Per molti di noi cresciuti in California la scrittrice Joan Didion era un’eroina, anche se, o forse perché, era una repubblicana che sosteneva Goldwater, amava John Wayne, pensava che Jim Morrison fosse sexy perché era un cattivo ragazzo, odiava la cultura hippie, odiava i beat, odiava il femminismo degli anni Settanta, nei suoi romanzi esaltava gli uomini forti, aveva liquidato J.D. Salinger e Woody Allen quando erano all’apice della loro popolarità, era una snob e una antisnob. In breve, non aveva timore delle sue opinioni. Nel 1988 aveva scritto, in modo indiretto, a proposito delle sue posizioni politiche alla fine degli anni Ottanta: «Mi sono resa conto durante l’estate del 1988, in California e ad Atlanta e a New Orleans, mentre assistevo prima alle primarie della California e poi alle convention nazionali dei Democratici e dei Repubblicani, che non era stato un caso se le persone che amavo frequentare all’epoca delle superiori erano quelle che, in linea di massima, passavano il tempo ai distributori di benzina». In molti erano in disaccordo con le sue posizioni riguardo ai temi sociali, e venne ferocemente criticata per un articolo antifemminista che aveva scritto nel 1972, intitolato Il movimento delle donne. («Che molte donne siano vittima di condiscendenza e sfruttamento e stereotipi sessuali non era proprio una notizia ma non lo era nemmeno che altre donne non lo siano: nessuno ha costretto le donne ad accettare la cosa»). Ma il suo stile, le sue scelte estetiche, facevano vendere qualsiasi cosa scrivesse, e questo suo credere nello stile, e la precisione della sua scrittura, in apparenza azzeravano le questioni ideologiche: era una realista, una pragmatica, sintonizzata sulla logica e sui fatti, ma prima di tutto aveva stile – e come per tutti i grandi scrittori, era nello stile che si trovava il significato del suo lavoro. Aveva rigettato l’idea che in quanto donna non fosse forte abbastanza per misurarsi con quella che considerava l’asprezza della vita quotidiana in una società dominata dagli uomini. E trovava anche che ci fosse qualcosa di sinistro all’opera nel movimento femminista, al di là della sua contestazione dell’essere discriminate in quanto donne. «Sembrava sempre piú che l’avversione fosse contro la stessa vita sessuale adulta: come sarebbe piú pulito restare per sempre bambini».
Questo desiderio specifico – il desiderio di restare per sempre bambini – mi colpisce in quanto aspetto che caratterizza la vita in America oggi: un sentimento collettivo che si impone sulla neutralità dei fatti e sul contesto. Questa narrazione ha a che fare con il modo in cui vorremmo funzionasse il mondo rispetto alle delusioni che ci offre la vita quotidiana, e ci aiuta a proteggerci non solo dal caos della realtà ma anche dai nostri fallimenti personali. Questa narrazione sentimentale è un esempio di ciò che intendeva la Didion quando scrisse che «ci raccontiamo storie per riuscire a vivere» nel suo famoso saggio The White Album del 1979. «La principessa è imprigionata nel consolato. L’uomo con le caramelle porterà i bambini al mare. La donna nuda sul davanzale fuori dalla finestra al sedicesimo piano soffre di accidia, oppure la donna nuda è un’esibizionista, e sarebbe “interessante” sapere quale delle due. Ci raccontiamo che c’è una qualche differenza se la donna nuda sta per commettere un peccato mortale o è lí per manifestare una protesta politica o ancora, alla maniera di Aristofane, sta per essere riacchiappata e riportata alla condizione umana dal pompiere vestito da prete appena visibile nella finestra alle sue spalle, quello che sorride al teleobiettivo. Noi cerchiamo il sermone nel suicidio, la lezione morale o sociale nell’assassinio di cinque persone. Interpretiamo ciò che vediamo, selezioniamo la piú accettabile tra le possibili soluzioni. Viviamo interamente, specie se siamo scrittori, attraverso l’imposizione di una trama narrativa su immagini disordinate, le “idee” con le quali abbiamo imparato a cristallizzare la sfuggevole fantasmagoria che è la nostra esperienza reale»1.
Qui la frase chiave è «specie se siamo scrittori», perché sembra che ciascuno sia diventato schiavo di quest’idea che oggi siamo tutti scrittori o drammaturghi, che ognuno di noi ha una voce unica e qualcosa di molto importante da dire, di solito in merito a un sentimento che proviamo, e tutto ciò viene espresso nelle fauci nere dei social miliardi di volte al giorno. Di norma questo sentimento è l’indignazione, perché l’indignazione accende l’interesse, l’indignazione attira click, l’indignazione può far sentire la tua voce al di sopra dell’assordante frastuono di voci che si urlano addosso l’una sull’altra in questa nuova cultura da incubo – e l’indignazione è spesso legata alla follia di pretendere la perfezione umana, cittadini immacolati, compagni puliti e gradevoli, e richiede migliaia di scuse al giorno. Perorare la tua messinscena e il tuo brand mentre li crei: è cosí che si gioca la partita oggi. E se non ti attieni alle nuove regole della tribú vieni bannato, esiliato, cancellato dalla storia.
Io e David Foster Wallace non ci siamo mai incontrati, ma tra gli anni Novanta e i Duemila ci siamo spesso scambiati convenevoli attraverso giornalisti stranieri che attraversavano il Paese per intervistare i giovani scrittori americani. «Chi intervisterai dopo di me?» «David Foster Wallace». «Saluta David da parte mia». Oppure: «Oh, tra l’altro, ti saluta David Foster Wallace». Wallace era stato un fan di Meno di zero, eppure mi divertí la sua interpretazione di American Psycho come «nichilismo griffato» e non ho mai pensato neppure lontanamente che tra noi ci fosse una sorta di rivalità letteraria. Continuammo a salutarci a distanza anche dopo che aveva fatto quel commento su American Psycho. Ma questa fu la profondità del nostro rapporto, e forse doveva essere cosí visto che non sono mai riuscito a leggere il suo romanzo del 1996 Infinite Jest, malgrado ci abbia provato diverse volte, e ho sempre trovato i suoi pezzi giornalistici enfatici e condiscendenti, e del suo discorso ai laureati del Kenyon College nel 2005 pensavo fosse uno straordinario esempio di un cumulo di cazzate. Intuivo che la canonizzazione seguita al suo suicidio nel 2008 era basata su una narrazione sentimentale particolare e molto americana, tuttavia un film su Wallace uscito nel 2015, The End of the Tour. Un viaggio con David Foster Wallace, sorprendentemente si lasciava guardare anche se era reverenziale fino all’inverosimile. Diretto con disinvoltura da James Ponsoldt e scritto con eleganza dall’autore teatrale Donald Margulies, è un film statico quanto può esserlo il teatro filmato – con lunghe sequenze di dialogo che essenzialmente costituiscono un dibattito sull’autenticità – e ti ci puoi anche sballare con tutta quella buona volontà a portata di mano oppure alzare gli occhi al cielo incredulo per quanto tutto sia stato preso sul serio e presentato in modo cosí elaborato da tutti coloro che ne sono stati coinvolti. The End of the Tour vede Jason Segel nel ruolo di Wallace e Jesse Eisenberg in quello di David Lipsky, un giornalista di «Rolling Stone» che segue la fine del tour americano di Wallace per Infinite Jest, e per quelli di noi che erano a loro volta in tour e alle prese col mondo editoriale negli anni Novanta, il film offre un resoconto comicamente preciso di quell’era della Generazione X ormai da tempo finita: le recensioni di Walter Kirn sulla rivista «New York» che innescano intere conversazioni ai party, «Rolling Stone» che commissiona il ritratto di uno scrittore d’avanguardia legato al mondo accademico, gente che in auto canta le canzoni piú famose di Alanis Morissette e il fatto che fumare è permesso dappertutto. L’era digitale non era ancora arrivata in tutta la sua potenza.
Il film era un adattamento del libro di Lipsky Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, che era stato pubblicato due anni dopo che Wallace si era impiccato. «Rolling Stone» non pubblicò mai il ritratto di Lipsky, e il libro era composto unicamente dalla trascrizione delle conversazioni che lui e Wallace ebbero nell’arco di cinque giorni nel 1996, fondamentalmente a proposito del se stesso autentico in opposizione al se stesso che si preoccupa di come il pubblico ne crea uno falso dalle tue opere narrative, e di come ciò che i lettori leggono sfumi in una costruzione di chi credono che tu sia. Nel film, Wallace viene presentato come un ragazzo un po’ troppo sensibile per questo mondo, cosa che va a toccare una corda emotiva degli spettatori piú giovani e specialmente degli attori. È ritratto come un disadattato angelico e generoso che ama condividere i biscotti, un populista di quelli che scaldano i cuori, un americano medio tormentato che adora i cani e i bambini e McDonald’s, che trasuda «autenticità» e «umanità». Ma il film omette completamente ogni riferimento all’altro Wallace: quello sprezzante, anticonformista, lo stronzo geloso con un lato violento, il critico crudele – tutte le cose che alcuni di noi trovavano interessanti in lui. Il film preferisce il san David del discorso al Kenyon intitolato Questa è l’acqua: alcuni pensieri presentati in un’occasione speciale, su come vivere una vita compassionevole, un discorso che alcuni dei suoi piú strenui difensori e perfino dei suoi vecchi editor faticano a digerire, sostenendo che si tratta della cosa peggiore che Wallace abbia mai scritto, ma che è diventato un microfenomeno virale. Questo Wallace è la voce della ragione, un saggio, e il film soccombe di fronte al culto del consenso, ma il vero David rimproverava gli altri e probabilmente bramava la celebrità – e non è cosí raro che gli scrittori siano allo stesso tempo sospettosi del plauso letterario e curiosi di vedere come funziona. Wallace era scorbutico e sapeva essere crudele e caustico, ma quest’aspetto di David Foster Wallace è stato cancellato, ed è per questo che il film è cosí risolutamente monocorde e serioso.
Questo non è il David Foster Wallace che votò per Reagan e appoggiò Ross Perot, che scrisse una stroncatura caustica e deliziosamente crudele dell’ultimo John Updike, che posò per foto glamour-fighette per «Interview» (anni prima di Infinite Jest) e fu ospite un paio di volte del programma di Charlie Rose – tutte cose che a quanto suggerisce con forza The End of the Tour furono un’autentica sofferenza per il David che continuava ingenuamente a preoccuparsi che il suo vero se stesso venisse cooptato da un falso se stesso (come se a un uomo di quell’intelligenza potesse davvero fregargliene di una cosa del genere). Da parte mia ammiro l’ambizione e il talento e la sperimentazione letteraria di David Foster Wallace, anche se in generale ritengo fosse un artista insincero con una personalità paracula che ne smentiva l’autentica complessità. (Si veda, per esempio, il suo commento «Il dono che ci ha fatto l’Aids sta nel ricordarci a gran voce che non c’è proprio niente di spensierato nel sesso» – una frase che mi sarebbe piaciuto avesse provato a dire con sincerità il David «bietolone» interpretato da Jason Segel). È la ricostruzione artificiale di ciò che Wallace è diventato – travisata da una generazione di fan che lo vedono come un portavoce motivazionale strafigo e, cosa piú importante, una vittima – a costituire il problema centrale: il mascheramento di un uomo reale a favore di un personaggio che a molti di loro non dispiace e che, anzi, sembrano preferire.
Proprio ciò che Wallace ha sempre temuto potesse capitargli si è felicemente realizzato ed enfatizzato in The End of the Tour, e bene o male sorprende che il film non se ne sia reso conto o semplicemente abbia deciso di ignorarlo. Un minuto dopo l’altro, scena dopo scena, il film va contro tutto ciò per cui presumibilmente David Foster Wallace si batteva e in cui credeva. È una gigantesca contraddizione che in qualche modo lascia interdetti per la tracotanza adolescenziale sia del ritratto sia dell’idea di fondo del film, che sembra determinato a trasmetterci qualcosa che il protagonista continua a dire di non volere – trasformarsi in un personaggio – e il film volutamente ignora questa sua protesta. È questo fenomeno a preoccupare il Wallace del film, scena dopo scena dopo scena – e il film che cosa fa? Continua a riprenderlo. E che cosa fa Segel ? Continua a interpretare un’idea peculiare di David Foster Wallace, precisamente il motivo per cui questo film avrebbe fatto sbroccare Wallace. Gli eredi di Wallace e il suo editor hanno disconosciuto il film, non perché contenga errori riguardanti i fatti reali ma perché fa proprio ciò che Wallace non avrebbe mai tollerato: lo trasforma in un attore. «Comportati bene» è la supplica di Wallace a Lipsky nell’ultima loro scena di The End of the Tour, richiamandolo al dovere, quasi supplicandolo, e anche se questo potrebbe essere un modo onorevole di vivere la tua vita come amico, è un’idea pessima per uno scrittore.
Wallace non iniziò a scrivere narrativa fino a quando non ebbe ventun anni. A quanto si dice, l’origine di questa svolta fu dovuta al fatto che Wallace aveva assistito al successo del Brat Pack letterario, e di altri giovani romanzieri che iniziarono a vendere libri e far soldi intorno alla metà degli anni Ottanta, e aveva pensato: Perché non provarci? Ci sono tracce dell’influenza esercitata da Meno di zero nel suo primo romanzo, La scopa del sistema – anche se in seguito rinnegò quest’influenza pur continuando a elogiare pubblicamente Meno di zero. Mi avventurai in un’invettiva su Twitter qualche anno fa – a causa di un mix tra insonnia e tequila – mentre leggevo la biografia di Wallace scritta da D.T. Max. Quest’invettiva non aveva tanto a che fare con Wallace quanto con il suo crescente pubblico, che stava fondendo il suicidio e il discorso al Kenyon College in una narrazione di automiglioramento che – se hai letto tutto ciò che Wallace ha scritto o che è stato scritto su di lui, e se hai seguito il suo percorso – appare biecamente patetica. Come nel caso di molti colleghi che ho trovato interessanti, avevo letto tutta l’opera di David (tranne, naturalmente, Infinite Jest, in cui non sono riuscito a calarmi malgrado la raffinata e preveggente idea di fondo secondo cui le corporation avrebbero preso il controllo del settore dell’intrattenimento americano) e, salvo per alcuni primi racconti e certi capitoli della Scopa del sistema, non sono mai riuscito a entrare in sintonia con il suo lavoro per numerose ragioni di natura estetica. Ho spesso considerato David lo scrittore piú sopravvalutato della nostra generazione, oltre che il piú pretenzioso e tormentato, e twittai queste cose quella notte insieme ad altre che mi infastidivano, per esempio il modo in cui la cultura lo aveva reinterpretato e quanto ritenessi David ingenuo per il fatto di credere di poter controllare la cosa. La sincerità e la serietà che aveva cominciato a spacciare sembravano ad alcuni di noi un espediente, una sorta di contraddizione – non completamente false, ma nemmeno del tutto vere, una specie di performance artistica nella quale lui, avendo avvertito lo scivolamento della società verso la seriosità, si era adattato. Ma detto questo mi piaceva l’idea di David e il fatto che esistesse, e penso anche che fosse un genio.
Nonostante i miei sentimenti nei suoi confronti fossero – lo ammetto – contraddittori, erano anche sinceri. Un problema crescente della nostra società è l’incapacità delle persone di tollerare nella propria mente due pensieri contrastanti allo stesso tempo, di modo che qualsiasi «critica» nei confronti del lavoro di qualcuno viene accusata sistematicamente di elitarismo, o di sentimenti come l’invidia o la superiorità. L’idea di premere il tasto «mi piace» riguardo a ogni cosa, di mettere a tacere la gente per il fatto di dare voce a opinioni differenti è qualcosa che certo avrebbe offeso Wallace, visto che sapeva essere egli stesso un critico esigente e addirittura feroce. Com’era prevedibile, ci fu chi reagí a quei tweet scritti nel cuore della notte (avevo sbagliato a scrivere «coglione») con degli indignati ma-come-ti-permetti etichettandomi come un hater e un troll invidioso. Ma non avevo alcun problema personale con David e non ne sono mai stato «invidioso»; quei tweet erano piú che altro una tirata contro i fan che ignoravano gli aspetti «negativi» e «spiacevoli» della sua vita e pretendevano ostinatamente che quella testa di cazzo talvolta crudele che aveva calpestato la nostra stessa terra non fosse mai esistita. Non c’è mai stato nulla di ciò che ha scritto David di cui io sia stato invidioso, perché il lavoro di ciascuno non aveva niente in comune con lo stile o il contenuto o il temperamento dell’altro. (Per dire, Jonathan Franzen è un’altra faccenda, e piú volte ho ammesso che Le correzioni è un romanzo che vorrei aver scritto io). Quell’orgia di tweet non era altro che un giudizio estetico – un’opinione – che in qualche modo passò per un crimine.
In un elogio della cantante pop Sky Ferreira scritto nell’estate del 2016 per «L.A. Weekly» il giovane giornalista Art Tavana si espresse con una certa enfasi:
Sky Ferreira ha un nome che fa pensare a un’auto sportiva italiana dal motore turbo, o a uno spirito affine alla popstar italoamericana di seconda generazione Madonna, la donna piú ambiziosa ad avere mai indossato un reggiseno rosa. Il seno di Sky e quello di Madonna si somigliano, per taglia e per la capacità di scatenare una tempesta di merda sui social… L’America ha già stabilito che Ferreira assomiglia un sacco a Madonna ma non credo avremo mai il coraggio di ammettere che il suo aspetto sia ancora piú allettante per il consumatore americano. Fingere che l’aspetto non conti nella musica pop è ridicolo. L’aspetto conta, e conterà sempre…
Tavana poi proseguiva descrivendo come Ferreira fosse andata oltre quest’idea: «È troppo maliziosa per incarnare la fantasia erotica adolescenziale di chicchessia… è una popstar con una personalità cosí cool che la sua etichetta, la Capitol, non ha bisogno di assoldare un team che curi la sua immagine».
Tavana elogiava Ferreira in quanto icona fashion e attrice di successo e riportava come fosse odiata dagli snob elitari della scena indie e criticata dalle femministe quando si era rifiutata di condannare il fotografo Terry Richardson, accusato di pornografia e misoginia, aggiungendo che non aveva mai permesso al suo passato di vittima di abusi sessuali di definire chi fosse. Tavana sottolineava altresí come le popstar usassero la loro bellezza e la loro allure sessuale per attrarre i fan. Quell’articolo mi ricordò di quando i Blondie erano arrivati al successo, col risultato che parecchi ragazzi del mio liceo che non avevano mai nutrito un interesse specifico per la new wave a un tratto cominciarono a sbavare per Deborah Harry diventandone grandi fan, addirittura arrivando a ignorare i loro idoli precedenti come gli Eagles e i Foreigner. La stessa cosa accadde di nuovo con Patty Smyth e gli Scandal, e piú tardi con Susanna Hoffs e la Bangles. Ma questa attenzione al look risale alla bellezza di Elvis Presley e ai Beatles e Mick Jagger e Jim Morrison e Sting e a ogni boy band sia mai esistita, ma ciò nonostante in qualche modo c’è qualcosa di diverso in queste narrazioni maschili e femminili.
Le donne vengono guardate e giudicate e conquistate o svilite molto piú di frequente di quanto non accadrà mai agli uomini, ma in un’epoca guidata dalla spaventosa idea dell’inclusione di tutti a ogni costo, la bellezza sembra ormai una minaccia, capace di dividere, di separare, anziché una cosa del tutto naturale: persone che sono ammirate e desiderate per il loro aspetto, individui che si staccano dal gregge e sono venerati per la loro bellezza. A molti di noi tutto ciò ricorda la nostra inadeguatezza fisica a fronte di quello che la nostra cultura definisce sexy, bello, attraente – e sí, gli uomini sono uomini, i ragazzi son ragazzi, cosa ci vuoi fare sono fatti cosí, e niente cambierà mai questa cosa. Ma fingere che l’aspetto e l’essere sexy, si tratti di un ragazzo o di una ragazza, non dovrebbero renderti celebre e desiderato è una di quelle tristi prese di posizione che finiscono per farti mettere in discussione la validità, o la realisticità, di questo culto dell’inclusione. L’ode di Tavana a Sky Ferreira potrà anche non essere scritta particolarmente bene, ma era la testimonianza chiara e onesta di un uomo che stava guardando una donna che avrebbe potuto desiderare e che scriveva di quel desiderio, anche se questo metteva in secondo piano ciò che pensava della sua musica. Perciò la domanda era: che male c’è se è sincero nel fare di lei un oggetto?
Le social-justice warriors, dalle pagine di «LAist», «Flavorwire», «Jezebel», «Teen Vogue» e «Vulture» non poterono lasciar correre quest’innocuo articolo senza vomitare sfoghi isterici: erano cosí incazzate e apparentemente offese da sentirsi obbligate a svergognare Art Tavana. E leggendo simili articoli scritti da giovani giornaliste, alcune delle quali avrebbero dovuto avere un’altra consapevolezza, mi chiesi quand’era stato che le liberal progressiste erano diventate delle simili guardiane della giustizia sociale, che si aggrappavano inorridite alle loro collane di perle ogni volta che qualcuno aveva un’opinione che non rispecchiava la loro. Il tono di superiorità morale utilizzato dalle social-justice warriors, e da una Sinistra sempre piú squilibrata, è sempre fuori misura indipendentemente dall’oggetto della loro indignazione, e non mi sorprese che questa tendenza maligna e forse snervante avesse cominciato a dare vita a un’autoritaria polizia del linguaggio. «Teen Vogue» ritenne misogino l’uso di parole come «tette» e «poppe» e ospitò una denuncia alquanto insulsa dello sguardo maschile. Ogni volta che m’imbatto in una critica allo sguardo maschile – nella speranza che presto… cosa? Sparisca, si reindirizzi, si contenga – automaticamente penso: Ma questa gente è davvero cosí ingenua e squilibrata o è solo che non esce con un uomo da dieci anni? L’autrice del pezzo che su «Teen Vogue» protestava riguardo all’insensibile misoginia di Tavana e poi ci spiegava che le donne andavano rispettate e non dovevano essere giudicate dal loro aspetto – e sí, era una squisita ironia, detto dalle pagine di «Teen Vogue» – appariva alquanto infantile, alla pari di tutti gli altri commentatori dei vari social che accusavano il critico di aver «ridotto l’arte di una donna alla questione se vale la pena scoparsela o no», oppure, in modo piú diretto: «Sei una merda, vaffanculo». (Non potei fare a meno di chiedermi che cosa avrebbe detto di tutto questo Joan Didion). In qualche commento c’era anche l’ipotesi che Tavana sapesse perfettamente ciò che stava facendo – eccitare l’isteria femminista per vedere se quelle abboccavano, e che magari non trovava per nulla attraente Ferreira, cosa che lui fece intuire in seguito quando interrogato sull’articolo. Ma, naturalmente, quelle abboccano sempre.
Continuai anche a chiedermi, per tutta quella settimana dell’estate del 2016, che sarebbe successo se avessi desiderato piú di ogni altra cosa al mondo scoparmi Nick Jonas (tuttora un’opzione) e magari avessi scritto un peana di millecinquecento parole citando i pettorali e il culo e la faccia stupidamente sexy e il fatto che la sua musica non mi piaceva granché – sarebbe stato insultante nei confronti di Nick? O che sarebbe successo se una donna avesse scritto che detestava da morire la musica di Drake ma lo trovava fisicamente tanto figo e attraente che comunque se lo sarebbe fatto? Come sarebbe stata giudicata? Come sarei stato giudicato io? Uno dei due pezzi avrebbe suscitato qualche reazione? Sarebbero stati considerati alla pari? No, proprio per niente, perché nella nostra cultura le social-justice warriors preferiscono sempre che le donne siano vittime. Le reazioni di «Jezebel» e «Flavorwire» e «Teen Vogue» attribuivano tutte a Ferreira il ruolo di vittima, rimarcando la (presunta) violenza che aveva subito per mano di un autore maschio – la classica galleria degli specchi in cui si ritrova chi è in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa, per cui infuriarsi, e dove alla fine, talvolta, resta intrappolato. La realtà è che gli uomini guardano le donne, e gli uomini guardano altri uomini, e le donne guardano gli uomini, e le donne in particolare giudicano altre donne, e tutti non fanno altro che renderli oggetti. Esiste qualcuno tra coloro che di recente hanno usato un’app per rimorchiare che non abbia constatato quanto i nostri impulsi darwiniani vengano gratificati dopo aver fatto swipe su un paio di immagini? È cosí che funziona il mondo per permettere alla nostra specie di sopravvivere, e non è una cosa che potrà mai essere modificata o cancellata. Bene o male sapevo, nel corso di quella settimana, che quella polemica fasulla, ai miei occhi sia fuorviante sia presuntuosa, si sarebbe sgonfiata nel giro di ventiquattr’ore, e che idealmente la Ferreira avrebbe potuto difendere l’articolo uscito su «L.A. Weekly» – anche se alla fine non lo fece. La cosa che mi turbava di piú però era questa: dato che l’articolo di Tavana non era altro che la sua opinione, perché la gente si scandalizzava tanto?
Il triste finale di questa storia è che «L.A. Weekly», che aveva pubblicato e postato il pezzo, si sentí in dovere di chiedere scusa per il medesimo alla luce di tutto quell’ululare online – per un articolo in cui un tizio aveva scritto in modo chiaramente sincero, e magari a tratti imbarazzante, di una donna di spettacolo e di come la giudicava. Perché non c’era altro. E una cosa del genere dovrebbe essere consentita. Sono l’epidemia di reazioni esagerate dilagante nella nostra società, e con essa lo spettro della censura, che non dovrebbero essere permessi se vogliamo funzionare come una società dove ci si esprime liberamente e che crede – o magari finge di credere – nel Primo emendamento. Allo stesso tempo, non ho mai pensato che «Jezebel» o «Flavorwire» abbiano mai davvero preso sul serio la cosa. Volevano davvero umiliare un uomo per aver ammesso che forse pensava che Sky Ferreira fosse sexy? O si stavano solo sfogando in un vuoto pneumatico di loro stessa invenzione? Ormai, quando mancavano pochi mesi alle presidenziali, pareva davvero che stessimo entrando in un’era di autoritarismo morale promossa dalla Sinistra – coloro che un tempo erano dalla mia stessa parte della barricata, anche se non riuscivo piú nemmeno a riconoscerli. Com’era accaduto? Sembrava cosí regressivo e sinistro e bambinescamente irreale, come un film distopico di fantascienza nel quale ci si potesse esprimere solo in una qualche forma castrata, come un cumulo, o un ammasso di carne e cellule, che si sottraesse alle reazioni di genere nei confronti delle donne, degli uomini, del sesso, perfino dell’atto del guardare. Questa castrazione non era qualcosa che nessuno potesse davvero augurarsi, pensai, durante quell’estate – ma forse tutti volevano allinearsi perché riempiva una rubrica di giornale o due, e chi non aveva bisogno di guadagnarsi qualche click in piú?
Poco prima, nel 2015, sul mio podcast avevo iniziato a parlare del tema «ideologia contro estetica» in ambito artistico e di come proprio in quel momento la prima sembrasse prevalere sulla seconda in termini di reazioni da parte dei media e di certe fazioni della Sinistra. «Guardate l’opera d’arte, non l’artista». La prima volta che sentii questa frase fu in un’intervista a Bruce Springsteen una trentina di anni fa, e da allora non mi ha abbandonato. (Che questo mio eroe abbia potuto in seguito venire trumpizzato pubblicando il suo peggior singolo di sempre – l’invettiva anti-Trump intitolata That’s What Makes Us Great – fu per me uno dei momenti piú bassi del 2017 dal punto di vista culturale). Resterò sempre convinto che l’arte dovrebbe rappresentare la verità dell’artista, ma quanto agli artisti? Be’, probabilmente ne sarete delusi perciò limitatevi a prendere in considerazione l’arte e lasciate che parli da sola. Eppure ormai il commento di Springsteen aveva cominciato ad apparire come uno slogan antiquato, qualcosa in cui solo un uomo di una certa età (un baby boomer o uno dei primi membri della Generazione X) avrebbe potuto credere, perché ci veniva costantemente ricordato che questo in cui viviamo era a quanto pare tutto un altro mondo – e, cosa piú agghiacciante, ci veniva detto che era piú «illuminato» e «progressista», un mondo capace di accettare davvero le nostre «identità» – malgrado fosse piú che evidente che non manteneva queste promesse. Per me, aveva l’aria di una visione fortemente riduttiva. Ma avevo anche capito di aver rivalutato certe cose quando avevo visto come le persone rispondevano alla mia identità di artista – e, perciò, al mio lavoro.
Quell’estate, il «New York Times» mi chiese di scrivere un profilo di Quentin Tarantino. Non scrivevo il ritratto di una celebrità da piú di vent’anni, quando mi era capitato di rimanere incagliato a L.A. per un paio di mesi, vagando tra la scrittura e la preparazione di un film che non si sarebbe mai girato, e «Details» mi aveva chiesto se volessi scrivere un profilo di Val Kilmer, che all’epoca stava girando Batman Forever negli studi della Warner Bros. Dato che ero stufo di aspettare, e visto il compenso che mi offriva la rivista (una somma scandalosa che oggi ce la sogniamo), avevo accettato nonostante non trovassi Val Kilmer particolarmente interessante, e quest’idea non venne mutata dagli avvenimenti successivi: il pranzo un pomeriggio in un sushi bar deserto nei pressi di Mulholland Drive; la visita alla roulotte di Kilmer negli studi della Warner Bros., con Kilmer tutto truccato e conciato da Batman che andava avanti e indietro fumando sigarette e pontificando mentre io trafficavo col mio registratore; una corsa in auto fino a Culver City un venerdí sera tardi, in cui chiacchierammo imbottigliati nel traffico della 405; e infine un altro incontro nella sua roulotte mentre era alle prese con le prove di trucco per il suo prossimo ruolo in Heat di Michael Mann, che stava girando da quelle parti. Il pezzo era venuto abbastanza bene, ma le discussioni con la testata riguardo ai tagli e alle omissioni, oltre che le informazioni sulla vita amorosa di Kilmer che io non avevo nemmeno scritto ma che erano state aggiunte al testo, mi avevano costretto a domandarmi se avrei mai piú preso in considerazione una cosa del genere.
Ma il «New York Times» mi allettò chiarendomi che cosa avesse in mente: il supplemento «T Magazine» stava mettendo assieme un numero intitolato I grandi in cui diversi scrittori raccontavano altrettante figure che aleggiavano sulla scena culturale del momento: Rihanna, Jonathan Franzen, il regista Steve McQueen, Karl Lagerfeld e Tarantino. Accettai perché ero davvero interessato a Tarantino: ai suoi film, a una sensibilità da Generazione X che entrambi condividevamo, e all’uomo in sé, che a quanto pareva aveva una cultura cinematografica piú vasta di qualsiasi altro autore americano di mezza età. Ammiravo come, nelle interviste, si esponesse senza paura a proposito di attori, registi, pellicole e serie tv. Detesto dire «senza paura», visto che questa espressione mal si adatta al fatto che uno parli male dei film candidati all’Oscar o dica che non gliene frega niente di Cate Blanchett o che ha trovato la prima stagione di True Detective mortalmente noiosa dopo aver visto un solo episodio. È esistito un tempo fatato in cui si potevano esprimere le proprie opinioni, renderle pubbliche e iniziare una vera discussione, ma la cultura dominante ora sembrava cosí terrorizzata dal confronto che ciascuna di queste cose provocava invece una reazione aggressiva, cosa che successe puntualmente quando il «New York Times» pubblicò il mio pezzo su Tarantino.
Avevo incontrato Tarantino solo un paio di volte, il che pareva strano visto che avevamo cosí tante conoscenze in comune. In quel momento era molto preso dal montaggio di The Hateful Eight, che doveva uscire quel dicembre, e non aveva davvero molto tempo da dedicare alle interviste. Anche se la mia sarebbe dovuta ammontare ad appena duemilacinquecento parole per un miniprofilo, la rivista riteneva fosse necessario che lo scrittore trascorresse un po’ di tempo faccia a faccia con il soggetto intervistato, e cosí finii per chiacchierare con Tarantino per un paio d’ore nella sua casa sulle Hollywood Hills, prima che mi portasse in auto al cinema d’essai di cui è proprietario, il New Beverly, per vedere un film di Chaplin. Dopodiché mi propose di mangiare qualcosa, ma erano quasi le undici e io avevo una riunione la mattina successiva, perciò ci salutammo. Mi piacque davvero, Tarantino: era generoso, amichevole, gentile, disponibile e infinitamente competente quando si trattava di film. Il suo amore autentico per il cinema diventa particolarmente contagioso quando passi del tempo con lui, ed è anche un critico lucido e duro. L’intervista in realtà fu piú una conversazione, non un interrogatorio stringente su Tarantino e i suoi film – giusto alcune domande buttate lí a proposito di un paio di cose di cui ero curioso e in cui ci addentrammo davanti a una bottiglia di vino rosso seduti a bordo piscina nel suo giardino. Scrissi il pezzo rapidamente, ma quando arrivò la data di consegna non riuscivo a capire come tagliarlo. Glielo mandai lungo il doppio rispetto a quello che mi avevano chiesto, e naturalmente loro pubblicarono la metà che preferivano. Sapevo che il monologo di Tarantino riguardo ai suoi critici neri all’indomani di Django Unchained poteva toccare alcuni tasti delicati, ma mi sembrava onesto e benevolo, anche se avrei preferito che non tagliassero il paragrafo in cui parlava di come si erano complicati i suoi sentimenti nei confronti del suo idolo di gioventú Jean-Luc Godard, o i suoi commenti su Hitchcock, che Tarantino non ha mai davvero apprezzato. In effetti, il fatto che ammettesse di aver preferito il remake di Psycho, quello diretto da Gus Van Sant, rispetto all’originale era la cosa piú scioccante che avessi trascritto.
Cosí, quali furono le due cose che Tarantino disse e che risultarono tanto deplorevoli, irrispettose, sconvolgenti, sessiste, razziste e degne di far eruttare i social con migliaia di anime belle oltraggiate che pretendevano la sua testa? Una fu il riferimento alla sconfitta di Bastardi senza gloria nei confronti di The Hurt Locker di Kathryn Bigelow agli Oscar del 2010 nelle categorie Miglior film, Miglior regista e Sceneggiatura originale, ed ecco le testuali parole: – La questione di Kathryn Bigelow… capisco. Ascolta, è stato galvanizzante che una donna facesse un film di guerra cosí bello, ed è stato il primo film sulla guerra in Iraq che abbia detto qualcosa. E quindi non è come aver perso contro qualcosa di tremendo. Non è come quando E.T. perse contro Gandhi –. E la seconda fu a proposito della presunta sottovalutazione da parte degli Oscar del film biografico di Ava DuVernay su Martin Luther King, Selma, durante la stagione 2015; molta gente a L.A. non aveva apprezzato il film per ragioni estetiche, eppure la stampa specializzata aveva reagito sbigottita e indignata per il fatto che la pellicola non avesse ricevuto alcuna nomination per la regia, l’attore protagonista, la sceneggiatura – l’ideologia aveva preso il sopravvento. Ecco tutto ciò che disse Tarantino a proposito: – Lei [DuVernay] ha fatto un ottimo lavoro con Selma, ma Selma meritava un Emmy –. Tarantino stava riproponendo la tipica reazione alla pellicola della comunità di Hollywood – si diceva che sembrava un film per la tv – ma a differenza degli altri, lui l’aveva fatto a microfono acceso. Nel corso della conversazione che registrai quella sera si lasciò anche andare su quello che davvero pensava di diversi altri registi uomini, e anche se alcuni dei suoi giudizi vennero tagliati dal pezzo non tutti erano favorevoli.
Ma Internet s’incendiò, e il giorno dopo c’erano centinaia se non migliaia di proteste provenienti da tutto il mondo che definivano Tarantino un vergognoso sessista e un razzista senza freni per aver fatto quei due commenti – e io non ero tanto da meno per averlo avallato e per aver scritto il profilo. Tarantino veniva sanzionato per aver «attaccato» la Bigelow e la DuVernay – due donne! – anche se le aveva trattate in modo neutro, come due adulte, alla pari degli altri registi maschi che aveva criticato. Ciò che mi turbò di questa reazione fu, di nuovo, che si era coagulata attorno a un’opinione. Come nel caso dell’articolo di Tavana sulla Ferreira, veniva formulata una rivendicazione che insinuava come in base a un’ideologia – perché chi era stato messo in discussione era donna e/o una nera – gli artisti avevano bisogno di essere protetti dalla libertà di parola. L’indignazione che colpí Tarantino trasformò in vittima la Bigelow e la DuVernay. Quando lui aveva semplicemente esposto le sue considerazioni su due film, la sproporzione delle reazioni mutò quelle due artiste in martiri, e paradossalmente, cosí facendo, le rese entrambe piú deboli. Le social-justice warriors non pensano mai come artiste; desiderano solo venire offese, non provocate o ispirate, e spesso per un nonnulla. Quando pochi mesi dopo scrissi un tweet ammirato per l’interpretazione di Saoirse Ronan in Brooklyn, definendola la migliore performance che avessi visto da parte di chiunque nel corso di quell’anno, e complimentandomi per la sua essenzialità, e per come era diretta e luminosa e senza vanità, notai che alcune donne tentarono di virare il mio complimento («senza vanità») in un insulto, sottintendendo, fondamentalmente, che stavo deridendo Ronan per il fatto di essere grassa.
Avevo già avuto modo di scatenare il mio «momento» Kathryn Bigelow, quando il 5 dicembre 2012 alle 23.31 twittai che «Kathryn Bigelow sarebbe considerata un regista mediamente interessante se fosse un uomo ma dato che è una donna molto figa viene largamente sopravvalutata».
Questa era stata la mia risposta en passant su Twitter, per metà scherzosa e per metà no, dopo che sia la National Board of Review sia il New York Film Critics Circle nominarono lei come miglior regista dell’anno, e il suo nuovo lungometraggio – Zero Dark Thirty, sui dieci anni di caccia a Osama Bin Laden – come miglior film. All’epoca non avevo visto Zero Dark Thirty (non c’era stata un’anteprima, e gli screener non erano ancora disponibili), ma avevo pensato, nello stesso istante in cui twittavo: davvero un film di Kathryn Bigelow poteva essere cosí bello o c’era di mezzo qualcos’altro che aveva a che vedere con l’ideologia e le quote rosa? Lei e Marc Boal, lo sceneggiatore di The Hurt Locker, avevano di nuovo collaborato, e tutto quello che aveva fatto in precedenza questa coppia mi era parso non esattamente brutto, ma una via di mezzo, semplicistica e visivamente mediocre: un film di guerra a cui mancava la follia. Un’altra cosa interessante, pensavo, era che The Hurt Locker sembrava fosse stato diretto – nell’ambito del sistema cinematografico mainstream americano – in modo generico da un uomo. C’era un livello di testosterone palpabile, nel film, mentre nelle opere di Sofia Coppola, Andrea Arnold, Jane Campion, Mia Hansen Løve, o Claire Denis si è consapevoli di una presenza assai differente dietro la macchina da presa. The Hurt Locker, invece, poteva essere stato diretto da un uomo come da una donna, il che probabilmente spiegava perché avesse vinto l’Oscar.
Quella stessa sera intorno alla fine del 2012, mi spinsi oltre e twittai questo: «Kathryn Bigelow: Strange Days, K-19, Blue Steel, The Hurt Locker. Stiamo parlando di cinema visionario o solo di godibile spazzatura?» L’unica cosa che mi disturba un po’ di quel tweet è l’uso della parola «spazzatura», perché i film elencati non sono esattamente spazzatura se paragonati agli altri grandi film americani prodotti da Hollywood durante il periodo in cui lei li aveva girati. Il livello delle regie della Bigelow è spesso piuttosto elevato, e quei film di sicuro sono ambiziosi e hanno una durezza e un’assenza di sentimentalismo che è raro trovare nei grandi film hollywoodiani, oltre che quel curioso anonimato citato prima. Possono anche essere godibili nel complesso, ma di certo non sono «spazzatura» in termini di rigore formale ed esecuzione – hanno sceneggiature confuse, forse, ma quel mio «spazzatura» nel tweet è solo il punto esclamativo dello scrittore, un infiorettamento da Twitter. Non mi piaceva davvero nessuno di quei film, e tranne che per quella singola parola mi sta bene quel tweet, che non fa alcun riferimento al genere. Parla nello specifico del lavoro della Bigelow e non della sua identità.
Il giorno dopo, il 6 dicembre, twittai: «Una donna dell’Impero offesa dai miei tweet sulla Bigelow scrive: “Ti adoro. Ma non twittare da ubriaco”. E quando cazzo dovrei twittare?!?» Quest’amica, una produttrice che aveva ricevuto una nomination agli Oscar, mi aveva già messo sull’avviso quel giorno a proposito dei miei tweet precedenti e a quel punto stava ridendo per via della sua seriosità impanicata. Quello che la preoccupava maggiormente, credo, erano le ripercussioni della stampa specializzata. Anche se sapeva che ero a mio agio quando venivo preso a mazzate nella Twittersfera, temeva comunque i media tradizionali e come indubbiamente, inevitabilmente mi avrebbero ancora una volta massacrato. Come se la cosa non andasse avanti da anni. Il motivo piú recente era stato il fatto che per mesi mi ero promosso su Twitter come candidato a scrivere la sceneggiatura di Cinquanta sfumature di grigio. E poi, quando non l’avevo ottenuta, mi ero lagnato riguardo allo sceneggiatore a cui era stata affidata (in seguito siamo diventati amici). Perciò ora ero diventato uno «sgarbato» e «uno che non sa perdere» e per questo motivo «dobbiamo vietare Twitter a Bret Easton Ellis». Quella mia campagna su Twitter era per metà sincera e per metà una performance artistica, e come ogni altra cosa, pensavo, all’interno del qui e ora di Twitter, doveva essere sorprendente, giocosa e provocatoria, vera e falsa, facile da leggere e difficile da decifrare e, cosa piú importante, non doveva essere presa troppo sul serio.
Parte dell’indignazione suscitata da quei tweet di certo derivava da un’intervista che avevo rilasciato nel 2010 a un giornalista di «Movieline» durante la promozione del mio ultimo libro, quando davanti a un paio di drink alla Soho House di West Hollywood accadde quanto segue. La maggior parte della nostra conversazione aveva avuto come oggetto il cinema, e a un certo punto lui mi aveva chiesto quali fossero i miei film preferiti tra quelli usciti di recente. Dopo averci pensato, mi ero reso conto che la risposta era Fish Tank di Andrea Arnold e The Runaways di Floria Sigismondi, e mi ero ricordato di aver twittato, sorpreso da quanto forte fosse il film della Arnold, «Il miglior film che abbia visto nell’ultimo anno e devo piantarla di dire che le donne non sanno fare regia», e avevo subito raccontato tutto questo al giornalista. Dopodiché ci eravamo incagliati sulla domanda successiva: dov’erano tutte le altre registe? Entrambi avevamo bevuto svariati drink quella sera – sarebbe stata la mia ultima intervista in cui c’era di mezzo qualcosa di alcolico – e, alticcio, avevo attaccato a pontificare sul perché non ci fosse un maggior numero di donne registe. Si era trattato in realtà di una conversazione fatta di ipotesi in cui avevo teorizzato che forse si trattava di un medium piú adatto agli uomini – i tecnicismi da nerd, la spietata rapidità delle immagini, la qualità voyeuristica che è l’essenza della miglior cinematografia e l’aggressività sottintesa alla realizzazione di qualsiasi pellicola, almeno nell’ambito del cinema americano – e avevo insinuato che c’era una differenza palpabile nel modo in cui uomini e donne creavano i loro film. (Come si era chiesto il critico e storico del cinema David Thomson: «Che cosa sono i film senza il desiderio maschile?») Alcune di queste cose erano finite nell’articolo, altre no. Certe sembrano stupide nel contesto attuale, ma non si era trattato di una tesi accademica con dignità di pubblicazione, bensí di una conversazione piú o meno tra ubriachi in cui in fondo avevo detto che i pochi film girati da donne non avevano la violenza, i virtuosismi tecnici o la selvaggia spericolata asimmetria a cui anelavo, al contrario di quelli girati da uomini – dunque qual era il problema? Com’era prevedibile, ero stato bastonato per aver detto quelle cose nel 2010, e aver fatto quei commenti – di cui ho parlato dettagliatamente nel mio podcast con Illeana Douglas e Rose McGowan e Karyn Kusama, che aveva diretto il mio film americano preferito del 2016, The Invitation – è una cosa che da allora talvolta mi perseguita.
Il 7 dicembre continuai: «Certa gente oggi mi attacca dandomi del “sessista tossico” poiché penso che la bellissima Kathryn Bigelow sia sopravvalutata perché è donna». A quel punto stavo trollando. E ciò che volevo era divertirmi, essere un critico provocatorio, anche offensivo e supponente, fare il ragazzaccio, il coglione, condurre le danze in quel luna park per scrittori – tutto in centoquaranta caratteri o meno – e questo costituiva un problema per il me stesso formato Twitter. L’ultima cosa a cui pareva servire Twitter era l’essere «sensibili» nei confronti di qualcosa, e io ero spesso in contraddizione con l’idea che a qualcuno innanzitutto potesse davvero importare di un tweet. Tu twittavi, c’era chi se la prendeva a male, chi rideva, tu te ne fregavi, e tutti andavano avanti con la loro vita – era cosí che vedevo Twitter, all’inizio. Ma dopo un po’ mi ero reso conto che Twitter in realtà incoraggiava rabbia e disperazione – da parte di chi era troppo sincero, di chi faceva sfoggio della propria virtú, della testa di cazzo, dell’ottuso, di chi era privo di humour. Fino a quel momento non l’avevo mai considerato un luogo per definire la propria statura morale, o venire rispettati, o mostrare i propri lati piú delicati. Twitter si basava sull’immediatezza dei pensieri e delle risposte nei confronti degli stimoli culturali, sul cogliere le cose che fluttuavano nell’aria digitale, un posto dove dispensare insulti e dimostrare una certa incoscienza – era una macchina costruita per l’oltraggio e lo scetticismo. Eppure davvero i miei tweet sulla Bigelow provavano che ero un «vero demente»? Erano sul serio «sessisti» e «tossici»? E Kathryn Bigelow era cosí importante che se la si definiva sopravvalutata – non incompetente o incapace – perché molto bella si superavano i limiti della decenza?
I tweet sulla Bigelow raggiunsero l’apice con «Continuo a credere che se The Hurt Locker fosse stato diretto da un uomo non avrebbe vinto l’Oscar per la Miglior regia». Mi piaceva l’assertività di questa dichiarazione. Non si trattava di un tweet interrogativo che ponesse una qualsiasi domanda legittima – era solo un’altra opinione, oltre che una presa in giro del sessismo alla rovescia – ma per quanto mi riguardava il problema sorse con le reazioni al tweet: perché la gente pensava che stessi attaccando la sua identità anziché polemizzare con la fraudolenza degli Oscar? Mi ero davvero spinto «troppo oltre», come temevano o accusavano certi «follower»? O era solo un cazzo di tweet? «Le SCIOCCANTI accuse di uno scrittore!» titolava un messaggio di protesta come se fossi appena stato accusato di molestare un bambino. L’idea che qualcuno pensasse che ero diventato un «mestatore nella merda» non era solo inaccurata ma non teneva conto del contesto di Twitter. Dato che su Twitter non c’è «vita vera», niente di tutto questo si sarebbe dovuto prendere sul serio, e non me ne importava nulla se cosí non era. Dubito di avere mai cancellato un tweet.
Ma non ho mai nemmeno twittato a qualcuno – come fanno molti – perché questo mi sarebbe sembrato troppo personale, troppo bizzarro e intimo, e dunque può darsi che non abbia mai usato Twitter nel modo in cui gli altri credono debba essere usato. Vedevo Twitter piú come uno spazio libero e performativo, e raramente ho ritwittato qualcuno. Non ho mai postato un link nel caso qualcuno desiderasse trovare quell’articolo interessante su «The London Review of Books» che avevo consigliato o ai siti dove potevano essere acquistati i romanzi che saltuariamente spingevo (l’autunno precedente era stato il caso di Skippy muore di Paul Murray), e lo stesso valeva per le band e i programmi tv e i film e per ogni altro cosiddetto contenuto. Mi limitavo a buttarci dentro commenti, senza né link né immagini. Il mio account Twitter era supponente, irriverente, certe volte fintamente sincero, altre incazzato, pieno di interventi su film buoni e no, libri che consigliavo, libri che non riuscivo a finire, citazioni, ogni tanto solo il verso di una vecchia canzone. Questi tweet apparivano sulla mia pagina saltuariamente, in quello che ritenevo fosse lo spirito del sito, a qualsiasi ora del giorno, ma piú che altro la sera, talvolta dopo aver bevuto un po’, senza domande, senza spiegazioni, solo per buttare lí opinioni ed esprimermi di fronte alle anime perse che avevano deciso di seguirmi – anche se non mi sono mai mostrato simpatico solo per attirare nuovi follower. Non provavo a essere affascinante. La mia pagina ti colpiva oppure no, e avevo solo vaghe idee sul perché chicchessia potesse voler seguire proprio me. Qualcuno insinuava che fosse il «rancore» con cui mi esprimevo che spingeva degli estranei a seguire il mio account verificato, e che io avessi «bersagli» che a quelle persone piaceva veder colpiti, ma questo sottintendeva che il mio account (e la natura stessa dello strumento) fosse in qualche modo pianificato. Per me invece si trattava di qualcosa di assolutamente spontaneo e casuale. Tuttavia usai Twitter per trovare i fondi per il microbudget di un film che avevo scritto, oltre che per trovare il suo protagonista maschile, e una volta, per sbaglio – ero ubriaco – per ordinare droga. Pensavo di stare mandando un sms.
«L’amore fa bene, ma fa bene anche l’odio», ha scritto David Shields nel suo manifesto Fame di realtà, e in quei primi tempi fu cosí che usai Twitter, sguazzando nel ruolo di critico, si trattasse di ridicolizzare la pomposità boriosa di The Newsroom nel suo primo mese sulla Hbo o sottolineare che la love story di ininterrotta brutalità tra due vecchi in Amour di Michael Haneke era «ciò che sarebbe stato Sul lago dorato se l’avesse girato Hitler». Twitter tirava fuori il ragazzaccio che è in me, e nel 2012 Twitter mi piaceva per questa ragione, twittare a quell’ora della sera quando tutte le alternative erano sfumate e l’unica cosa che sembrava importare per cinque minuti erano le reazioni immediate che i miei tweet ricevevano e quel bicchiere di tequila ghiacciata che si scioglieva accanto alla mia tastiera, buttando giú cose sulla Generazione Inetti, l’Uomo Medio Gay, l’eredità di David Foster Wallace, la quinta stagione di Mad Men, la prima stagione di Girls, perché Homeland era solo cosí cosí e perché far sesso mentre guardi Game of Thrones è davvero una pessima idea, sul perché continuavo a trovare Breaking Bad cosí artificioso, sull’intervista del 1978 a Joan Didion sulla «Paris Review», o anche solo foto del mio albero di Natale. Anche se nell’estate del 2013 il «New York Times» aveva definito i miei tweet «geniali», ero sempre sotto attacco, e mi ci volle piú tempo del dovuto prima che ne capissi il perché. La celebrità è un gioco effimero – è del tutto diverso dall’essere uno scrittore, dal lavoro solitario che richiede – e ti fa crescere velocemente, talvolta in modi duri. Ma se hai avuto una lunga carriera e hai già preso un mucchio di colpi, dopo un po’ hai anche capito che quelli rimbalzano. E l’armatura è stata fabbricata cosí tanto tempo prima che dai per scontato che chiunque stia sui social possa sopportare gli stessi colpi indirizzati a te – finché scopri che è decisamente falso.