altra persona». Quando deve postare una foto della sua splendida vacanza, la milanese lascia passare qualche secondo prima di cliccare l’invio, pensando all’invidia sociale che provocherà: le ferie (degli altri) esasperano gli animi e accentuano lo scontento. Lei dice di essere immune dalla Schadenfreude, la gioia più o meno deplorevole per le disgrazie altrui: il peggio che le può capitare è quello che gli americani chiamano slacktivism, che porta a cliccare il tasto like anche quando non vorrebbe, per un meccanismo di desiderio triangolare: chi è amato da tutti merita di essere amato anche dalla milanese. Quando perde follower pensa di essere diventata antipatica/poco interessante e ci rimane male, ma reagisce con nonchalance all’attacco frontale: la sovrana indifferenza è la risposta migliore all’invidia degli haters. Al massimo invia un bacio o un abbraccio: un calumet della pace digitale.
Per la donna che ha fatto del bon ton una regola di vita, la nétiquette – ovvero la buona educazione nell’uso di telefoni, social ed e-mail – è fondamentale. Ha solidarizzato con Daniel Barenboim che ha interrotto un concerto alla Scala per dare della maleducata a una spettatrice che lo fotografava col telefonino: la milanese a teatro si lamenta del vicino che guarda di sottecchi i gol o controlla via webcam il cane rimasto a casa. Ma poi anche lei non resiste e dà una sbirciatina. Se lo fa mette in campo qualche astuzia: nasconde il telefono nella borsa o sotto uno scialle, oltre naturalmente ad aver azzerato il volume della suoneria e inserito una vibrazione discreta. Sia a teatro che al cinema disattiva sveglie e notifiche delle app, perché potrebbe spuntare a tradimento qualcosa o di sonoro o di luminoso, specie dai giochi dei figli.
La milanese sui social non si sbilancia mai troppo con foto e video, ma se lo fa deve avere la certezza che sia qualcosa di passeggero. Per un periodo ha avuto l’innamoramento di Telegram, dove i messaggi possono sopravvivere pochi secondi. L’idea che qualcuno possa leggere i suoi messaggi la fa sentire poco spontanea e postare una foto su Facebook le pare una scelta senza ritorno: si sente più a suo agio con le storie che muoiono dopo quarantott’ore e raggiunge il punto più alto dell’imbarazzo con il «Rivedi il tuo anno su Facebook», un collage che spesso più che emozionarla le fa venire voglia di scappare al Polo Nord.
Le app di incontri
Da quando ha saputo che anche Sharon Stone è iscritta al sito di incontri online @Bubble (la versione femminista di Tinder, perché sono solo le donne a poter prendere l’iniziativa) la milanese ha cominciato a fare coming out e ad ammettere che ha scaricato una app di dating, anche se l’atteggiamento diffuso è «si fa ma non si dice». L’approccio è più da entomologo: osserva curiosa, ma le farfalle catturate (o da catturare) sono le altre. Se la mamma della milanese guardava Agenzia Matrimoniale o Il Gioco delle coppie, lei passa una mezz’ora su Tinder, ma senza impegno. Solo quando viene a sapere che la vicina di casa, per di più in piena pandemia da Coronavirus, ha conosciuto un principe azzurro su Tinder, si butta nella mischia. A motivarla non è lo spettro di una eterna singletudine (la milanese è indipendente e ama la sua libertà), ma un senso di sfida: Madame Bovary faceva lunghi bagni di canfora per placare l’invidia verso le donne meglio sposate di lei, milanese fa profonde immersioni di Tinder.
La single di ritorno lamenta la poca inclusività delle coppie di amici, per il suo potenziale seduttivo che rischierebbe di mettere in crisi matrimoni di lunga data. Finge indifferenza, ma dietro alla corazza è stanca delle monoporzioni al supermercato e delle cene a lume di display, così si mette a fare «right swipe», la strisciata a destra che prelude a un grande amore. La ricerca si è impennata con il lockdown e le successive uscite razionate (con tanto di mascherina): il grado di complicazione legato all’incontrarsi/piacersi/innamorarsi è passato da un livello di difficoltà alto ad altissimo. Se una volta parlava di Cupido e destino, oggi crede solo nell’algoritmo, che le farà incontrare la persona giusta: viaggiatrice incallita la milanese in volo si collega a Wingman per chattare con altri passeggeri in cerca d’amore, mentre ritiene una perdita di tempo Meetic, «dove gli uomini non si vogliono impegnare».
Ma come sempre, la milanese punta a qualcosa di più esclusivo dei match di Tinder: la creazione della già citata power couple, l’unione di due individui brillanti che insieme creano una coppia d’èlite. Il mezzo per arrivarci è The League, il sito americano che offre agli utenti solo cinque possibilità di incontro al giorno tra iscritti che sono mediamente giovani, in forma fisica smagliante e soprattutto in carriera. La fissazione per il privè e il membership club viene applicata alla app di incontri: la milanese non ha troppo tempo per cercare l’anima gemella giusta quindi preferisce andare sul sicuro. Invece di tindereggiare, si mette in lista d’attesa per essere ammessa a The Inner Circle, il social che più si avvicina a The League: per entrarne a far parte bisogna armarsi di pazienza e aspettare di essere accettati. La waiting list ha una presa psicologica molto forte sulla milanese, capace di attendere come il cane epico Argo l’arrivo di una borsa da cinquemila euro, il tavolo a un ristorante da trecento euro e in questo caso l’accesso a un database assai scremato. Una volta ammessa si aggira guardinga per controllare che non ci sia il capufficio o peggio qualche amico della figlia: se per strada definirebbe maschilista un occhiolino, su Inner Circle risponde a un wink con un like. Della app elogia la selezione accurata e anche la capacità di non far fare brutte figure, grazie a un sistema di correzione automatica molto efficiente. La milanese, che è un po’ una Venere in pelliccia, su una piattaforma così rassicurante vince le resistenze e dopo i primi scambi di battute stila la sua classifica, sciogliendosi come un polaretto fuori dal frigo: nella sua personale classifica sessantenni sono definiti noiosi, i quarantenni non pervenuti, i trentenni all’assalto.
Anche per allargare il giro di amicizie la milanese si affida a chat poco mass market. Siccome non insegue le mode, ma le determina, ha fatto la fortuna di Smallworld, una community su invito dove si potevano trovare amici in ogni parte del mondo e fare bisboccia in locali alla moda: farne parte era l’equivalente digitale di avere una tessera in un club a Londra. Ma chi di esclusività ferisce, di esclusività perisce e la milanese, in fondo democratica e curiosa, se ne è distaccata per il suo spirito troppo classista. A un certo punto si è infiammata per una iniziativa local, quella del milanese Timothy Schvili, che ha fatto convergere i suoi amici belli e inseriti in Aupat (l’acronimo stava per «Aggiungi un Posto a Tavola»), con l’intento di organizzare party, ritrovi e zingarate tra un gruppo di happy few: anche qui, dopo l’entusiasmo iniziale, l’inafferrabile milanese ha preso le distanze per «mancanza di respiro internazionale e la noia incredibile di incrociare le solite facce».