Avevo iniziato a prendere appunti per American Psycho nell’ultima settimana di dicembre del 1986 e avevo cominciato a buttare giú una scaletta a inizio primavera del 1987, dopo che mi ero trasferito a New York e stavo per prendere in affitto un appartamento in un condominio sulla Tredicesima Strada – in un edificio noto in precedenza per il fatto che ci viveva Tom Cruise, anche se l’East Village era considerato un’area semidesolata. Oggi come oggi, in quella zona gli appartamenti sono in vendita a dieci milioni di dollari, ma era una cosa impensabile nel 1987, quando fiale multicolori di crack imbrattavano le strade come coriandoli, Union Square – ad appena un isolato di distanza – era ancora un giardino abbandonato in auge perlopiú tra i tossici (anche se si stava imborghesendo grazie alle Zeckendorf Towers, che erano state costruite di recente dall’altra parte della Broadway), e lo Union Square Cafe di Danny Meyer sulla Sedicesima stava diventando il ristorante piú popolare di Manhattan. A New York – per certa gente – un’era si stava chiudendo e se ne stava aprendo una nuova. Il mio primo giorno nell’appartamento cadde il 1o aprile, la stessa data in cui si tenne la funzione funebre per Andy Warhol nella cattedrale di San Patrizio, e in cui si apre anche American Psycho.
Il titolo del primo capitolo, Pesci d’aprile, suggerisce che ciò che si sta per leggere non è un racconto esattamente affidabile, che forse è tutto un sogno, la sensibilità collettiva della cultura consumistica yuppie vista attraverso gli occhi di un sociopatico disturbato con tenui contatti con il mondo reale. E forse il libro diventò proprio questo quando iniziai a scriverlo nel 1987, perché anch’io vivevo in una sorta di mondo fantastico – con il surrealismo sperimentato in prima persona che si trasformava nel retroterra immaginario di Patrick Bateman. Non accennai a tutto questo durante o dopo le polemiche causate dal romanzo nel 1991; solo nel corso degli ultimissimi anni, a cominciare dal tour mondiale di presentazioni intrapreso controvoglia nel 2010, ho ammesso che a vari livelli Patrick Bateman ero io, almeno mentre stavo lavorando al libro. Condividevamo una relazione illusoria e distaccata con un mondo che ci inorridiva, e con il quale tuttavia volevamo entrare in relazione. Ci accomunavano il disgusto per la società che ci aveva creati e la resistenza riguardo a ciò che ci si aspettava da noi, ed eravamo furibondi all’idea che non ci fossero alternative. Patrick a un certo punto dice: «Voglio inserirmi», e lo vuole e non lo vuole. Nel 1987 tutto questo era vero anche per me.
Quando mi ritenni soddisfatto della scaletta, iniziai a scrivere al tempo presente con la voce di Patrick Bateman – e non cambiai di molto i miei piani nei circa tre anni che impiegai per finire il libro. Tutto era stato a tal punto sviscerato in anticipo per via dell’apparente casualità della vita di Bateman, e in parte questo aveva a che vedere col fatto che all’inizio American Psycho era molto piú lineare e sincero, con il giovane yuppie solitario Patrick Bateman protagonista di un romanzo realistico privo di violenza o pornografia esplicite, un giovane che si perdeva a Wall Street, sedotto e intrappolato dall’avidità della sua epoca. Quel libro avrebbe completato una sorta di trilogia che esplorava gli eccessi giovanili dei reaganiani anni Ottanta, iniziata con Meno di zero, proseguita con Le regole dell’attrazione e destinata a chiudersi alla fine di quel decennio con Bateman: passivo, piú vecchio, piú saggio, senza piú fidanzata, disilluso nel momento in cui si licenziava dalla società per cui aveva lavorato. Per fare che? Non lo sapeva. Era solo sollevato all’idea di lasciare un ambiente a cui non aveva mai sentito di appartenere o di cui si era liberato, come Clay alla fine di Meno di zero e Sean alla fine delle Regole dell’attrazione. Ma quest’idea iniziale di romanzo cambiò in un lampo.
Durante la primavera del 1987 andavo a cena con un gruppo di giovani, uno dei quali era il fratello maggiore di uno dei miei compagni di studi a Bennington, e tutti lavoravano a Wall Street facendo apparentemente un bel mucchio di soldi, per essere dei neolaureati in materie finanziarie non ancora trentenni. Durante le mie ricerche iniziali avevo accumulato una certa frustrazione a causa della loro evasività su ciò che facevano davvero per le società per cui lavoravano – informazioni che ritenevo necessarie, finché non compresi che in realtà non lo erano. Fui sbalordito dal loro desiderio di esibire piuttosto uno stile di vita follemente materialista: gli abiti Armani, i ristoranti alla moda scandalosamente cari nei quali riuscivano a prenotare i tavoli, le dimore estive prese in affitto agli Hamptons e, soprattutto, le loro routine fatte di costosissime acconciature e abbronzature e palestre e toelettature. Iniziai cosí a capire che l’allora emergente maschio eterosessuale dandy si era appropriato delle caratteristiche standard della cultura maschile gay, un fenomeno cominciato all’alba degli anni Ottanta con il successo della rivista «GQ» e di American Gigolo. La competizione tra quei tipi era deprimente: la voglia di primeggiare e la boria talvolta si facevano minacciose, e nel corso di una cena in particolare (l’ultima, avrei poi scoperto) decisi all’improvviso – senza un motivo particolare – che Patrick Bateman sarebbe stato un serial killer. O che avrebbe immaginato di esserlo. (Non ho mai saputo se si trattasse di una cosa o dell’altra, il che in cambio rese piú avvincente la scrittura del romanzo. La risposta a questa domanda è piú interessante del mistero stesso? Non ho mai creduto che lo fosse). Non ho idea delle ragioni per cui feci quest’associazione durante quella cena, ma cambiò la mia stessa concezione del libro, e nella tarda primavera del 1987 – o forse era l’inizio dell’estate – iniziai a rivedere la scaletta. E una volta presa questa decisione il libro cominciò a riflettere il tipo di vita surreale che conducevo in quel periodo. Una nebbia era scesa su di me dopo il mio trasferimento a New York e gli unici momenti di chiarezza arrivavano quando ero solo, e stavo lavorando al romanzo.
Mi tenni a galla lungo tutto il 1987 mentre ero alle prese con una sorta di trama onirica che era assolutamente mia e, nonostante ciò, dalla quale mi sentivo del tutto distaccato, come se appartenesse a qualcun altro. Chi era questo giovane e famoso scrittore americano che rimorchiava in lungo e in largo per Manhattan con un best seller a ventitre anni, allo stesso tempo troppo giovane e troppo saggio (essendo cresciuto a L.A. ero diventato un esperto nel relazionarmi ai media fregandomene dei media), che entrato a far parte del nuovissimo Brat Pack letterario veniva fotografato nei club e alle feste, godendosi la sua vita da scapolo, trovando a quanto pareva porte aperte dappertutto? Sembrava una vincita alla lotteria degli anni Ottanta, una specie di sogno, anche se l’ansia e i dubbi che mi prendevano praticamente riguardo a tutto continuavano ad affiorare senza che potessi controllarli. Davo un’occhiata agli articoli su Bret Easton Ellis. Vedevo le sue foto su quotidiani e riviste. Leggevo che era stato avvistato a certi vernissage in gallerie d’arte e in certi club con certe giovani stelle del cinema del momento (Robert Downey Jr., Judd Nelson, Nic Cage) e in certi ristoranti alla moda (con il fiancheggiatore del Brat Pack Jay McInerney) e a volte magari c’ero stato (lo provavano le foto dei paparazzi) mentre altre non potevo esserne certo: la mia foto ufficiale in veste di scrittore poteva essere stata pubblicata accanto all’articolo sull’inaugurazione di una galleria o della prima di un film in centro, ma questo non significava che ci fossi davvero andato. Talvolta la sola prova della mia presenza a un evento, che ci fossi andato o no, era il Rsvp. Spesso vedevo il mio nome incluso in liste che confermavano che ero stato da qualche parte quando in realtà sapevo che non era cosí. In un certo senso c’erano ora due Bret – uno privato e uno pubblico – e il 1987 fu l’anno in cui mi resi conto che coesistevano: ecco quanto mi sembrava bizzarra la mia vita di celebrità ventitreenne. Dopo Meno di zero, avevo frequentato quel piccolo college del Vermont per un altro anno, e poi una volta laureato ero tornato a stare nella casa di Sherman Oaks con mia madre e le mie due sorelle, cosicché, di fatto, non ero diventato un personaggio pubblico fino a quando non mi ero trasferito a New York. Non che me ne fregasse poi molto di avere un doppio, era solo una Nuova Sensazione, come cantavano gli Inxs in quel loro onnipresente singolo che faceva da colonna sonora alla vita notturna della città nel 1987.
All’inizio dell’autunno di quell’anno pubblicai un secondo romanzo che ricevette discrete recensioni e vendette cosí cosí, almeno paragonato a quel primo best seller, tuttavia ci fu un’enorme pubblicità e altrettanta stampa e pure una grande festa per il lancio del libro in un nuovo club alla moda nel Lower East Side. Trascorsi la festa nell’ufficio del proprietario, vittima di un violento attacco di panico; avevo vomitato nel taxi che mi aveva portato al club, per via dell’ansia e dei postumi della sbronza dovuta a qualche drink per farmi coraggio al Jams. Quel novembre uscí il film tratto da Meno di zero ottenendo recensioni mediocri e modesti risultati al botteghino, ma ci furono proiezioni e feste affollate di personaggi celebri mentre Hazy Shade of Winter delle Bangles, il primo singolo tratto dalla colonna sonora del film, strepitava dovunque grazie a Mtv e alle radio arrivando al secondo posto nella classifica di «Billboard». E mi sentivo staccato da me stesso, come se tutto ciò stesse capitando a un altro – ero diventato preda di una sensazione di profondo distacco e alienazione, malgrado sorridessi e fingessi che ogni cosa stava andando per il meglio e che tutti mi adoravano anche se questo era decisamente falso. Uno dei due Bret decise di credere a tutte queste menzogne; l’altro Bret era profondamente consapevole che non si trattava d’altro che di menzogne. Forse ero troppo giovane per accettare che cosa mi stava accadendo e spassarmela, il che in compenso mi rese frustrato e arrabbiato. Che cos’era questo mondo che mi aveva permesso di sbocciare? Perché non ci credevo? Perché volevo fuggire? E dove?
La mia vita era decisamente diversa da quella dei miei amici, che si erano laureati con me nel giugno del 1986 e ora avevano un lavoro che li obbligava a recarsi in ufficio. (Nel 1987 potevi terminare il college, trovarti un lavoro e permetterti un affitto ragionevole da qualche parte a Manhattan, una cosa inimmaginabile visto che oggi quel posto è una comunità separata, affollata a quanto pare solo da ricchi e turisti). Continuai a osservare rigidi orari di scrittura nell’appartamento sulla Tredicesima Strada, dove cercai di uniformarmi a una routine che rispecchiasse quella dei miei amici che lavoravano dalle nove alle cinque – anche se talvolta anziché pranzare me ne andavo a piedi al cinema a vedere un film. Dopodiché ricominciavo a scrivere prima di trovarmi con qualcuno per un aperitivo, cenare da qualche parte e andare in un locale, di solito da Nell’s; ecco come si svolgevano abitualmente le nostre serate. E a seconda della serata e di quanto lavoro avrei dovuto portare a termine il giorno dopo, magari c’era l’aggiunta di un po’ di cocaina, anche se naturalmente non si trattava mai di «un po’ di cocaina», e prima che ce ne rendessimo conto l’alba sorgeva sull’East River e gli amici dovevano andare al lavoro senza aver chiuso occhio – ancora una piccola striscia, ancora un sorso di vodka, un’altra sigaretta. Ma erano cose che potevamo fare perché avevamo ventitre e ventiquattro e venticinque anni e la resistenza tipica dei giovani, perciò non ci sembrava di combinare chissà che. Anziché sfibrante, ci sembrava romantico.
Ricordo perfettamente un pranzo all’Odeon un lunedí pomeriggio dell’ottobre 1987, dopo un weekend di bagordi, con un amico che a sua volta non aveva praticamente dormito per due giorni e due notti, entrambi non solo in preda ai postumi da sbronza ma palesemente sfasciati. Perché stessi pranzando all’Odeon con quell’amico, anch’egli ventitreenne, e perché entrambi indossassimo un completo mezzo addormentati dopo quel nostro weekend da scappati di casa, mi risulta ora – trent’anni dopo – totalmente oscuro, una cosa che appartiene non solo a un’epoca lontana ma proprio a un altro secolo. Tuttavia sembrava che allora chiunque indossasse un completo; solo di rado andavo da qualche parte senza indossarne uno, e lo stesso valeva per la maggior parte degli uomini di mia conoscenza, e nel corso di quel pranzo – probabilmente stavamo bevendo champagne, e probabilmente io ero fatto di clonazepam – ricordo di aver detto al mio amico dell’ultima volta che ero stato all’Odeon, poche settimane prima, e mi ero ritrovato a condividere della cocaina con Jean-Michel Basquiat (entrambi indossavamo un completo) giú nei bagni degli uomini durante una cena ubriaca seguita a un servizio fotografico per la rivista «Interview». Basquiat mi aveva chiesto perché ci fossero cosí pochi neri nei miei primi due romanzi e io gli avevo risposto qualcosa a proposito del razzismo sottinteso dell’ambiente di bianchi che avevo raffigurato e ci eravamo accesi una sigaretta mentre tornavamo di sopra, strafatti, diretti alle rispettive combriccole ai nostri tavoli – insomma per quanto mi riguardava un incontro tipico di quell’autunno del 1987.
A un certo punto del nostro pranzo il mio amico accennò al fatto che gli altri avventori sembravano alzarsi a metà pasto e lasciare i loro tavoli in massa. Non lo avevo notato perché davo le spalle alla sala, ma quando mi voltai vidi che giovani uomini in completo stavano saldando di corsa il conto per poi precipitarsi fuori sulla West Broadway. Chiedemmo al nostro cameriere che cosa stava succedendo e lui ci rispose che «a quanto pareva» la Borsa stava crollando. Ricordo perfettamente che usò quell’espressione – è una delle poche cose che ricordo perfettamente di quel periodo – in quello che si rivelò, in effetti, il Lunedí Nero. Il mio amico e io non avevamo nulla a che fare con la Borsa e cosí terminammo il nostro pranzo, sfiancati al punto da trovare la cosa divertente, in uno degli ultimi tavoli ancora occupati del ristorante. E nonostante lo shock del Lunedí Nero, quel collasso non ebbe grandi ripercussioni sulla mentalità della Manhattan giovane nel corso dei pochi anni che restavano prima della fine degli Ottanta. Se mai ci fu un’escalation della decadenza, come per sfidare ciò che Wall Street ci aveva voluto dire, e forse quello spregio non era una risposta cosí atipica per quell’epoca.
Mi concentrai sul romanzo, che in quel periodo era diventato la mia sola fonte di lucidità. Scrissi l’intero manoscritto nell’appartamento preso in affitto sulla Tredicesima Strada, che aveva un futon sul pavimento e qualche arredo da esterni sparso qua e là, oltre a un elaborato impianto stereo con un giradischi che costava una fortuna e uno scrittoio improvvisato – non era un posto minimalista in senso chic, ma solo vuoto; un posto «arredato» da un tipo a cui non gliene poteva fregare di meno, un tipo facilmente distratto da tutto il resto. Quel libro era affidabile ma io no, non necessariamente. Lontano dal romanzo la mia vita era una nebbia, e ora non potrei dire con una qualche certezza di essere davvero stato a un concerto degli U2 alla Brendan Byrne Arena con due tizi di Wall Street nella primavera del 1987, o alla prima di Dirty Dancing quell’agosto, o magari alla prima di Who’s That Girl? all’inizio di quell’estate, quando giravo con Griffin Dunne. Ricordo il singolo dai toni un po’ sinistri di Madonna tratto dal film che strepitava dalle radio nel corso di tutta l’estate e ricordo di essermi seduto in un cinema affollato per la prima diurna degli Intoccabili di Brian De Palma, e piú in là quell’anno di essere stato nella stessa sala per Attrazione fatale. Ma ero stato davvero nel backstage dei Def Leppard a chiacchierare con il cantante Joe Elliot mentre lui mangiava un pasto vegano prima di un concerto o faceva parte del sogno? Per la fine dell’anno Jay McInerney stava davvero uscendo con una modella un tempo sconosciuta che era diventata celebre perché era stata aggredita con un coltello, cosa che le aveva lasciato sul bellissimo viso una cicatrice molto glamour, e li avevo davvero accompagnati nella loro prima comparsata in pubblico – si era trattato di un’altra prima, forse quella di Stregata dalla luna? E la folla di paparazzi fu davvero cosí insistente nel cercare di ottenere uno scatto della nuova coppia di celebrità che la ragazza con cui ero venne spinta via con una violenta gomitata quando lasciammo la sala, e scoppiò a piangere, e alla festa che era seguita un livido enorme le si stava già formando sopra la cassa toracica?
Davvero visitai il set del film Wall Street di Oliver Stone un giorno di aprile o di maggio e fumai perfino una sigaretta con Charlie Sheen tra due ciak? Ricordo di aver visto il film ultimato quel dicembre durante una proiezione di nuovo a Los Angeles dov’ero tornato a casa per Natale, e di aver pensato che il modo in cui Michael Douglas nei panni di Gordon Gekko seduce Sheen in quelli di Bud Fox fosse la parte piú forte del film. Perché quel tipo di seduzione era ciò che allora sperimentavamo tutti, piú o meno, ed era una cosa che perdurava nel momento in cui il film uscí. Ma nella seconda parte della pellicola ecco la redenzione, che pregiudicava tutto ciò che aveva reso la prima parte cosí attuale. La seconda parte era una finzione che non divenne mai realtà, che non si realizzò mai nella vera Wall Street, con i veri Bud Fox e Gordon Gekko – perché non ci fu mai alcuna redenzione. In un certo senso, consideravo American Psycho come il correttivo surreale, il risultato logico della direzione presa da Bud Fox nel 1988 e nel 1989, malgrado allo stesso tempo mi rendessi conto che stavo scrivendo di una versione da incubo di me stesso.
Una volta abituatomi alla vita di Manhattan mi concentrai non solo sul romanzo ma anche sul modo di destreggiarmi per separare la mia vita dal romanzo – o forse mi ero solo assuefatto a certe cose. Forse la mia vita si era fatta piú calma e aveva assunto un ritmo piú riposante dopo la stressante eccitazione di quel primo anno, il 1987, o magari era solo che il clonazepam che mi era stato prescritto da uno strizzacervelli annoiato dell’Upper East Side stava funzionando. Può darsi che occuparmi di Patrick Bateman mi avesse chiarito le cose; mentre dopo il Lunedí Nero il romanzo diventava sempre piú tenebroso, cominciai a provare una sensazione di sollievo. Proprio come c’erano stati due Bret, c’erano due Patrick Bateman: il prestante ragazzo-della-porta-accanto, impacciato in società e di cui nessuno ricordava il nome perché somigliava a tutti quanti – essendosi uniformato come tutti quanti – e il Bateman notturno che batteva le strade in cerca di prede, affermando la sua mostruosità, la sua individualità. Alla fine degli anni Ottanta vidi tutto questo come una risposta appropriata a un società ossessionata dalla superficie delle cose e incline a ignorare qualsiasi cosa alludesse alle tenebre in agguato al di sotto di essa. Il romanzo sembrava un accurato resoconto dell’era reaganiana, con lo scandalo Iran-Contras a cui si alludeva nell’ultimo capitolo, e la violenza che vi serpeggiava all’interno era collegata alla mia frustrazione, e se non altro alludeva a qualcosa di reale e di tangibile in quell’epoca superficiale fatta di apparenze. Perché il sangue e le viscere erano veri, la morte era vera, lo stupro e l’omicidio erano veri – anche se nel mondo di American Psycho forse non erano piú veri della falsità della società che vi era rappresentata. Quella era la triste tesi del libro.
Se ricordo poco di quel 1987 a New York, tutto ciò che ricordo del 1988 e del 1989 è il lavoro sul libro. So che Basquiat morí meno di un anno dopo la nostra conversazione nei bagni dell’Odeon; so che incontrai qualcuno con cui finii per convivere per sette anni, un avvocato di Wall Street di qualche anno piú vecchio di me, gay non dichiarato e originario del Sud, che a volte mi ricordava Patrick Bateman e a volte no; so che alla fine tentai quasi controvoglia di arredare l’appartamento sulla Tredicesima Strada dopo averlo acquistato; so che terminai American Psycho nel dicembre del 1989, quasi tre anni dopo averlo iniziato; so che fu infine pubblicato nel marzo del 1991 dopo che un primo editore lo aveva rifiutato. E ora so che molte persone all’epoca pensarono che dopo la sua pubblicazione la mia carriera di scrittore fosse finita. Ora so che non sono mai stato cosí felice come lo fui nell’estate del 1991.