RECITARE

Nel febbraio del 1980, quando avevo quindici anni, vidi American Gigolo di Paul Schrader al National Theater di Westwood, e non avevo idea che quel film fosse stato influenzato da Robert Bresson, il maestro francese del minimalismo, o che il finale – un falso alibi che un personaggio procura all’altro – fosse un plagio dal Diario di un ladro dello stesso Bresson. (Quando nel 2012 stavo scrivendo la sceneggiatura per The Canyons di Paul Schrader, la penultima scena prevedeva una mia versione di quell’alibi tra Lindsay Lohan e James Deen, un plagio aggiornato del finale di Diario di un ladro, ma il mio modello era American Gigolo, non Bresson). A posteriori, l’impatto che American Gigolo ha avuto su di me è impossibile da quantificare, e non si tratta della grandezza del film – non è un gran film, cosa che trova d’accordo anche il regista – ma della maniera in cui ha cambiato il nostro modo di guardare gli uomini e di considerarli «oggetti», e di come ha alterato il mio modo di pensare e vivere Los Angeles: in questo, la sua influenza è stata enorme e innegabile. Il film è ambientato nella Los Angeles del 1979, i cui abitanti mangiano da Ma Maison e Perino’s e Scandia e Le Dome – e Julian Kay, il personaggio a cui si riferisce il titolo, vive in un appartamento chic di Westwood, veste Armani, percorre le strade vuote su una Mercedes cabrio e si guadagna da vivere prostituendosi per donne ricche piú vecchie di lui battendo la Polo Lounge del Beverly Hills Hotel, ed è straordinariamente bello – la pellicola cattura Richard Gere all’apice della sua bellezza, quando aveva trent’anni ma sembrava piú giovane. Julian ha due magnaccia che gli danno da lavorare: una è una donna bionda, una divorziata che vive a Malibu, interpretata da Nina Van Pallandt, e l’altro è un nero grande, grosso e cattivo interpretato da Bill Duke, che vive in un attico del West Side tappezzato di stampe di Warhol. Non siamo certi che la donna sappia dell’altro pappone – forse all’inizio ha importanza oppure no, ma quello che conta è che Julian è un capitalista felice e superficiale con un vissuto davvero minimo. Si limita a esistere, fluttuando in questo suo mondo, un attore. A un certo punto dice a qualcuno di essere nato a Torino, ma non sappiamo se sia vero perché nella scena precedente ha mentito a un cliente sostenendo di essere stato da giovane un addetto alla manutenzione della piscina del Beverly Hills Hotel. La svolta nella trama scatta quando Julian viene accusato di omicidio, e American Gigolo diventa un thriller investigativo. Dal punto di vista narrativo, è un espediente standard, e la vicenda si risolve in modo chiaro e semplice. Ma non importa perché è l’estetica del film a essere cosí seducente e sbalorditiva.

American Gigolo era il terzo film di Paul Schrader all’epoca in cui, giovane regista, metteva a frutto tutto ciò che aveva imparato nei primi due: i movimenti di macchina fluidi, i set sfarzosi, gli effetti drammatici delle luci – tutto contribuiva alla creazione di questa sua visione acida di Los Angeles come una terra desolata dai colori vivaci. È un neonoir assolato, minaccioso e bellissimo, e usciva al momento giusto: c’era nel film qualcosa della new wave di fine anni Settanta, minimalista e chic, lussureggiante e corrosiva, e c’era anche un che di gay, cosa diffusissima nel panorama culturale dell’epoca. Il pubblico mainstream non aveva mai visto un uomo rappresentato sullo schermo – un «uomo oggetto» – nel modo in cui lo era Richard Gere. La cinepresa concupiva la sua bellezza, indugiava sulla sua pelle, divorava la sua insolenza adolescenziale, era ipnotizzata dalla sua carne, e Gere fu il primo protagonista maschile di una grande produzione a mostrarsi in un nudo frontale. In origine, doveva essere John Travolta a recitare in American Gigolo, ma tagliò la corda a poche settimane dall’inizio delle riprese, e forse il pubblico avrebbe empatizzato con la serietà di Travolta piú che con l’inespressività di Gere; Travolta avrebbe potuto rendere piú umano il film – infondendogli istintivamente il suo humour – e avrebbe potuto dargli una sorta di realismo. Ma con Gere come protagonista, il film risulta un’esperienza fredda e remota, e a quel punto della sua carriera lo humour non gli appartiene. C’è una certa tristezza in Gere, eppure questo non cancella il fatto che Julian Kay piú che un personaggio è un’idea, un’astrazione, una maschera, e di certo non suscita simpatia.

Eppure la freddezza di Gere e il minimalismo del film si sposavano, e in quell’estate del 1980 il pubblico apprezzò e fece di lui una star. La modella Lauren Hutton interpreta Michelle, la moglie infelice di un senatore della California, e anche lei è di una bellezza straordinaria, ma il film è una dichiarazione d’amore per il protagonista maschile – tutta la tensione deriva dalla bellezza e dal narcisismo di Gere. Le donne al cinema erano già state filmate in quel modo, ma gli uomini no – era qualcosa di nuovo, di gay, e finí per avere ripercussioni su ogni cosa, dalla popolarità di una rivista come «GQ» al modo in cui Calvin Klein cominciò a usare gli uomini nella pubblicità. A posteriori, il fatto che American Gigolo sia stato un successo è stupefacente: è un film volutamente lento, a tratti in modo glaciale, e spesso è ai limiti del presuntuoso, al punto che è difficile credere che quest’opera d’essai con pochissime attrattive commerciali (tranne, va da sé, per quel titolo superseducente) sia stato in realtà un grande film della Paramount prodotto da Jerry Bruckheimer.

Nel 1980 stavo iniziando il progetto Meno di zero, che sarebbe culminato nel 1985 con la pubblicazione del mio primo romanzo, e anche se presi molti spunti da Joan Didion e dai noir ambientati a L.A., oltre che da band come i Doors e gli X e gli Eagles, American Gigolo fu un altro modello fondamentale, al punto che anch’io chiamai Julian l’adolescente maschio che vi si prostituisce. Ciò che mi aveva colpito a quindici anni era stata l’ambiguità morale non solo del tema, e di Julian, ma anche del modo in cui era stato girato il film: non riuscivo a decifrare che cosa volesse vendermi – e la cosa mi piaceva. L’elettrizzante Call Me dei Blondie esplodeva sui titoli di testa come un inno, benché il film fosse fondamentalmente dark e pessimista, con la bellezza di Richard Gere esibita come un qualcosa da bramare, e insieme un qualcosa di profondamente ambiguo. Quell’autunno, Gente comune di Robert Redford seppe parlare piú appassionatamente al sedicenne che ero diventato, con Timothy Hutton nei panni del personaggio in cui mi identificai di piú, ma ora riesco a malapena a riguardarlo. Con tutti i suoi difetti, invece, posso rivedere American Gigolo all’infinito. Quando uscí i film potevano avere una grande influenza culturale, proprio come i romanzi, mentre ora sia i film sia i romanzi paiono essere forme d’arte del ventesimo secolo, non del ventunesimo. I film non svolgono piú la funzione di farci esplorare culture lontane e sconosciute, a meno che non abbiano a che vedere con l’ultraterreno o col fantastico. Non siamo piú spinti ad andare al cinema unicamente per vedere Richard Gere nudo nel suo appartamento di Westwood, poi farsi largo tra i gay che ballano al Probe su North Highland Avenue o gironzolare sotto il sole lungo Rodeo Drive – comportandoci come voyeur nei confronti del mondo privilegiato di Beverly Hills in cui è ambientato American Gigolo. Tutto ciò appartiene al passato: Instagram e i reality televisivi l’hanno sostituito.

Julian Kay è un attore – e l’interpretazione di Gere è l’interpretazione di un’interpretazione. Lo sviluppo narrativo di American Gigolo è infatti quello di un attore che ha bisogno di diventare una persona reale e scendere dal palco per salvare se stesso. Naturalmente, si tratta del classico intreccio sulla perdita dell’innocenza presente nella maggior parte dei film americani, tranne per il fatto che in questo caso è piú interessante e letteralmente superficiale del solito, alla pari dell’interpretazione del protagonista. Avevo notato Gere pochi anni prima guardando Z Channel nella mia cameretta di Sherman Oaks, e nel 1977 l’avevo visto recitare nell’elaborato adattamento del best seller del ’75 di Judith Rossner In cerca di Mr. Goodbar. (Avevo letto la copia di mia madre quando avevo undici anni). Dopo circa quarantacinque minuti dall’inizio del film, compariva nei panni di Tony, uno dei ragazzi rimorchiati da Diane Keaton. Lei all’inizio lo nota in un bar per single perché lui sta cercando di rubare il portafoglio dalla borsa di una tipa – ma d’altronde come potrebbe non notarlo? È bellissimo. In una scena successiva Gere porta la Keaton all’orgasmo nell’appartamento di lei mentre Donna Summer canta Could It Be Magic e poi si esibisce in sospensorio in una serie di finte mosse di kung fu brandendo un coltello a serramanico fosforescente. Tutto ciò era incredibilmente sexy per la mia sensibilità di studente delle medie (ora lo trovo ridicolo) e in una sorta di trance erotica iniziai a seguire la carriera di Gere lungo tutto il 1978 (I giorni del cielo, Una strada chiamata domani) e il 1979 (Yankees), sviluppando una vera e propria ossessione adolescenziale. Avrebbe potuto riguardare chiunque, immagino, ma la tempistica della mia adolescenza e quella di quei film entrarono in collisione.

In questa fase della sua carriera Gere incarnava la grintosa sensualità maschile dei Settanta e sembrava calarsi perfettamente nel mondo nichilista e cupo di In cerca di Mr. Goodbar, una storia che era una delle tante narrazioni archetipiche di quel decennio. L’assassinio dell’insegnante Theresa Dunn da parte di un uomo con cui ha fatto sesso occasionale in quella desolata landa urbana che era Manhattan a metà degli anni Settanta era sessualmente eccitante e ai miei occhi di quattordicenne risultava attraente come le pagine dei giornali scandalistici, ma allo stesso tempo un po’ mi faceva orrore e un po’ mi annoiava e deprimeva. Diane Keaton prova l’orgasmo piú forte mentre viene accoltellata a morte da un altro partner occasionale (Tom Berenger, un’altra delle mie fissazioni in quel periodo) sotto il tremolio impietoso di una luce strobo, ansimante e coperta di sangue – punizione compiuta e finale moralista realizzato. Eppure guardai e riguardai quel film durante le settimane in cui venne trasmesso da Z Channel, per intravedere Gere.

Nel 1979, il solo film in cui apparve fu Yankees, la pellicola di John Schlesinger sui soldati americani stazionati nel 1943 nel nord dell’Inghilterra durante la Seconda guerra mondiale. Era la prima volta che Gere recitava in un film diretto da un regista gay, e la differenza tra questa pellicola e le due precedenti (una diretta da Terrence Malick, l’altra da Robert Mulligan) mi risultò evidente perfino a quindici anni. Tutto era cambiato perché ora la cinepresa inquadrava Gere come una star, enfatizzandone la tristezza degli occhi a mandorla, la sensualità delle labbra carnose, il fascino delle guance scavate, la definizione del corpo da ex ginnasta che si intravede nudo nelle docce dell’accampamento militare in una delle primissime scene – i teli della doccia fanno in modo da oscurare il nudo integrale, ma lo si intuisce – mentre il suo naso importante aveva meno l’aria di una proboscide: chi lo stava filmando era in preda alla libidine. Quando per la prima volta quell’autunno vidi Yankees avevo quindici anni e non avevo mai visto un uomo cosí bello in nessun altro film, ma oltre a questo Gere sembrava anche vuoto e smarrito, e ciò probabilmente accresceva la sua bellezza. Il difetto di Gere in film storici come I giorni del cielo o Yankees era che sembrava troppo contemporaneo, troppo moderno per essere davvero in sintonia con quei mondi, e per questo ne usciva manierato. In Yankees risulta dilettantesco, con una voce piatta e priva di sfumature, e non si presenta e non parla e non si muove come ci si aspetta da un cuoco di fast food dell’Arizona dalla battuta pronta – sembra piuttosto che si stia pavoneggiando a una sfilata milanese di fine anni Settanta, sovreccitato dalla droga e aperto a qualsiasi proposta sessuale, oppure che stia cazzeggiando dalle parti dello Studio 54 e della boutique Fiorucci a Beverly Hills. Gere emana un egocentrismo in apparenza alquanto bizzarro, eppure buca lo schermo nonostante sia quasi sempre evidente che sta recitando, e in modo apertamente autoconsapevole, senza mai calarsi davvero nella parte. E in tutto questo permane una tensione genuina.

Yankees è uno spento e per certi versi imbalsamato esempio di cinema tradizionale hollywoodiano, e tutti i ruoli dei personaggi americani sono male assegnati: Chick Vennera nella parte del migliore amico di Gere è costantemente spinto a recitare sopra le righe, e a chi poteva saltare in mente di pensare a William Devane come a un protagonista di una storia d’amore, accoppiato addirittura a una luminosa Vanessa Redgrave? Si rivelò un insuccesso totale, ma Gere aveva già girato American Gigolo prima che Yankees facesse fiasco. American Gigolo fu il secondo film in cui rimpiazzò Travolta (il primo era stato I giorni del cielo), e anche se la Paramount avrebbe voluto Christopher Reeve nel ruolo di Julian Kay dopo l’abbandono di Travolta, Paul Schrader insistette per Gere, riuscendo infine a convincere il boss della major, Barry Diller, a scritturarlo. (Julie Christie declinò dopo il no di Travolta, e Meryl Streep poco dopo rifiutò il ruolo di Michelle perché riteneva la sceneggiatura di pessimo gusto). Nella prima parte di American Gigolo, è palese che Julian Kay sarà chiunque tu voglia, dipende solo da quanto lo paghi. In una delle sue prime apparizioni lo si vede appeso a testa in giú nel suo appartamento, con i piedi infilati in un paio di cavigliere antigravitazionali mentre ripassa battute in svedese in vista di una cliente che gli frutterà 8000 dollari, e piú tardi usa le stesse battute con la moglie del senatore, Michelle. A volte fa lo chauffeur per una ricca vedova di Charlottesville, e poi si trasforma in un effeminato decoratore tedesco allo scopo di proteggere una cliente in occasione di una visita da Sotheby’s – senza dubbio la performance piú imbarazzante di Gere sul grande schermo. Nella scena piú emblematica del film, Julian si prepara per una serata, tira cocaina da un piccolo specchio, stende bellissimi abiti Armani sul letto, sceglie un completo e ispeziona cassetti pieni di camicie sontuose e cravatte scintillanti mentre Smokey Robinson canta The Love I Saw in You Was Just a Mirage. Verso la fine del film, Julian dice disperato al pappone che lo ha incastrato per l’omicidio Rheiman a Palm Springs di essere disposto a interpretare qualsiasi parte (gay, perversioni varie) pur di venir fuori da questo complotto, e allora capisci che American Gigolo potrebbe essere visto come un film horror su un attore che perde il suo pubblico. Julian crede di essere libero ma gli viene costantemente detto che cosa deve fare – in realtà ogni sua mossa è un provino fatto per denaro.

Ho avuto a che fare con gli attori fin da quando ero bambino, ne ho conosciuti a scuola e poi alle superiori fino all’età adulta, professionalmente e talvolta anche sentimentalmente. Nonostante la pazzesca positività passivo-aggressiva di cui gli attori hanno bisogno anche solo per mantenere il loro equilibrio e per placare il divorante bisogno di sedurti e controllarti, li ho sempre trovati affascinanti e attraenti. Questa nevrosi in fondo è perdonabile visto che è quello che ci si aspetta da loro – che ti facciano innamorare. Il loro lavoro consiste semplicemente in questo: desidero far sí che mi desideri. E per questo motivo, almeno per quanto riguarda la maggior parte degli attori che ho frequentato, il loro è un mestiere difficile, caratterizzato da una sottile paura e dalla minaccia emotiva derivante dalla possibilità che tu non ne sia sedotto. Che succede se non compri la loro mercanzia? È una cosa abbastanza terra-terra: che succede se un attore semplicemente non piace? Non si tratta di un lavoro a cui uno viene costretto; viene scelto da persone che vogliono esprimersi cosí (indipendentemente dalle cause della loro nevrosi) e che inoltre sperano di ricavarci di che vivere. Ma la maggior parte degli attori non ce la fa, e le difficoltà e i fallimenti che caratterizzano il loro settore fanno sembrare sensata e priva di ostacoli praticamente ogni altra professione. I motivi per cui un attore viene cercato e scritturato sono cosí legati al caso – e spesso basati sulla fortuna, senza alcun legame con il merito e le capacità – che osservare questa faccenda dal di fuori, senza essere attori, può sconvolgerti al punto da far vacillare la tua mente. (È questa la ragione per cui trovo i casting quasi intollerabili – prima ancora di sentir leggere le battute della sceneggiatura dal candidato di turno riesco subito a indovinare dal momento stesso in cui entra nella stanza se è adatto o adatta alla parte oppure no). Immaginate, dunque, che cosa significa tutto questo per loro. Gli attori sono cosí essenziali per il cinema e il teatro e la tv che i migliori tra loro portano alla luce verità straordinariamente rivelatrici, e inoltre possono essere una gioia per gli occhi grazie alla loro fisicità oltre che al loro talento. A chi non va di guardare gente incredibilmente bella per la durata di un film per quanto mediocre? Gli attori dipendono dalla loro popolarità, e dal loro carisma, perché vogliono che la gente li guardi, li trovi attraenti, li desideri. È per questo che gli attori sono, per loro natura, bugiardi.

Per questo motivo, finiscono con l’interpretare una parte per noi anche nella loro vita quotidiana. E non possono farci nulla: trascorrono le loro giornate inabissandosi nei personaggi. Vogliono piacere, vogliono far bene il loro lavoro, ne hanno bisogno – e a causa di questo gli attori possono essere tanto semplici e amabili e ingenui quanto il piú affettuoso tra i golden retriever. Oppure possono risultare dei narcisisti paranoici e bisognosi d’affetto, sempre in ansia riguardo a ciò che questo o quello pretende da loro. È solo lavoro? È solo una recita? Vogliono una qualche gratificazione sessuale? Che ruolo dovrei interpretare per ottenere questa parte? Fino a che punto devo aumentare il mio voltaggio sessuale per il responsabile del casting, per questo produttore o quel dirigente? Dio santo, spero di essergli piaciuto. Gli attori sono terrorizzati dalle critiche e ne sono piú feriti perché, al contrario della maggior parte di noi, vivono di fronte al loro pubblico, e le critiche potrebbero voler dire che il pubblico non li ama piú. Le critiche potrebbero pregiudicare il prossimo lavoro, il prossimo flirt, forse la grande svolta positiva nel corso della carriera. Per un attore, le critiche sono intimamente legate alla sopravvivenza, piú di quanto non lo siano per tutti noi. O almeno cosí stavano le cose, fino a poco fa.

In passato, nell’ormai lontana epoca dell’Impero, gli attori potevano tutelare le loro identità scrupolosamente progettate ed enigmatiche in modo piú facile e completo rispetto al giorno d’oggi, in cui tutti viviamo nel mondo digitale dei social media e dove i nostri telefoni catturano senza filtri istanti che una volta restavano privati e ciò che ci passa spontaneamente per la testa può venire tradotto in una frase o due su Twitter. Certi attori tendono a nascondersi di piú, sono meno propensi a esporsi in pubblico con le loro opinioni, riguardo a ciò che amano o detestano – perché chi può sapere da chi potrebbe arrivare la prossima offerta di lavoro? Altri sono diventati piú ciarlieri, dando voce in modo stridulo alla loro rettitudine, ma promuovere le proprie virtú in fatto di giustizia sociale non corrisponde necessariamente all’essere sinceri – può anche essere una posa. Chissà chi potrebbero offendere questi attori se si comportassero come persone normali, incazzose e piene di contraddizioni? Ma essere un attore implica il fatto di diventare un foglio bianco, devi svuotarti in modo da sostituire qualsiasi cosa avessi dentro con il personaggio successivo. Che cosa vuol dire essere autentico per un attore? Che cosa significa la trasparenza se sei essenzialmente un recipiente in attesa di essere riempito ancora e ancora e ancora? Una parte del fascino istintivo suscitato dagli attori deriva dall’atteggiamento carico di energia che continuano a vendere, e che maschera ciò che sono in realtà. Se ti capita di conoscere intimamente un attore puoi avere accesso oppure no al suo io piú autentico, tuttavia in pubblico quell’aspetto lo vedrai di rado, perché lí l’attore recita sempre una parte. Ma la maggior parte di noi oggi conduce sui social una vita che è piú fondata sulla finzione di quanto non fossimo in grado di immaginare anche solo una decina di anni fa, e grazie al germogliare di questo culto della popolarità in un certo senso siamo diventati tutti degli attori. Abbiamo dovuto ripensare i modi in cui esprimere i nostri sentimenti e i nostri pensieri e le nostre idee e opinioni nel vuoto creato da una cultura delle corporation che ancora e sempre cerca di ridurci al silenzio risucchiando tutto ciò che resta di umano e contraddittorio e vero attraverso regole prestabilite che dicono come ci si deve comportare. Sembriamo aver fatto pericolosamente ingresso in un tipo di totalitarismo che in realtà aborre la libertà di opinione e punisce chi si rivela per quello che è davvero. In altre parole: il sogno di ogni attore.

Nel maggio del 1985 venne pubblicato Meno di zero, e anche se non divenne un best seller fino all’autunno, se ne parlò in certi circoli letterari e non trascorse molto tempo prima che alcune testate cominciassero a chiedermi – a me, al terzo anno al Bennington College – di scrivere articoli per loro. Una delle prime fu «Vanity Fair», la cui direttrice mi convocò a New York a luglio mentre ero in Vermont a seguire il corso estivo di scrittura creativa del Bennington. Presi il treno fino a Manhattan e arrivai, abbastanza nervoso, al bar dell’Algonquin per incontrare la donna che aveva rivitalizzato «Vanity Fair» facendola tornare ancora una volta la rivista piú eccitante sulla piazza. Mi sedetti di fronte a lei e mi sentii immediatamente a disagio: Tina Brown era affabile, minuta, aveva un’aria seria che trasudava britannica formalità, ed era capace di squadrarti con l’intensità di un raggio laser. Trovai la sua calma intimorente, cosí da quell’arruffato ventunenne con i postumi della sbronza che ero ordinai per calmarmi un Greyhound a base di vodka e succo di pompelmo a mezzogiorno. Lei voleva sapere di che cosa mi sarebbe piaciuto scrivere, e io mi strinsi nelle spalle perché non ne avevo assolutamente idea. Non ero nemmeno sicuro di voler scrivere un articolo per la rivista, e a un certo punto glielo dissi. Ma lei insistette, anche coi silenzi. I silenzi di Tina erano sempre pieni di significati che non mi riusciva di decifrare, e a lei non sembrava importare quanto tempo durassero. Ne ricordo uno particolarmente lungo che andò avanti per diversi minuti quando alla fine degli anni Novanta ci trovammo per colazione al Royalton, e lei voleva che scrivessi, per il «New Yorker», di cui era diventata direttrice, un pezzo su Axl Rose, che in quel momento viveva da recluso. (Io feci resistenza). A quel punto mi ci ero abituato, ma all’Algonquin, un decennio prima, continuavo ad agitarmi sulla sedia a disagio. E poi lei se ne venne fuori col Brat Pack, cosí com’era stato appena battezzato in un recente articolo sulla rivista «New York».

– C’è un attore del Brat Pack di cui ti piacerebbe scrivere? – mi chiese Tina. Io mi strinsi nelle spalle. – Che ne diresti di Judd Nelson? – mi propose pacatamente. St. Elmo’s Fire era uscito poche settimane prima e quella primavera avevo visto Breakfast Club. – Già, perché no… – A quel punto toccò a me restare in silenzio. Lei guardò qualcosa sul tavolo, poi di nuovo me. – È un tipo piuttosto irritante, non trovi? – Feci un gesto privo di significato con le mani. – Già, immagino… – Io lo trovo piuttosto irritante, – ripeté lei, e poi mi chiese: – Tu no? – Io non avevo mai incontrato Judd Nelson e glielo dissi. – Mi dà l’aria di essere un tipo alquanto odioso, – insistette lei. – Potrebbe venir fuori una bella accoppiata, tu che scrivi un ritratto di Judd –. Qualcosa sembrò aleggiare nel bar dell’Algonquin quel pomeriggio d’estate: lei aveva iniziato a circuirmi e io stavo guardando le cose coi suoi occhi, e ben presto iniziai ad annuire. – Già, già, in effetti sembra un tipo abbastanza odioso, – le dissi. – Ha ragione –. Tina allora mi chiese quando sarei tornato a L.A. e mi disse che sperava di avere il mio pezzo in tempo per il numero su Los Angeles di «Vanity Fair», che sarebbe uscito in ottobre. Le dissi che sarei tornato a L.A. in agosto al termine del corso, e lei mi rispose che si sarebbe presa cura di tutti gli accordi necessari. Lasciai l’hotel come stordito, preoccupato per il fatto di aver avventatamente accettato un incarico che alla fine in un modo o nell’altro non l’avrebbe soddisfatta. Sembrava una tipa cosí precisa e la rivista stessa era cosí incredibilmente glamour per la mia sensibilità di studente universitario, e poi volevo davvero scrivere un pezzo al vetriolo su un attore? Ma piú tardi quel pomeriggio scoprii attraverso la mia agente quanto mi avrebbero pagato e rimasi sbalordito – «Un mucchio di soldi, cazzo», sintetizzò lei – e rispetto a quest’epoca digitale in cui tutti scrivono fondamentalmente gratis, mi sembra una cifra ancora piú sbalorditiva. E fu cosí che scattò il piano: avrei incontrato l’attore Judd Nelson, l’avrei trovato tremendo, e avrei scritto di come fosse stato terribile averci a che fare.

Piú tardi capii – al bar non avevo collegato le cose – che naturalmente Tina aveva letto l’articolo del «New York» sul Brat Pack. Erano anni che non si discuteva cosí di un articolo di giornale sulle celebrità. La rivista aveva spedito David Blum a Los Angeles per scrivere un profilo di Emilio Estevez, probabilmente il piú famoso tra gli attori del recente St. Elmo’s Fire di Joel Schumacher, e quello che era stato lanciato come il tipico articolo semipubblicitario si era presto trasformato in un caustico ritratto diventato in breve motivo di scandalo. L’errore di Estevez era stato invitare il giornalista a seguirlo in giro per Los Angeles, permettendogli di osservare che cosa combinavano le giovani stelle del cinema durante le loro serate mondane. Era tutta roba abbastanza innocente: non uno che tirasse di coca o che si sbattesse una puttana, solo Emilio che usava il suo nuovo status per saltare la coda nei club ed entrare gratis al cinema, ma il tono dell’autore faceva sembrare tutti i personaggi del pezzo, qualsiasi cosa facessero o dicessero, arroganti e fastidiosi. La sua pecca maggiore – e la ragione per cui non riesco a spiegarmi il perché abbia avuto tanto peso nell’ambito della cultura pop per oltre tre decadi – è che a parte Estevez le uniche due celebrità a malapena presenti erano Rob Lowe e Judd Nelson, su cui Blum riversava la maggior parte della sua collera. Faceva una comparsata Timothy Hutton, ma lui non ha mai fatto parte del Brat Pack; era diventato una star cinque anni prima e aveva già vinto un Oscar. Tuttavia Blum aveva messo nello stesso calderone tutti gli attori dell’epoca, inclusi Tom Cruise, Matt Dillon, Matthew Broderick, Matthew Modine e Nic Cage. E cosí prende il via un curioso studio sulle patologie giornalistiche: un reporter maschio abbastanza giovane (Blum allora era probabilmente sulla trentina) che sembrava schiumare rabbia nei confronti della bellezza e della fortuna di quei nuovi giovani attori, e dunque trasformava le loro serate giovanili – trascorse a bere Corona all’Hard Rock Cafe, e a godersi l’attenzione di ragazze a caccia di star – in un qualcosa di quasi maligno.

Considerato il ruolo interpretato da Nelson in Breakfast Club e in St. Elmo’s Fire, oltre che in un film pressoché ignorato in cui mi ero imbattuto in precedenza quell’anno intitolato Fandango, e dato che a quel punto avevo letto il pezzo sul Brat Pack del «New York», non sapevo bene chi stavo andando a incontrare, e siccome avevo ceduto alle lusinghe e all’influenza di Tina Brown, mi aspettavo di detestarlo. Ma Judd non aveva nulla in comune con il ringhioso John Bender di Breakfast Club o con Alec, lo yuppie arrogante di St. Elmo’s Fire, o con qualsiasi cosa avessi subodorato in quel sarcastico ritratto uscito sull’altra rivista – era brillante, divertente, diretto, simpatico. E visto che ci trovavamo cosí bene decisi, mentre ce ne stavamo seduti da Carney’s su Sunset Boulevard il pomeriggio del nostro incontro nell’agosto del 1985, di confidargli il tipo di pezzo che la mia committente si era immaginata, e che cosa probabilmente si aspettava che le consegnassi. Judd ci pensò su, e parlammo e riparlammo di come affrontare il problema, e della scorrettezza del tutto, che fosse vero o si trattasse di una mia supposizione, e infine ci venne in mente un’alternativa. Anziché un ritratto di Judd Nelson proponemmo a «Vanity Fair» un pezzo sui luoghi davvero frequentati dalle giovani stelle di Hollywood – non Spago e il Roxy, ma quei posti segreti dove va in realtà la gente figa del giro giusto. Ci immaginammo anche il titolo: A caccia di posti stilosi a L.A. Quando buttai lí il taglio del pezzo al magazine piacque tantissimo, al punto che decisero di coinvolgere nella squadra il giovane e prestante Bradford Branson perché fotografasse i posti che Judd e io avevamo deciso di spacciare per i piú fighi di L.A. Quello che non feci sapere a «Vanity Fair» fu che i luoghi che Judd e io avremmo incensato erano in realtà alcuni dei piú decadenti e fuori moda nei sobborghi di Los Angeles – posti che i veri giovani snob di Hollywood avrebbero non solo evitato ma che probabilmente non avevano mai sentito nemmeno nominare.

Dov’è che preferiva mangiare la fauna piú giovane e figa di L.A.? Da Philippe: celebre per le sue baguette ripiene di roast beef, una banale caffetteria all’angolo tra Alameda e North Main. Come proposta culturale: il Museo della Neon Art. Il locale piú cool per un aperitivo? Il bar dell’Hilton di downtown in un tratto particolarmente marcio di Wilshire Boulevard. E poi c’era il totalmente inventato Bud Club – un leggendario spaccio itinerante che poteva magicamente materializzarsi dovunque tra Glendale e l’oscura e deserta Venice, talmente esclusivo che pareva facesse impazzire la gioventú dorata. Posti qualsiasi, da un locale retrò tipo Ben Frank a un chiromante cinese sperduto ai confini di Pasadena, divennero i falsi luoghi di ritrovo della giovane élite di L.A. – e Judd e io li facemmo passare per veri, posando in ciascuno di essi in abiti neri e cravatte sottili e Ray-Ban per le foto che Brandon scattò in uno scintillante bianco e nero. Per essere certi che alla rivista nessuno s’insospettisse includemmo una manciata di posti effettivamente trendy: Powertools, il Ritz Cafe, Chianti Cucina, Dirt Box. In definitiva, entrambi sentimmo di averla scampata bella – io per il fatto di aver prodotto qualcosa di bizzarro e meno banale rispetto a quello che poteva essere un ritratto su commissione, e Judd per essere uscito illeso dall’incontro con un giornalista che avrebbe potuto giocare sporco. Il pezzo uscí nel numero di novembre 1985, coi nostri nomi sparati in copertina e sovrapposti all’immagine in cui Sylvester Stallone posava con Brigitte Nielsen. Ricordo di aver aperto quel numero mentre in veste di studente all’ultimo anno del Bennington College andavo in bus dal campus in città, sentendomi allo stesso tempo felicissimo e preoccupato per quello che Judd e io avevamo combinato, e non ci volle molto perché mi giungesse all’orecchio che a «Vanity Fair» avevano scoperto il nostro misfatto, e comprensibilmente sotto il regno di Tina Brown non mi proposero piú di scrivere alcunché. Ironia volle che alcuni dei posti da noi prematuramente incensati divennero sul serio di moda almeno per un po’, grazie a quell’articolo, e oggi questo mi sembra un promemoria di quanto fossero potenti «Vanity Fair», la giovinezza, e gli anni Ottanta.

Simon & Schuster annunciò la prima tiratura di 5000 copie di Meno di zero, nella speranza di venderne magari la metà. Nella primavera del 1985, sinceramente non me ne fregava di quante copie avrebbe venduto – ero solo sbalordito dal fatto che quel libro fosse addirittura stato pubblicato, che qualcosa a cui avevo lavorato per cinque anni fosse diventato un vero libro con la copertina rigida venduto in vere librerie. Nell’ormai defunto Impero americano a un romanzo occorreva molto piú tempo rispetto a oggi prima di essere intercettato da quello che all’epoca era un ben piú consistente pubblico di lettori, ma anche solo ai libri fisici per arrivare nelle librerie, che erano i luoghi in cui tutti noi andavamo ad acquistarli. Potevamo passarci le ore a curiosare tra i corridoi, uno dei miei passatempi preferiti oggi quasi impossibile da riprodurre, visto che in cosí tanti siamo stati allontanati dai negozi tradizionali dalla comodità di Amazon, e dalla sua promessa di recapitarti una copia del libro il giorno stesso in cui viene pubblicato. Le cose non funzionavano cosí nel maggio 1985, quando il primo romanzo di uno scrittore di cui nessuno aveva mai sentito parlare lasciava un magazzino e poco per volta veniva distribuito e messo in vendita nel resto del Paese impiegando tutta l’estate e perfino parte dell’autunno. E fu solo nel mese di ottobre che il romanzo comparve nella classifica dei libri piú venduti del «New York Times». Anche se non fu un vero best seller, per essere un romanzo d’esordio vendette bene diventando un successo grazie a un autentico passaparola, visto che all’inizio Simon & Schuster non aveva messo a budget nemmeno un dollaro per la promozione e la pubblicità.

Ma i media, quasi subito, si incuriosirono e cominciarono a scrivere sia del libro sia dell’autore, e – per una qualche ragione imprecisata – presto Meno di zero iniziò a entrare in contatto con un pubblico vasto e giovane che si rispecchiava nel suo stile e nella sua sensibilità. Il romanzo sembrava confermare qualcosa a un mucchio di gente, come se si trattasse di un bollettino dalla prima linea del fronte – ecco come sono i ragazzi d’oggi! – anziché di un romanzo molto personale a cui avevo lavorato, in un modo o nell’altro, da quando avevo sedici anni. Ma quando infine l’avevo terminato, ventenne, quel libro mi era sembrato davvero una sorta di riflessione sul momento in cui ci trovavamo e non semplicemente una storia autobiografica – il protagonista era allo stesso tempo sia me sia un altro da me. O forse la sua vera attrattiva risiedeva nella magia che conteneva per i lettori che vivevano a migliaia di chilometri di distanza dalla California del Sud: com’era davvero vivere in quella Beverly Hills immaginaria che per loro era cosí cool? Spesso era questo, scoprii nelle lettere che mi scrivevano i fan, ciò che colpiva i giovani lettori dell’Indiana, del Regno Unito, di Nuova Delhi.

La nostra guida in Meno di zero è il pallido e attraente Clay – diciottenne, passivo, strafatto, bisex. Un ragazzo profondamente disconnesso da quasi tutti: dalla famiglia; dalla fidanzata, Blair; e dagli amici, tra cui Julian, che si prostituisce con uomini adulti per saldare un debito di droga. Non c’è una vera trama fino a tre quarti del libro; la storia viene raccontata in modo frammentario, come un mosaico; e i dettagli si accumulano creando, si spera, una sensazione di minaccia incombente. Non c’è amore, e non c’è vera amicizia: i soldi, il sesso tra adolescenti e la facilità di accesso alle droghe spalancano la porta su una specie di nichilismo glamour. «Sparire Qui» suggerisce di continuo il libro, citando un cartellone di Sunset Boulevard che perseguita Clay. In parte il fascino esercitato dal libro sui giovani lettori poteva derivare dal fatto che in precedenza non erano mai stati rappresentati a quel modo dalla narrativa contemporanea americana: come degli adolescenti sofisticati che scimmiottavano gli usi e costumi dei loro genitori, baby boomer materialisti e narcisisti. Ma Meno di zero non dà colpe ai genitori. E in realtà è ancora piuttosto raro che il romanzo di un giovane rappresenti dei ragazzi che sono tanto negativi quanto i loro genitori, se non peggio. Nella maggior parte dei casi i genitori vengono demonizzati, mentre in Meno di zero compaiono a malapena. Sono quegli stessi ragazzi che lasciati a loro stessi si sono inoltrati in questo mondo fatto di troppi soldi, troppe droghe e troppi privilegi a essere i peggiori nemici di se stessi. Il romanzo inoltre riflette l’intorpidimento di tutta la società, specie a Los Angeles, quando iniziai a scriverlo nel 1980 – un intorpidimento che era eccitante ma che impediva di comprendere se stessi, e anche di provare autentiche emozioni.

I diritti cinematografici vennero opzionati prima della pubblicazione da un produttore indipendente, Marvin Worth (Lenny, The Rose), che aveva un accordo con la 20th Century Fox, la casa che avrebbe finanziato il film. L’acquisizione era sponsorizzata da Scott Rudin e Larry Mark, che erano i vicepresidenti di produzione sotto Barry Diller che, all’epoca, presiedeva la major – tutti e tre desideravano realizzare il film. Una prima sceneggiatura venne scritta dal drammaturgo Premio Pulitzer Michael Cristofer, ma la Fox ritenne che fosse troppo dura per una pellicola «commerciale» e già a quel punto si arrivò a una scissione tra il romanzo e il suo adattamento. Perché mai comprare i diritti di Meno di zero se non si era intenzionati ad accettare lo spirito del libro? Dato che il romanzo era diventato rapidamente un punto di riferimento per i giovani, forse la casa di produzione avrebbe potuto cavalcare l’onda e fare un po’ di soldi adattando fedelmente quello che nel frattempo era già diventato un titolo assai popolare. Ma non si stava parlando di una certezza – al contrario di Colpa delle stelle, Meno di zero non aveva venduto diciotto milioni di copie – e in ogni caso non sarebbe mai diventato un prodotto per famiglie. Se la Fox intendeva produrre una trasposizione onesta del libro, doveva andare fino in fondo, perché una versione edulcorata non avrebbe mai funzionato: non sarebbe stata la cosa che aveva attirato i lettori, ossia la sua fredda insensibilità.

La Fox coinvolse Jon Avnet, che aveva prodotto con profitto Risky Business. Fuori i vecchi… i figli ballano, un grande successo ambientato tra gli adolescenti benestanti che aveva fatto diventare una stella Tom Cruise, ma Avnet trovò la sceneggiatura di Michael Cristofer «deprimente e svilente» e a quel punto ci fu da chiedersi se Avnet avesse mai letto il libro, perché adesso voleva «trasformare una situazione assai estrema in una storia sentimentale sul calore, l’affetto e la tenerezza in un ambiente ostile a questo tipo di emozioni». Larry Gordon, il presidente della Fox nel momento in cui il libro era stato comprato, era stato sostituito da Leonard Goldberg, che, al contrario degli altri boss della major, era un padre di famiglia e trovò il tutto disgustoso, ma Barry Diller insistette nel voler vedere realizzato il film. Avevano solo bisogno di trovarsi sulla stessa lunghezza d’onda e capire come farlo. Lo sceneggiatore Harley Peyton venne messo sotto contratto per stendere un nuovo script in cui venivano eliminate la bisessualità e la tossicodipendenza di Clay in una storia che non lo presentava piú come passivo e «amorale», ma ciò nonostante i boss della casa di produzione erano preoccupati che si trattasse di un’ipotesi ancora troppo audace per otto milioni di dollari, che non erano una grande cifra per un film hollywoodiano negli anni Ottanta. Erano convinti, però, di aver trovato il regista giusto: Marek Kanievska, un inglese, che venne ingaggiato perché aveva già avuto a che fare con l’ambiguità sessuale e aveva reso attraenti personaggi «sgradevoli» nel film Another Country, con Rupert Everett in un ruolo vagamente ispirato a Guy Burgess, la celebre spia (gay).

Cosí iniziarono le riprese, ma alla fine la Fox sfilò il film a Kanievska perché, stando a chi era presente sul set, continuava a girarlo in modo troppo audace e troppo vicino allo spirito del materiale originario. Il direttore della fotografia Edward Lachman in seguito ha ricordato che le sue incredibili riprese con la steadicam di un concerto in un club degli (allora sconosciuti) Red Hot Chili Peppers vennero rifiutate dalla produzione perché la band era «seminuda e sudata», e gli venne chiesto di eliminarle. E tuttavia le prime prove di proiezione di fronte a platee di età compresa tra i quindici e i ventun anni rivelarono che gli spettatori detestavano il protagonista interpretato da Robert Downey Jr., perciò vennero girate nuove scene perché il suo personaggio risultasse piú «gradevole» e «pentito» – questa fu la parola usata dalla produzione: «pentito». La sontuosa scena iniziale del diploma con cui si apre il film faceva parte del nuovo materiale, e ora conteneva un mucchio di sorrisi e di vibrazioni positive oltre a bottiglie di champagne che venivano stappate.

A causa di tutto questo panico e di questi conflitti, nel prodotto finale c’è qualcosa che non va: non funziona da un punto di vista narrativo. All’inizio del film, nelle scene che precedono i titoli di testa, ci sono già degli espedienti che da subito ingolfano la pellicola: espressioni di intensa emozione da parte dei personaggi principali che nel libro non compaiono, come se ciascuno si sforzasse di risultare gradevole. Clay e Julian e Blair ora sono una squadra, e si diplomano felicemente in un giorno di sole guardando con grandi aspettative all’estate che sta arrivando e a ciò che verrà dopo. In una serie di flashback, Clay ricorda questi fatti dalla stanza esageratamente chic che occupa in uno studentato da qualche parte sulla Costa est, e sembra che lui e Julian siano amici per la pelle, e Blair la sua scopamica. Julian è rimasto a L.A. per intraprendere la carriera di produttore musicale e pierre di club, e Blair vuole concentrarsi sulla carriera di modella anziché andare al college. (Nel libro Blair frequenta la University of Southern California). Nel film, durante il primo semestre di Clay, Julian diventa superdipendente dalla droga, e lui e Blair finiscono a letto assieme. Clay lo scopre quando torna di sorpresa a L.A. in occasione delle vacanze per il Giorno del Ringraziamento, trovando i due a letto nel bellissimo loft di Blair a downtown. E cosí, ecco servito il triangolo amoroso. Una struttura narrativa convenzionale è stata imposta a un libro in cui una struttura narrativa non esiste, di modo che da lí in avanti la cosa va risolta, perché il film – ancora prima dei titoli di testa – ha messo in moto questo specifico meccanismo.

Clay ora incarna la rettitudine: contrario alle droghe, risolutamente etero e incline a rimbrottare gli altri per come si comportano, insomma lo stereotipo della madre ebrea. Il Clay del libro che se ne frega di tutto o fa finta di fregarsene è diventato il protagonista bacchettone della pellicola. Questa scelta sta stretta a un Andrew McCarthy dall’aria impanicata, che intanto era già diventato l’interprete privilegiato dello stoicismo e della disperazione morale della Generazione X, e la sua presenza qui è un controsenso, nei panni di un cosí bravo ragazzo preppy e edulcorato. (La mia prima scelta per Clay era stata Anthony Michael Hall, che lo studio aveva rifiutato tanto quanto la mia prima scelta come regista, Walter Hill). Downey ce la mette tutta per fare di Julian, lo sfuggente nichilista del romanzo, un personaggio sperduto e tenero, e la smaliziata, viziata e tosta Blair del libro, consapevole di come tutto sia una fregatura e un disastro, diventa la sovreccitata e imbelle Jami Gertz, lacrimosa e seria e totalmente fuori parte. La presunta «passione» tra McCarthy e Gertz (che nel libro non c’è) è particolarmente poco credibile, anche se pomiciano di continuo e devono simulare di far sesso un paio di volte. C’è perfino una scena in cui McCarthy deve fingere un orgasmo quando Gertz gli fa una sega nella sua Corvette decappottabile vintage che sgomma in Rodeo Drive, mentre una gang di motociclisti li supera. La sequenza dei titoli di testa, con quei caratteri cubitali rosso neon e la cover delle Bangles di Hazy Shade of Winter, resta abbastanza emblematica, ma vedere Clay che sorride quando riconosce luoghi a lui familiari (l’Hard Rock Cafe, e, stranamente, la boutique Giorgio a Beverly Hills) una volta tornato a L.A. per le vacanze di Natale, allungando il collo dal finestrino del taxi per vedere meglio, è decisamente bizzarro, perché è stato lí appena tre settimane prima eppure sembra che non provi alcuna apprensione nel ritornare nella città dov’è cresciuto e dove ora lo attendono nuovi grossi problemi visto che ha scoperto che il suo migliore amico e la sua ragazza fanno coppia – guardare con aria felice quei posti non ha senso. Niente di tutto questo proviene dal libro, dove non credo ci sia neppure una sola scena in cui Julian e Blair sono assieme nella stessa stanza.

È Edward Lachman alla fine a ricoprire il ruolo di artista creativo principale in Meno di zero – il film è girato magnificamente e la fotografia è splendida. Dal punto di vista delle immagini, la pellicola è spesso sorprendentemente bella, per come fa risaltare i grandi spazi aperti che evocano la solitudine di L.A., e i set sono spettacolari; c’è una festa di Natale esagerata a Beverly Hills con tanto di neve finta e centinaia di comparse (una di queste è Brad Pitt), e finti iceberg costellati di telecamere e giganteschi alberi di Natale spruzzati di bianco, il tutto a indicare che si tratta apparentemente di un film sulla cocaina, e la sua grandeur ti ricorda che questo tipo di film non verrà mai piú girato con mezzi tanto sontuosi. Come reperto di quell’epoca resta ineguagliato: nessun altro film sulla cultura giovanile ambientato a L.A. ha uno stile altrettanto epico, specie se lo si paragona alla Ragazza di San Diego o a Fuori di testa (che comunque sono entrambi migliori di questo). Eppure non funziona perché tradisce la fonte originaria e prende il nichilismo punk che permeava il libro per spremerlo e cavarne fuori un grande film mainstream hollywoodiano per teenager – un film sull’«amicizia» e con decisamente troppi sorrisi: sorrisi strappalacrime, sorrisi sexy, sorrisi tristi e felici – cosa che crea un’esperienza incredibilmente zoppicante. La serietà e l’impegno con cui pretende di risultare un film piacevole e ad alto tasso di «relazionabilità», in cui cioè ci si può entrare in relazione facilmente, è ciò che in definitiva lo ammazza.

Una settimana prima dell’uscita del film, e ad appena pochi giorni dalla data in cui avevo programmato di vederlo negli uffici della Fox a Manhattan, Marek Kanievska mi chiamò per dirmi che aveva bisogno di incontrarmi. Non ci eravamo mai incrociati ma ero molto amico di una donna che aveva avuto una storia con lui durante la postproduzione e che mi aveva accennato i problemi che erano sorti tra Marek e la Fox, perciò mi ero fatto un’idea delle difficoltà che aveva incontrato. Mi diede appuntamento per le sei da Nell’s, un locale notturno assai in voga che frequentavo all’epoca anche se dubitavo che Nell’s aprisse cosí presto e scoprii invece che sí, apriva, in un certo senso. C’erano solo Marek e la sua ragazza seduti in un séparé all’interno di quello spazio altrimenti buio e deserto, e allora mi resi conto che il club era stato aperto appositamente per lui – era amico degli attori del Brit Pack che erano proprietari di Nell’s e lo gestivano – e anche che non vi avevo mai messo piede prima di mezzanotte. Mi resi anche conto che non avevo piú sentito nulla di preciso sul film perché essendomi laureato appena un anno prima mi ero trasferito solo di recente a New York, e dato che stavo lavorando a un nuovo romanzo avevo altre cose a cui pensare. Avevo giusto dato un’occhiata alla sceneggiatura di Michael Cristofer ma non avevo mai letto la stesura di Harley Peyton.

Quando mi sedetti Marek era stravaccato nel séparé, già ubriaco. Il mio iniziale sorriso mi si raggelò non appena attaccò a parlare: – Mi spiace da morire per com’è venuto il film. Ce l’ho messa tutta, ho combattuto vere battaglie, ma ho perso. Mi spiace davvero tanto –. Ed è per questo che piú tardi, quella settimana, ero preparato, quando vidi il film in una sala di proiezione stipata anche delle persone che avevo invitato, amici, gente di Mtv, i vj del momento, diversi attori di mia conoscenza. Non ci volle molto perché capissi che qualcosa era andato storto, e perché presto la mia eccitazione all’idea di vedere sullo schermo il mondo che avevo raccontato evaporasse. Mentre il film procedeva lentamente verso la fine, mi resi conto che non conteneva una singola scena o una battuta di dialogo che fosse stata presa dal libro. Marek Kanievska non diresse un’altra pellicola se non dopo tredici anni. Per uno strano caso, quel suo nuovo film – Per amore… dei soldi, con Paul Newman – e American Psycho uscirono nel 2000 la stessa settimana, e American Psycho lo batté al botteghino.

In un’introduzione inedita alla sua autobiografia del 1964, Charlie Chaplin scrisse: «In questo memoir vi dirò solo ciò che voglio dirvi, perché esiste una linea di demarcazione tra un artista e il suo pubblico. Se divulgassi in pubblico certe cose, non avrei piú nulla in grado di tenere assieme il mio corpo e la mia anima, e la mia personalità sparirebbe come le acque dei fiumi che si disperdono nel mare». Ho pensato a questa citazione di recente, dopo aver ospitato Judd Nelson in un podcast che ho tenuto saltuariamente tra l’autunno del 2013 e la primavera inoltrata del 2017, perché mi sembrava riassumere alla perfezione qualcosa che avevo intuito dopo aver parlato con un mucchio di attori per quel programma su PodcastOne. Non vedevo Judd da quasi venticinque anni quando gli chiesi di intervenire, con il pretesto di parlare del trentesimo anniversario di Breakfast Club ma in realtà anche perché ricordavo come in quei giorni fosse stato intelligente e aperto e del tutto realistico riguardo a Hollywood; in particolare, mi aveva raccontato storie divertentissime sulla travagliata realizzazione di St. Elmo’s Fire. Nelson non assomigliava affatto al suo personaggio in Breakfast Club, John Bender – anzi, ne era l’esatto opposto. Nella vita reale era piú simile a una versione maschile della Claire Standish interpretata da Molly Ringwald, e se vi sembra la definizione di una persona perbene e poco interessante, be’, lui non lo era. Quello era il Judd privato con cui avevo trascorso un po’ di tempo all’apice della sua breve fama, e quando lo accolsi, ormai ultracinquantenne, nello studio dove registravo i miei podcast a Beverly Hills, non mi stupii del fatto che sembrava essersi rilassato. Ma la persona reale che mi aspettavo facesse un’ottima figura nel podcast non si materializzò mai davvero di fronte al microfono.

Il Judd devastato e divertente esisteva ancora, ma non necessariamente in pubblico. In studio, quando gli chiesi quanto in realtà fosse stato complicato girare St. Elmo’s Fire, lui esitò e rispose in modo diplomatico nonostante si trattasse di cose accadute piú di trent’anni prima e ormai le carriere di tutti fossero iniziate e finite, e allora compresi che stava recitando – voleva piacere, voleva vendersi – e che se mai avesse detto qualcosa di critico o negativo non sarebbe stato di aiuto alla sua causa. La sola critica spontanea che fece durante quell’ora, in effetti, fu nei confronti del giornalista che lo aveva fatto a pezzi su quel numero del «New York» nel pezzo sul Brat Pack pubblicato trent’anni prima. Eppure dopo la registrazione del podcast mentre ce ne stavamo a chiacchierare nel garage di PodcastOne Judd si mise a condividere con me e col mio produttore le famose storie sulla realizzazione di St. Elmo’s Fire. Lo interruppi per chiedergli come mai non avesse minimamente accennato a nulla di tutto ciò nel corso del programma quando lo avevo sollecitato prima gentilmente e poi un po’ meno salvo fermarmi nell’istante in cui mi era stato chiaro che proprio non ne voleva sapere di spingersi oltre. Quando avevamo messo in scaletta la sua apparizione avevo assicurato Judd che non si trattava di un podcast trash e scandalistico e che non eravamo a caccia o drogati di polemiche, ma dopo la registrazione lui spiegò che non amava spacciare pettegolezzi.

Lí in quel garage gli chiesi chi esattamente avrebbe potuto offendersi: il regista alquanto stravagante di St. Elmo’s Fire, Joel Schumacher? O meglio Jo-elle Sciu-ma-scé, come ricordavo di averlo sentito chiamare da alcuni membri del cast quando ci si frequentava nell’estate del 1985? Le storie sulla tossicodipendenza di Demi Moore erano già note – poteva essere davvero quello il problema? Ma Judd giudicava quel tipo di verità negativamente. C’erano comunque altri temi che non avevamo toccato durante quell’ora, e lui si disse disposto a tornare per registrare un altro po’ di materiale che poi avremmo potuto editare e inserire nell’episodio prima di postarlo. Gli mandai un’e-mail piú tardi quel giorno stesso per ribadire l’invito, proponendogli alcune date in cui lo studio di registrazione era libero, ma solo se lui fosse stato piú onesto e trasparente. In caso contrario, perché avremmo dovuto rivederci? Gli scrissi tutto questo con un tono semischerzoso, complice, ma da allora Judd non l’ho piú sentito, e dire che abita un po’ piú su nella mia stessa via. La mia ingenuità nell’aspettarmi che lui approfittasse di questa incredibile occasione era parte di una storia ricorrente con tutti gli attori che intervistavo per il podcast; e questo come al solito mi fece sentire sciocco e smarrito. Ma era un mio problema, naturalmente.

Quanto accaduto con Judd Nelson non è stato necessariamente una sorpresa. Nel podcast, gli attori avevano la tendenza a presentare se stessi molto diversamente rispetto ai registi, agli scrittori o ai comici. Lo schivo botta e risposta in cui spesso ci infilavamo poteva risultare avvincente, ma da conduttore mi spingeva a chiedermi: con chi sto parlando? Una persona «reale» che casualmente era un attore, oppure un replicante o un pupazzo? La mia esperienza con Judd non era poi cosí diversa dalla registrazione con Molly Ringwald, fatta in precedenza sempre quell’anno, benché ci conoscessimo dal 1991, ossia da quando lei si era messa con un mio amico, e fossimo rimasti in contatto dopo che si erano lasciati. Lei accettò il mio invito a comparire nel podcast, anche se a posteriori non sono davvero certo di quali fossero le sue aspettative. Volevo farle fare bella figura, come mi accade con tutti gli ospiti, e tirai fuori cinque o sei spunti a cui sapevo lei avrebbe potuto agganciarsi, spiegando ciò che sentiva e la sua posizione in merito. E dato che sapevo quanto potesse essere dura e assertiva quando discuteva di Hollywood e della sua carriera in privato, avrei voluto farla sentire abbastanza a suo agio da aprirsi anche in pubblico. Ma pochi giorni dopo la registrazione del podcast, mi venne detto che si era offesa per alcuni dei tasti che avevo toccato: si era mai accorta che John Hughes provava attrazione sessuale nei suoi confronti? Qual era stata la vera natura della sua relazione con Warren Beatty all’epoca in cui era una teenager? Come aveva reagito all’uso di droga da parte di Robert Downey Jr. durante le riprese di Ehi… ci stai?

Alla fine, mi contattò per chiedermi di discutere di tutto questo una sera a cena. Ci incontrammo in un lussuoso ristorante italiano di West Hollywood, in cui Molly mi comunicò che per lei si era trattato di un’imboscata, che non aveva avuto il controllo della situazione e che si era sentita usata. Riteneva che alcuni degli spunti che avevo adoperato l’avevano messa in una posizione imbarazzante – erano cose di cui non avrebbe mai voluto parlare in pubblico, malgrado, le ricordai, mentre registravamo il podcast avesse ammesso candidamente che qualcuno a cui non era piaciuto un suo innocuo post l’aveva definita «troia» su Twitter – ed era stato in quel momento che aveva deciso di abbandonare il social network. Dopo qualche bicchiere di vino ci rilassammo, e Molly mi disse che semplicemente non era in sintonia con il mio approccio e anche che stava scrivendo un memoir e non poteva permettersi di divulgare ogni cosa – doveva tenere in serbo almeno alcuni segreti. Quando due fan ci raggiunsero al tavolo e le chiesero di farsi un selfie con lei nel ristorante rumoroso e affollato, col traffico che rombava alle nostre spalle sulla congestionata Terza Strada, Molly rifiutò educatamente, perché si trattava di un momento privato.

La prima volta in assoluto che notai questa riluttanza degli attori a essere sinceri fu con James Van Der Beek, stranamente: un amico, ma anche uno con cui avevo lavorato a un progetto per la tv e che per giunta aveva recitato nelle Regole dell’attrazione, basato sul mio secondo romanzo. Desideravo registrare un podcast con James riguardo alla realizzazione di quel film e lui accettò entusiasta. Poi accennò al fatto che si era rotto le scatole del mondo del cinema e che aveva deciso di farla finita con quell’assurdità della recitazione (questo prima che la Cbs lo scritturasse in uno dei ruoli principali in CSI: Cyber) per concentrarsi esclusivamente sulla regia e la scrittura. Sentiva la necessità di denunciare in pubblico alcune cose in merito alla direzione che aveva preso Hollywood, e riguardo ai passi falsi della sua carriera – e lo fece, fino a un certo punto, ma in linea di massima del James risentito e ipercritico, deluso e incazzato che conoscevo non restò traccia sul podcast. Si dimostrò attento, rispettoso e, quando ebbe finito, si disse preoccupato di aver offeso qualcuno – forse non avrebbe dovuto permettersi quell’innocua divagazione su James Franco, vero? Quando io e il mio produttore lo rassicurammo, Van Der Beek ne fu visibilmente sollevato. Avrei dovuto sorprendermi che un attore mettesse in scena una versione di sé molto piú artefatta rispetto a un comune mortale? La versione che avrebbe voluto recitare davanti a un pubblico? No, non avrei dovuto sorprendermi perché la maggior parte di noi oggi è assai piú attenta riguardo al modo in cui si presenta rispetto a quanto non sia mai accaduto in passato. La battaglia che stavo combattendo con il mio podcast, mi resi conto, era contro le costrizioni del Nuovo Ordine Mondiale. E anche se questo ormai poteva essere il nuovo status quo, volevo comunque capire: che cazzo stavamo proteggendo tutti quanti? Piú tardi, sarei arrivato a capire: era la corporation.

Uno dei podcast piú tormentati che mi capitò di registrare fu quello con Jason Schwartzman. Prima che cominciassimo mi avvisò: in genere era una persona incline ad arrabbiarsi, perciò dovevo prepararmi nel caso decidesse di andare a briglia sciolta, solo che poi la prima volta che registrammo della sua rabbia non c’era traccia. Invece, dato che era stanco non avendo chiuso occhio tutta la notte a causa del figlio appena nato, Jason faticava a partecipare e spesso chiese di poter fare una pausa prima di tornare su una determinata domanda. E quando passammo alla seconda parte del podcast, mi sembrò di parlare molto piú del mio ospite. Quando l’ora a nostra disposizione terminò, Jason si scusò per il fatto di non essere nella giusta forma per la registrazione quel giorno e disse di sentirsi davvero dispiaciuto di aver dato a cosí tante mie domande soltanto risposte confuse e superficiali. Gli dissi che non ero d’accordo e che il podcast andava bene (inoltre dopo l’editing del mio produttore sarebbe risultato piú lineare) ma lui insistette per registrarlo nuovamente una settimana piú tardi, promettendo che sarebbe arrivato piú «preparato» – come se la questione fosse essere «preparati» anziché essere semplicemente se stessi. E cosí registrammo una seconda sessione e la editammo con l’altra mettendone assieme una sola che ci augurammo apparisse coerente. Tuttavia Jason non risultò mai arrabbiato – in realtà, un ascoltatore notò che aveva usato le parole «straordinaria» e «incredibile» trentotto volte per descrivere le persone con cui aveva lavorato nell’ultimo ventennio, e che aveva raccontato tutto con un tono deliziato e rispettoso, emanando vibrazioni positive. Di nuovo, era ingenuo da parte mia aspettarmi qualcosa di diverso da questa nuova prudenza e dall’ossessione di apparire amabili, entrambe ormai dominanti. Perfino la pornostar James Deen fu piú diplomatico nel parlare del comportamento dell’attrice che aveva recitato con lui in un film che avevamo fatto assieme (Lindsay Lohan in The Canyons) rispetto a quanto non avesse fatto in privato. Alla pari di Judd Nelson, aveva riservato l’unico momento di rabbia in pubblico per attaccare un giornalista, David Lipsky, che, a suo dire, aveva provato a diffamarlo.

Alla fine degli anni Ottanta, a New York, quando io e Tom Cruise abitavamo nello stesso edificio a downtown, lo vidi solo due volte – entrambe in ascensore. Questi brevi incontri furono alla base di una scena di American Psycho in cui Patrick Bateman sale in ascensore con Tom Cruise in un condominio dell’Upper West Side, e anche se si può argomentare che gran parte del romanzo corrisponde alle fantasie di un folle, il Tom Cruise che vi avevo inserito era assolutamente basato sulla realtà. Scrissi quella scena nel 1989, un anno prima che Cruise comparisse sulla copertina di «Rolling Stone» mentre usciva con un sorriso smagliante dalle acque del Pacifico. Cruise nel 1989 aveva appena ventisette anni (io ne avevo venticinque), ma era già una tale icona generazionale che da parte mia pensavo che inserirlo nel libro avrebbe garantito al romanzo una scarica di surreale autenticità. Nel luglio del 1990, l’estate di quella copertina di «Rolling Stone», Cruise stava entrando nella nuova fase del suo successo. Aveva già fatto tutte le cose necessarie per arrivare fin lí: far da spalla a due veterani (Paul Newman nel Colore dei soldi, Dustin Hoffman in Rain Man) aiutandoli a vincere degli Oscar; sopravvivere a un fiasco clamoroso (Legend), e a un film che era diventato un grande successo (Cocktail), la pellicola di cui Bateman e Cruise parlano in American Psycho, anche se Bateman pensa si intitoli Barista; e dimostrare di essere in grado di recitare in un ruolo sopra le righe e complicato in modo coraggioso e con grande libertà (Nato il quattro luglio). La copertina di «Rolling Stone» era uno scatto di Herb Ritts con una forte carica erotica, ovviamente, ma l’immagine di Cruise che emerge dalla spuma del mare suggeriva anche una rinascita, un nuovo inizio, ed era proprio quello a cui puntavo da parte mia dopo aver completato la stesura di American Psycho alla fine del 1989.

Nel film che stava promuovendo, Giorni di tuono, Cruise interpreta la parte del pilota da corsa Cole Trickle e introduce la pellicola con un concentrato di autoironia – corre su una motocicletta con tanto di occhiali da sole e un taglio di capelli anni Ottanta corto-sopra-lungo-dietro, schizzando fuori da un banco di nebbia mentre una batteria elettronica saluta il suo arrivo. Il film avrebbe dovuto essere una pubblicità per la Nascar, ma ciò che è bizzarro è che, nonostante quell’intensità che è il suo marchio di fabbrica, Cruise qui non ha alcun peso; non possiede né autorevolezza né fascino, eppure tutti si inchinano al suo cospetto e scattano immediatamente sull’attenti qualsiasi cosa dica o faccia, cosa che li fa sembrare una manica di pazzi. Il tutto è girato con la banalità di una pubblicità della Coca-Cola, e l’intera operazione fa pensare alla decadenza di un’epoca cinematografica ormai molto lontana. Cruise ha l’aria di un modello ma non si scioglie mai, resta cosí rigido che neppure Robert Towne – il leggendario sceneggiatore, qui al di sotto dei suoi standard – riesce a dargli un po’ di vita per mezzo di qualche scena buffa e alcune battute divertenti. Giorni di tuono non funzionò in quell’estate del 1990, e fu l’ultima volta in cui Cruise doveva dominare un film dall’inizio alla fine; è anche l’unica pellicola in cui compare tra gli autori. Nel 1990 eravamo ancora in un momento in cui pochi potevano prevedere che tipo di figura controversa Tom Cruise sarebbe diventato. Aveva un’aria cosí innocente e bianca e decisamente americana: l’ex seminarista di Syracuse, che aveva già sposato un’attrice piú vecchia da cui aveva divorziato, adesso era la piú grande stella del cinema a livello planetario, e sfoggiava gli addominali sulla copertina di «Rolling Stone» indossando una T-shirt bagnata.

Era un tipo enigmatico ma affabile – il suo ghigno non era ancora diventato duro come il granito, la risata da iena non era ancora cosí forzata o pronunciata e nessuno parlava ancora di Scientology. Appariva pieno di energia, eternamente giovane, ambizioso e privo di preoccupazioni. Era l’incarnazione vivente del sogno collettivo della sua epoca. Non sembrava possibile che quel ragazzo diventasse la meno aperta e piú riservata delle stelle del cinema – cosa che l’avrebbe reso, per un certo periodo, anche la piú affascinante. La sua circospezione (o insicurezza), quando si manifestò, poteva avere le origini piú disparate. Era dovuta all’assenza della figura paterna? (In una carriera che copre quasi quarant’anni Cruise ha interpretato il ruolo del padre solo tre volte, tra cui in Eyes Wide Shut, guarda caso un capolavoro). O era la dislessia? O le insinuazioni sul suo essere gay che non si è ancora scrollato di dosso? Non avendo risposte da lui, possiamo solo fare supposizioni. Per molti versi Cruise non si è mai liberato dell’immagine catturata da Ritts su quella spiaggia: l’istante in cui la nostra cultura ha equiparato l’immaturità a un’ambigua mascolinità. Di certo anche American Gigolo ha avuto un ruolo fondamentale in questo, e fotografi come Ritts e Bruce Weber hanno creato un «ideale» che da quel momento è risultato dominante nei media: entrambi resero il tipico ragazzo-copertina per teenager (e gay) ancora piú erotizzante rivestendolo di una patina vagamente artistica e ironica. Cruise è stato una delle prime stelle del cinema a incarnare questo modello e a dare il suo contributo perché durasse – probabilmente perché era il meno virile tra i grandi attori della sua generazione. Nonostante appartengano a due epoche totalmente diverse, paragonate il quarantatreenne Cruise della Guerra dei mondi al coetaneo Gene Hackman nella Conversazione.

Cruise non si è mai davvero lasciato alle spalle il personaggio del sexy-toy-boy-intellettuale interpretato in Risky Business, e dato che il tempo spesso cristallizza la circostanza in cui un attore diventa una stella, tutti noi conserveremo per sempre quell’immagine iniziale di lui nel nostro immaginario collettivo. Fu in quell’estate del 1990 che lui iniziò a rendersene conto, quando l’eccitazione svanisce ed è rimpiazzata dall’orribile consapevolezza che tu sei in realtà una cosa plasmata dagli umori del pubblico, e che la fama è un business? Cruise sembra felice su quella copertina di «Rolling Stone» – arrivava da un periodo straordinario, aveva appena incontrato la futura moglie Nicole Kidman – ma è quello il momento in cui comincia a pensare: Già, sono su una spiaggia e Herb Ritts mi sta fotografando, cosa che enfatizzerà la mia capacità di attrazione fisica, e lo scopo di tutto ciò è vendere un film della cui mediocrità sono coscienti tutti coloro che vi sono coinvolti? Magari è questa la ragione per cui tutto quello che Cruise è in grado di offrire qui è la sua bellezza adolescenziale. Non arriviamo a scoprire niente su di lui nell’articolo che accompagna quelle immagini, e forse è quello il momento in cui i pettegolezzi e le insinuazioni iniziano a girare sul suo conto. Rileggendo quel suo ritratto molti anni dopo, sono ancora sbalordito dal poco che viene rivelato – da come sembri tutto prefabbricato, da quanto Cruise sia ossessionato dal salvaguardare la sua immagine e la sua popolarità. E mi ritrovo a pensare a come potrei giocarmi diversamente oggi quella scena di American Psycho in ascensore. Un uomo altrettanto ossessionato dalle apparenze come Bateman sarebbe stato in grado di riconoscere uno spirito affine? Oppure – dopo averlo visto saltare sul divano di Oprah, fare predicozzi aggressivi al Today Show, dopo quella roba intitolata Vanilla Sky, il documentario Going Clear su Scientology e le relative accuse, i due divorzi e i «provini» per scegliere nuove mogli, La mummia – davvero Bateman non girerebbe in silenzio i tacchi, nella speranza di non essere notato?

Nel 2006 tornai a vivere a Los Angeles per lavorare a un adattamento di Acqua dal sole, una raccolta di racconti che avevo pubblicato nel 1994. E, per la prima volta in quasi vent’anni, mi ritrovai gomito a gomito con degli attori semplicemente perché avevano a che fare in gran numero con la mia attività sia di sceneggiatore sia di produttore chiamato ad assistere ai casting. Per via di quella sorta di disperazione che molti attori portano con sé malgrado cerchino in tutti i modi di mascherarla, provavo piú empatia nei loro confronti di quanto avessi mai immaginato, e talvolta ero empatico fino all’eccesso, di tanto in tanto a mio discapito. Spesso socializzavo con loro e, in piú di un’occasione, rimorchiai. Una volta o due cercai di essere d’aiuto forse piú di quanto non avrei dovuto, perché ero stato sedotto e mi ero innamorato di un attore di cui avrei dovuto avere ben piú chiari i fini. Dopo il mio arrivo a L.A. ero stato avvisato da alcuni veterani del mondo del cinema che tutto ciò faceva parte del gioco, a Hollywood, ma era un gioco a cui non avevo mai partecipato in precedenza. Quando mi avevano detto che non dovevo farmi coinvolgere troppo seriamente da un attore, non ero stato a sentire. Preferivo sentirmi accarezzare l’ego, e per via di una specie di perversa gratificazione sessuale che accompagnava la seduzione, commisi degli errori.

Il sesso non era per forza reale, ma del resto che cosa lo era? Impiegammo un anno per la preproduzione di un progetto che sarebbe costato milioni di dollari (il budget di Acqua dal sole era cresciuto fino a venti milioni) e avrebbe richiesto un organico di centinaia di persone, con location in esterno che si estendevano da Beverly Hills all’Uruguay, e il tutto non era che un castello in aria – una fantasia, un’illusione. Le storie su cui era basato il film erano inventate, le mie venti stesure della sceneggiatura un infinito lavoro di finzione, equivalente a un complicato mosaico, inutilmente rigoroso nel suo tentativo di tenere assieme otto trame fasulle incentrate su personaggi immaginari (e che alla fine somigliarono poco al prodotto finale, fortemente compromesso). Con un cast cosí numeroso, i provini portarono via quasi un anno, perciò, in pratica, ebbi a che fare con centinaia e centinaia di attori che volevano interpretare i quattro universitari maschi protagonisti del film, e che erano disperatamente determinati a venire scritturati. Accaddero cose interessanti e inattese – scoprii che c’era un gran numero di possibilità, di un tipo che avevo sempre sospettato fosse solo uno dei tanti miti di Hollywood.

A posteriori, la responsabilità di tutte le sofferenze che ho patito è stata interamente mia, perché non sono riuscito ad attenermi alle regole del gioco, e da scrittore prendevo le cose troppo sul serio (uno degli attori mi chiamava «dramatic chipmunk», riferendosi a un meme che circolava nel 2007). Da scrittore, stavo cercando di tenere tutti gli elementi di realtà al di fuori del processo di realizzazione del film, e pensavo erroneamente che quello stesso processo fosse reale, nonostante stessimo lavorando a un film. Ritenevo che il folle ottimismo richiesto da un film – da quella fantasia – non sarebbe tracimato nei mondi reali e pragmatici al di fuori del suo ambito. Ma impari a tue spese un mucchio di cose quando lavori a un film, di qualsiasi film si tratti. Magari il regista ha millantato di essere piú in sintonia con il soggetto di quanto non sia in realtà perché ha bisogno di soldi. Magari uno degli attori con trascorsi da tossico non si è cosí ripulito come tutti credevano (una delle stelle di Acqua dal sole morí per overdose di eroina un mese dopo il party di fine riprese). O magari quell’attore di cui sei diventato intimo non è altro che un attore, appunto: desideroso di far parte di quella fantasia, di entrare nella famiglia che deve realizzarla, anche se in definitiva sta solo recitando una parte. La degradazione reciproca che mi si rivelò era una sorta di assurda barzelletta su Hollywood che non faceva ridere, cosa di cui, anni dopo, sono grato. In certi giorni, in determinate situazioni, il ricordo di quell’epoca mi serve come promemoria delle fatiche e delle delusioni che si accompagnano alla realizzazione di un film, e questa momentanea distrazione può mettermi in imbarazzo, fino a che non ritrovo l’orientamento e non riesco a riorganizzarmi pur vacillando. Naturalmente gli attori mi avevano avvisato, e adesso comprendo bene le loro parole, ma perché quella fantasia andasse avanti quella parte doveva essere recitata molto bene; la seduzione doveva sembrare autentica in modo che io potessi credere a una fantasia che pensavo vera, permettendo all’intero processo di arrivare a compimento. Salvo che alla fine, per quanto mi impegnassi, nessuno di quegli attori ottenne mai la parte.