Se la milanese è la newyorchese d’Europa mancata, il milanese è un londinese evoluto. Ha interiorizzato tutte le regole del giovane British che ha talvolta un parente alla Camera dei Lord e spesso un genitore ex allievo di Eton. Il milanese, per esempio, ha fatto proprio il motto d’eleganza della City «no brown in town» che sconsiglia (leggi: vieta) le stringate color marron in città. La scarpa da lavoro è quasi sempre nera (ma non spazzolata, cioè tendente al lucido), di marchio generalmente Church’s. A differenza dell’omologo inglese, il milanese non scivola in errori di cravatta (predilige Hermès e Marinella) o camicia: quella del milanese è quasi sempre bianca, come la porta Mario Draghi. Il motivo è semplice: il bianco è il colore del potere (fino alla fine del XIX secolo era solo per chi poteva lavare i capi con frequenza). Come il suo avatar inglese, ha studiato in ottime scuole milanesi e si è internazionalizzato con il master all’estero a Berkeley: ma sul suo stile c’è l’impronta forte della famiglia. Figlio della sciura e soprattutto marito della milanese, ha dentro di sé quella stilla di originalità che lo distingue dal resto del mondo.
Il milanese dice che la camicia azzurra fa tanto divisa da conducente Atm ma la indossa qualche volta per l’aperitivo, contravvenendo alla regola di Eugenio Marinella «mai azzurro la sera». Elegante e un po’ controcorrente, subisce solo un condizionamento: quello della milanese. Quando acquista qualcosa – che sia un costume, un abito o una camicia – sulla sua spalla si materializza un piccolo grillo parlante con le sembianze della mamma/fidanzata/moglie. L’influenza è strisciante: nel caso del rapporto mamma/figlio avviene con un tenero acquisto di calzini o intimo in generale; quando si fidanza, il plagio stilistico inizia in genere con il regalo di un maglioncino da parte della futura sposa. Su due cose però lui mantiene l’assoluta autonomia: gli orologi e l’auto, baluardi di difesa degli ultimi scampoli di patriarcato (su tutto il resto la società meneghina è chiaramente matriarcale): se la milanese sogna di essere un millepiedi per poter indossare tutte le scarpe dei desideri, il milanese vorrebbe avere almeno dieci polsi per poter esibire la sua collezione, che quasi sempre inizia con un Rolex regalato per il diciottesimo (che in estate deve avere una variante sportiva). Per le vacanze infatti, normalmente indossa il Rolex Submariner Lunette Blue in oro bianco meglio noto tra gli inners con il nickname «Puffo». Si prosegue poi con il Patek Philippe Nautilus (possibilmente con fase lunare e riserva di carica): è l’accessorio tipico del milanese che vuole dimostrare la sua ricercatezza superiore alla media. L’alternativa al Patek Philippe è l’Audemars Piguet Royal Oak: la differenza è che il milanese predilige il modello Jumbo extrapiatto con fondo blu, gli altri modelli dal calibro più grande sono definiti da «brianzoli». L’orologio elegante, cioè quello che indossa quando accompagna la moglie alla Prima della Scala, non può che essere di famiglia: la marca è ininfluente ma deve essere in oro giallo con cinturino in coccodrillo. Il messaggio è chiaro: «Io avevo già il palco qui quando voi stavate ancora sulle montagne».
Donne e motori
Il milanese, anche in questo caso come il londinese, ha plaudito all’introduzione del car sharing che ha «liberato dal vizio provinciale del possesso». Ma in realtà continua ad acquistare con regolarità Top Gear e a sognare di cambiare la sua auto con il modello restyling: per una imprecisata ragione la versione che trova tutti i maschi milanesi d’accordo è l’Audi RS4 o RS6, spesso nella versione station wagon che viene scelta per argomentare con la moglie che si tratta di un acquisto per la famiglia. La city car è un fenomeno tipico, legato non tanto alla necessità di aggirare le difficoltà del parcheggio, ma al vezzo del low profile. Il milanese non vuole si sappia che in garage ha parcheggiata un Porsche 911 o una Ferrari Portofino: declina il motto «vorrei ma non posso» in «potrei ma non voglio». Lui non sgasa, non romba e soprattutto non scappotta. Il milanese acquista sempre il modello cabrio, che segue la regola del terrazzo quando si compera casa: è essenziale che ci sia, ma poi non si usa mai, perché fa troppo caldo o fa troppo freddo. Qualche timida «scappottata» avviene all’uscita del casello di Rapallo, poi però si ricorda che non ha messo la crema solare e si rintana nel suo guscio.
La passione per i motori può raggiungere l’iperbole affibbiando un nome di persona alla macchina (Amelia come la nonna materna o Rossella, se è rossa) e in questo modo pareggia i conti con il bassotto della moglie: i milanesi che battezzano la loro macchina tendono ad avere un rapporto simile a quello che la moglie ha con il suo cane. La sua macchina è sempre «bellissima», ha gli optional «giusti» e – nonostante sia sostanzialmente identica a quella dell’amico – è ovviamente «unica». Così come la milanese porta il bassotto a strippare (per le più tenere di cuore, tosare) dal «miglior toelettatore di Milano», il milanese non si fa mancare alla propria auto un passaggio all’anno da Marcello Mereu, specialista di car detailing, una sorta di salone di bellezza per interni ed esterni di auto di lusso da non confondere assolutamente con l’autolavaggio. D’altronde anche la pelle dei sedili deve essere adeguatamente idratata. Non mancano gli estimatori delle auto d’epoca e i più gagà si danno appuntamento al ritrovo annuale Concorso di eleganza a Cernobbio: la milanese in questo caso accompagna il suo compagno con lo stesso atteggiamento (e la stessa risata asmatica) di Muttley nelle Wacky Races. Talvolta tenta anche un sabotaggio pur di non sottoporsi più a quel supplizio: ma tutto il rancore passa quando si ritrova a scattare una foto a bordo della piscina galleggiante di Villa D’Este da postare su Instagram.
Lettore appassionato
Il milanese ci tiene a far capire che è un uomo di sostanza e acculturato. Sempre alla rincorsa del modello «professionista rampante della City», dall’edicolante si fa tenere via ogni mattina la sua mazzetta che avvolge «a panino»: fuori c’è «Il Sole 24 Ore», nel nucleo più l’interno la «Gazzetta dello Sport», che ovviamente è il quotidiano preferito. La moglie trova che le sue letture siano troppo terra terra e allora gli regala qualche romanzo di Murakami, ma appena lei si distrae lui torna da Ken Follett. Professionista di successo, normalmente laureatosi con una tesi in lingua inglese, il milanese entra quasi sempre «nel miglior studio di Milano» dove è un equity partner con l’obiettivo di entrare nello steering committee, il gruppo dei soci che decide le strategie dello studio. È incuriosito quindi da letture che raccontano il mondo degli ambienti legali o finanziari come I Diavoli di Guido Maria Brera (del quale ha visto anche la trasposizione per la televisione) o i romanzi di John Grisham, prima di tutto Il Socio. Di nascosto ha letto anche Studio illegale, irriverente libro nato dal blog di un giovane associato di uno dei più importanti studi legali che scriveva nascondendosi dietro il nome d’arte Duchesne, alias Federico Baccomo. Ma alla fine le pagine che lo catturano più di tutte le altre sono quelle della carta dei vini.
Il milanese non prende il diploma da sommelier (che fa un po’ personale di sala) perché sa già tutto: abituato da sempre a ottimi vini, investe anche in etichette e si vanta con gli amici di avere una verticale di Masseto. Come la milanese vuole essere un po’ avanti con la moda e saperla più lunga degli altri: lui non ordina il vino più costoso, ma quello più ricercato. Sono nate a Milano stranezze come il vino rosso con il pesce o sempre il rosso servito ghiacciato, con gli altri convitati un po’ irritati perché con il branzino avrebbero voluto bere uno Chardonnay bianco freddo. Amante degli Amaroni e degli Chablis, ha una autentica venerazione per la «bollicina»: qualche milanese ha il vezzo di dire che le «bolle» italiane (sopra tutti i vini della Franciacorta) hanno superato di gran lunga quelle francesi, anche se poi tra i viaggi che propina alla moglie recalcitrante c’è il tour nelle zone dello Champagne. Poliglotta e con accento sempre curato, il milanese sfodera il suo vocabolario francese quando c’è da pronunciare parole come foie-gras e Louis Roederer Cristal. Camaleontico e tuttologo, degusta con piacere i vini del territorio: se è in Liguria sa tutto di Pigato, in Sicilia decanta il vino bio fermentato in anfore di argilla a Pantelleria.
Abituato a tenere testa a una donna in continua evoluzione, il milanese finge dinamismo: in realtà il suo divano ha impressa una strana sagoma nota agli studiosi come «la sacra sindone del milanese», un avvallamento che si accentua con decisione durante il Gran Premio di Formula Uno o la Champions League. Tra i tic del milanese c’è il pisolino del pomeriggio: il papà aveva la buona abitudine di tornare a casa e fare un piccolo sonnellino in poltrona. Il milanese, di rientro dal pranzo di lavoro da Cracco in Galleria, dalle 15 alle 15.20 sparisce misteriosamente dai radar. Perché il vero vezzo del milanese, anche questo proveniente da Londra, è la power nap, una specie di dormita a comando, della durata imprecisata dai cinque ai trenta minuti, che può avvenire appena se ne presenta l’occasione e in qualsiasi luogo, giusto per ricaricarsi e tornare in pista più tonici di prima. Ma c’è un momento più di tutti in cui il milanese dimostra la sua indole sorniona e ritirata: il dopocena. A differenza del romano, che si attarda nelle terrazze, lui a una certa ora vuole andare a letto. Proprio come la milanese, segue la regola del congedo alle 23: se rimane oltre, ha la netta sensazione di stare perdendo tempo.
Il lato sedentario del milanese però non deve ingannare: è un uomo che può amare così tanto il suo divano anche perché tenersi in forma non è una scelta ma una questione di famiglia. È geneticamente sportivo, abituato fin da piccolo alle discese dell’Engadina e ai tuffi nel Tigullio: quasi tutti i milanesi hanno la tessera al circolo del tennis (va per la maggiore il Bonacossa, sempre per quel sapore finto inglese), alcuni praticano il padel e di solito hanno la patente nautica per scorrazzare in alto mare d’estate. Tra i sogni adolescenziali del milanese c’è quello di diventare istruttore di vela a Caprera perché «solo a Porto Palma si capisce cos’è la libertà». Anche se poi finirà per sfrecciare con un gommone Sacs con motori fuoribordo decisamente poco eco friendly a Santa Margherita («va beh, dai, Santa è comoda e poi ci sono un sacco di amici», vedi il capitolo «Mari e monti»).
Alcuni praticano la caccia nelle tenute degli amici in Italia e in Spagna, dove la milanese segue il marito che la conduce per lande e brughiere a bordo di una Range Rover Defender: per l’occasione lui indossa qualcosa di verde, che non è mimetico, ma qualcosa di più chic che ricorda il mimetico. La milanese biasima questa passione sanguinaria, ma si tura il naso in nome delle buone frequentazioni che garantisce e parte alla volta dell’Umbria, per la caccia al fagiano. Un inglesismo che raggiunge l’apice (dell’orrore) quando l’ospite fa recapitare a casa ai suoi compagni di battuta fagiani e beccacce già spiumati da arrostire a Milano. Quando la moglie non lo accompagna, il milanese si fa scortare da un autista, che quasi mai è un conducente professionista, ma più spesso è il factotum di casa (in genere il marito della domestica).
Di moda. Ma non troppo
Il milanese, proprio come la milanese, indossa capi poco eclatanti: il superlogo lo lascia perplesso, mentre esibisce volentieri piccoli segni di diversità. Tra questi, nel tempo libero, c’è una giacca antivento di Dynamo Camp, il campus di terapia ricreativa che lui finanzia con donazioni, perché ha imparato la solidarietà in famiglia, con la mamma dama della charity meneghina e il papà che re del mecenatismo artistico.
Anche quando indossa capi di marca, questa non è mai ovvia: per il tempo libero, per esempio, ha promosso a scarpe d’elezione le Summer Walk di Loro Piana, mocassini assai costosi che usa a mo’ di pantofole con il tallone abbassato. A proposito: il milanese non indossa mai le ciabatte, neppure in casa (dove si aggira scalzo o con le babouche) e anche in spiaggia arriva con le Tod’s o le Car Shoe. Quasi sempre anche in questa occasione indossa una camicia, che non è quella della città, ma è stata fatta fare appositamente per il mare, preferibilmente in lino e con il collo alla coreana, proprio per marcare la differenza con il look da ufficio. Il collo della camicia è un dettaglio fondamentale, che non può essere mai trascurato: se il milanese è di tendenza londinese, è però francese in fatto di camicia. Il collo è piccolo, il button down è ammesso solo per le camicie della domenica: il collo con due o (orrore!) tre bottoni, magari con le asole colorate, è guardato dal milanese con lo stesso sguardo atterrito con cui osserverebbe un ragno violino. Tra i negozi di riferimento ci sono Bardelli in corso Magenta e Gemelli in corso Vercelli: sempre in zona c’è il Bazaar dove il milanese osa un pizzico di eccentricità, come la cravatta con il numero 7, numero fortunato del proprietario Lino Ieluzzi che ha convinto altri milanesi ad affidarsi allo stesso simbolo porte-bonheur. Anche il milanese è orfano di alcune insegne, che rimpiange con fare da veterano: tra queste c’è Neglia, il sarto siciliano in piazza San Babila, che ha ceduto il passo ai grandi marchi del lusso. Dopo qualche lacrima da coccodrillo ha preso a rifornirsi da marchi super globalizzati come Berluti, nella speranza di essere invitati dalla maison alla cerimonia ufficiale di pulitura che si tenne la prima volta il 29 novembre 1992, quando Olga Berluti invitò quaranta fortunati gentlemen a Spencer House, una delle residenze della famiglia di Lady Diana. La «cena» viene organizzata con cadenza biennale e si racconta che per l’ultimo colpo di lucidatura si usi il Dom Pérignon. Dopodiché le scarpe vengono esposte al quarto di luna perché «conferisce quella trasparenza alla pelle» svelò Olga nel 1992, aggiungendo: «Il sole brucia, la luna patina».
Con il tempo, il milanese ha fatto amicizia con il mondo dei colori: se nella vita di tutti i giorni mantiene l’aplomb, nel tempo libero ha abbandonato quello che per l’architetto Stefano Boeri è il colore simbolo di Milano, ovvero quello delle rotaie del tram.
Proprio come la milanese, anche il milanese indugia su qualche capo transgenerazionale, come i pantaloni cargo, il cappellino da baseball o le All Star, almeno fino a quando qualcuno non gli fa notare che sembra un allenatore di mezza età. Tra le ingenuità che non commette c’è quella di indossare il jeans ascellare, che sul figlio sono cool mentre su di lui potrebbero sortire l’effetto Zio d’America. Il dad-jeans riappare casomai dopo i settant’anni, con un denim morbido e reso confortevole dalle pinces: prima di quell’età i centimetri tra cavallo e girovita vengono calcolati con precisione. Stiloso e imitato d’inverno, indossa con stile giacche-cardigan e maglioni con il collo alto. D’estate talvolta sorprende svelando tatuaggi con frasi «la vérité nous rend libre» (la verità ci rende liberi). La sua ossessione sono le gambe corte e i rotolini che aggira con il costume medio-corto e un elastico in vita non opprimente. Quando in spiaggia incrocia un uomo con lo slip bianco storce il naso e pensa che sia l’equivalente del calzino bianco (e sotto sotto che lui non se lo potrebbe permettere). Se gli altri, in pantaloncini, sembrano tutti turisti da sbarco a Venezia, il milanese riesce a centrare la lunghezza perfetta, dribblando l’effetto «Silicon Valley» alla Mark Zuckerberg (infradito e pantaloncino sbrindellato) e stemperando quello protocollare di Felipe di Spagna con orlo battente sul ginocchio.
Come la moglie ama la vita di quartiere e ama andare dal barbiere di quando era piccolo, dove però appare solo su appuntamento: spesso il suo stylist è così agée che completa il servizio passando sulla rasatura l’allume di rocca come all’Antica Barbieria Colla. Il modello metrosexual con petto glabro e sopracciglia è all’opposto del milanese. Lui al massimo abbraccia il filone hipster, sfoggiando una barba curata che si massaggia con oli profumati e che il critico Philippe Daverio ha definito «vendetta» maschile (verso la milanese), perpetrata usando un simbolo virile, proprio come il re leone che si distingue dalla compagna per la criniera. Per curare la barba ha da tempo abbandonato gli olii essenziali per passare al siero, unico prodotto che in ragione dello scarso peso molecolare riesce a nutrire sia il pelo che l’epidermide. Tra gli accessori feticcio del milanese ci sono le pinzette, che acquista da Scarazzini in corso Genova: la milanese prova a rubargliele, perché sono nettamente migliori della sue, ma lui ogni volta cambia nascondiglio «altrimenti si rovinano e non strappano più come prima». Vanitoso almeno quanto la sua compagna, si prende il mento tra le mani davanti allo specchio e muove il viso prima a destra e poi a sinistra, verificando se il grigio milanese ha preso il sopravvento su quel leggero velo di abbronzatura che «fa sano» e non deve mai mancare (lui i weekend li trascorre fuori porta, che sia chiaro a tutti).
La doccia è la mania del milanese, che ne fa almeno due al giorno: anche qui c’è il retaggio della mamma, che lo ha rifornito fin dalla tenera età di «fisiodetergenti agli zuccheri attivi» per combattere l’ascella adolescenziale. Dopo la doccia dimostra tutto il suo perfezionismo e la sua innata ostilità al calcare, passando il tergivetro dei benzinai sulle pareti di cristallo: il milanese è la gioia della moglie, perché è più preciso di lei e non lascia neppure i calzini in giro.
L’uomo meneghino si gratifica con il fare e ha un approccio rispettoso con il denaro: ama la bella vita ma non vuole sperperare e ha fatto subito sua, per questo, la carta prepagata Revolut che gli permette di spendere in tutto il mondo senza rimetterci (lui usa il verbo «smenarci») i soldi delle commissioni.
La sposa perfetta
C’è un modello inimitabile di donna che il milanese ha come riferimento ed è la mamma. L’aspirante sposa, appena diventa tale, viene dunque iscritta a un immaginario Norland College – la scuola che sforna tate per i royal babies – di cui è rettore la mamma del marito. Il milanese pensa che sua madre tenga la casa come nessun’altra e sogna che la moglie sia in grado di ricevere/cucinare/organizzare come lei. Tra le cose che la mamma del milanese sa fare meglio di tutti c’è la gestione del personale: la nuora passerà la vita a cambiare tate e colf non gradite alla suocera e sotto sotto il marito penserà sempre che lei sia poco efficiente nella selezione.
Nella scelta della donna della sua vita, il milanese oscilla tra due poli opposti: la modellina e la perfettina (a Milano detta anche «figa di legno»). La prima è solitamente una aspirante modella, ma ha già in sé le stimmate della non-celebrità: ha fatto qualche provino, è apparsa in una campagna, qualcuna è stata Paperetta in Paperissima Sprint, ma non sarà mai Naomi Campbell, anche perché appena incontra il milanese lascia il lavoro, poco consono alla moglie di un banker. La perfettina è quella che il maschio definisce «pesante», ma di cui sotto sotto non riesce a fare a meno, perché è la replicante perfetta della mamma. Bella, elegante e incontentabile, viene amata a prima vista dal milanese perché ha un certo gusto nell’arredamento, indossa i marchi che anche la mamma conosce e sarà quasi sicuramente in grado di educare i milanesini secondo gli standard di famiglia (il bambino avrà nomi diversi da tutti gli altri, come Tomaso con una emme o Nicolò con una c: il milanese tenterà di chiamarlo Enrico come il papà trapassato, ma il raglio dell’asino non arriva in cielo e la moglie boicotterà ogni tentativo di dargli un nome così comune e, soprattutto, così polarizzante verso la famiglia del marito: alla fine anche lei ha un papà ed è stato sicuramente migliore).
Spesso l’incontro del destino tra milanesi avviene a metà strada tra Santa Margherita Ligure e Portofino (il geotag reciterà: Paraggi), in posti milanesi quanto basta, come il club Carillon o il Covo di Nord Est. Talvolta il colpo di fulmine può scattare in posti più esotici, come nella finca di amici milanesi a Ibiza, che dopo essersi convertiti all’induismo si fanno chiamare lui Rakesh e lei Parbarti e gestiscono un ristorante vegano, famoso sia per l’ottimo cibo sia per la mancata emissione di qualsiasi documento con valenza fiscale nel momento in cui viene pagato il conto.
La superiorità della donna del milanese rispetto al resto del mondo femminile deve essere continuamente celebrata attraverso foto che poi lei posta su Instagram: a fargliele è proprio il marito, detto anche Instagram husband, che realizza veri e propri shooting fotografici per la sua amata. Quello che potrebbe sembrare a prima vista un gesto di affettuosa condiscendenza cela in realtà un doppio fine: il milanese vuole che tutto il mondo sappia quanto la donna che ha sposato sia decisamente più bella/elegante/sexy delle altre. Algido e poco incline alle sceneggiate, non è geloso: quando lei posta sui social la foto perfetta lui si compiace dei like che arrivano. Il milanese ha una app per ogni cosa, affari di cuore inclusi: evita di iscriversi a Tinder perché teme di incrociare qualcuno di conosciuto e di fare la figura dello sfigato. Allora si palesa sottotraccia su Happn, molto meno inflazionata e che permette di contattare la milanese incrociata qualche ora prima per strada, attraverso un sistema di Gps.
Le relazioni tra milanesi, come tutte le altre, evolvono a volte verso la disillusione, e qui si palesa il vero paradosso: quando scopre che la moglie, da donna dei sogni, si è trasformata in un film dell’orrore, il marito si rende conto che in realtà si è tramutata proprio nel modello di milanese originario: la suocera. La perfettissima madre, quando scopri di averla sposata, non è quel modello che pensavi.
La mutazione gli ricorda quella di Anakin Skywalker in Dart Fener. La ragazza (mediamente) allegra che apprezzava (anche) la cucina e (persino) un buon bicchiere di vino viene accusata di essere diventata un’acciuga isterica, che si nutre esclusivamente di supplementi vitaminici e che ha iniziato a inserire nel lessico familiare culinario la parola detox. Più odiato di lei c’è solo Gigi, il bassotto di casa, visto anche lui come un traditore, servile e pure snob. A quel punto, il milanese capisce che, come accadde a Dart Fener, solo la morte può allontanare la moglie dalla Parte Oscura della Forza. Gli esiti possibili sono due. Il primo è il divorzio (sul punto vedi il capitolo «La milanese e il matrimonio») che normalmente si conclude in modo assai cruento, anche perché il milanese «di seconda mano» dopo i quarant’anni tende a perdere il suo distacco e spesso trova una fidanzata proveniente da paesi esotici e della stessa età della figlia. Il secondo, e per fortuna il più frequente, è abbandonarsi alla città, alle sue usanze e ai suoi ritmi. In fondo, basta lasciarsi andare un po’ e Milano ti accoglie. Arrivano le Settimane della Moda, il Salone del Mobile, le vacanze a Santa o in Sardegna, la settimana bianca a Carnevale, gli incontri con le maestre della scuola internazionale, le vendite e la stagione dell’Opera alla Scala. A quel punto, la forza centripeta supera la forza centrifuga e i milanesi, lui e lei, si trovano ancora fianco a fianco, complici e glamour.
Alla fine, come diceva il Maestro Tanzi:
Lassa pur ch’el mond el disa
ma Milan l’è on gran Milan