Nell’estate del 2018, iniziai a guardare un programma televisivo intitolato Pose, che andava in onda la domenica sera, una serie talvolta avvincente, talvolta emozionante, spesso frustrante, ambientata, tra tutte le possibilità esistenti, nel mondo della ball culture afroamericana e latina, le competizioni transgender nella Manhattan della fine degli anni Ottanta. Spesso, mentre lo guardavo, mi ritrovavo a sperimentare un’autentica reazione fisica, che si trattasse di una brusca fitta nel petto, di una leggera botta di adrenalina o di un lieve ma irrequieto timore, e mi resi conto che tutto ciò era collegato al rimpianto per la libertà che tutti i protagonisti principali della serie sembravano provare: il desiderio di essere accettati, di far ascoltare la propria voce, di essere inclusi al di là di ciò che rappresentavano o di quanto potessero apparire ripugnanti allo status quo. Pose era una soap da prima serata piuttosto convenzionale, che sembrava prendere sul serio le vite dei personaggi, ma le loro storie di lotta e di sofferenza avevano luogo in un mondo che non voleva riconoscerli; perché in qualche modo erano offensivi e perciò dovevano restare ai margini, invisibili, messi al bando, e tutto questo, nell’estate del 2018, mi provocava una puntuale dose di stress che non aveva niente a che vedere con la serie in questione.
Le tre trans al centro della serie erano personaggi resilienti che sarebbero potuti essere tragici dato il momento sfortunato in cui erano venute al mondo, in cui omofobia, Aids e razzismo erano dilaganti. Ma, la sera, c’era il mondo della ball culture, che consentiva loro di sfuggire agli aspetti piú bui delle loro vite reali in una fantasia di libertà carica di speranza, dove gareggiavano per vincere premi, tra sfilate e balli su una lussuosa passerella immaginaria, emulando altre classi sociali e generi sessuali. In quelle gare di ballo le donne venivano giudicate per come si muovevano, per i costumi, per il portamento e gli atteggiamenti esagerati, e il loro obiettivo era creare una parodia accentuata dell’eterosessualità femminile. Lí la provocatorietà di quei personaggi non veniva annichilita dal mondo reale, come invece pareva fosse consuetudine quotidiana nel luogo in cui volevano adattarsi a vivere, ma piuttosto veniva giudicata da una giuria che le premiava in base alla loro «autenticità», che era la loro interpretazione della versione immaginaria di loro stesse – avatar che si travestivano per una notte d’evasione. Quella serie mi ricordò in quell’estate del 2018 che la libertà è ciò che alla fine desideriamo tutti, indipendentemente dall’età, dal genere, dalla razza, dall’identità. Nella Manhattan del 1987 in cui ero vissuto, la libertà era una promessa mantenuta solo per certe persone, e un episodio particolarmente disturbante dello show mi rammentò, cosa evidente con gli occhi di oggi, di come il razzismo fosse presente nel mondo dei gay giovani, bianchi e privilegiati di allora, e tuttavia quella serie bizzarra e discontinua mi rese evidente il mutevole atteggiamento nei confronti di cosa significhi libertà, con tutte le conseguenti limitazioni e illusioni, al giorno d’oggi.
Durante quell’estate cenai con un amico che era arrivato in auto da Manhattan Beach. Lo incontrai a Culver City al mio ritorno da West Hollywood, un quartiere che stava ancora Resistendo, arrivando addirittura al punto di conferire le chiavi della città a una pornodiva che piú di dieci anni prima si era fatta un’avventura di una notte con Donald Trump, che era stata pagata per non parlarne ma che di recente aveva iniziato a rilasciare interviste per umiliarlo – anziché conferirle, che so, a un gruppo di volontari che si prendevano cura dei senzatetto oppure a un attore porno gay. Volevano mandare un messaggio, naturalmente, ma riguardo a che cosa esattamente sembrò, come tutto nel 2018, offuscato da una specie particolare di disturbo sentimentale. Io e il mio amico non ci vedevamo da circa un anno, e ce lo dicemmo ad alta voce prendendo posto al ristorante nel vecchio complesso della Helms Bakery. Ci eravamo conosciuti quando ero tornato a L.A. nel 2006, mentre lui lavorava a Hollywood per una casa cinematografica che aveva deciso di sviluppare un mio progetto, e in qualche modo si stava intristendo per via della dura realtà di quel settore. È americano, una decina d’anni piú giovane di me, e d’idee abbastanza conservatrici. Aveva votato per Trump e pensava che il presidente stesse facendo un buon lavoro, e lí seduto con lui mi resi di nuovo conto che convivevo con un millennial socialista che odiava Trump eppure bene o male quell’estate ero riuscito ad andare al cinema tutti i weekend con un millennial ebreo che era pro-Trump e pro-Israele, proprio come potevo bere qualcosa con un giornalista di sinistra quarantenne arrivato in visita da New York, o andare a cena ogni mese con una liberal femminista cinquantenne appassionatamente anti-Trump, o scambiarmi messaggini ogni settimana riguardo a certi pessimi programmi televisivi con un regista ebreo gay trentenne che appoggiava Trump, eccetera eccetera. Perciò, seduto in quel ristorante di Culver City, mi resi conto che il mio gruppo di amici aveva idee politiche eterogenee. Anche se vivevo nella democraticissima Los Angeles, non vivevo anche in una bolla politica.
E lo stesso poteva dirsi del mio amico di Manhattan Beach, anche se ammise che nel corso dell’ultimo anno una buona metà dei suoi amici che appoggiavano la Sinistra lo avevano mollato solo perché si era permesso di parlare in modo positivo del presidente sui social. La domanda chiave per lui era diventata: be’, prima di tutto erano davvero mai stati degli amici? Se potevano scaricarlo con tanta veemenza a causa di Trump, forse non lo erano mai stati. Spesso si era chiesto: Basta davvero cosí poco? Era cosí immorale e disgustoso difendere il presidente che avevi appoggiato e votato? In apparenza, per alcuni di coloro che stavano a Sinistra quella era davvero una ragione sufficiente per ripudiare un amico o un parente o anche solo un conoscente. Il mio amico notò anche come fosse piú difficile conoscere ragazze online qui nella California democratica, dove sembrava che «Tu da che parte stai politicamente?» fosse diventata la domanda piú frequente fatta dalle donne, al posto della precedente: «Quanto sei alto?» Come me, il mio amico accettava tutte le ideologie e le opinioni, anche quelle diametralmente opposte alle sue, ed entrambi rilevammo come molti nostri amici vivessero veramente in una bolla, ancora sotto shock a causa dell’«ingiustizia» delle presidenziali e del male incarnato ai loro occhi dall’amministrazione Trump, e non riuscissero ad accettare un’opinione differente – ossia, a mettersi nei panni degli altri. Fu questo il motivo per cui a molti di noi quell’estate la Sinistra sembrò mutare in qualcosa che non avevo mai visto in vita mia: un partito intriso di superiorità morale, intollerante e autoritario che era distaccato dalla realtà e mancava di qualsiasi coerenza ideologica al di là del cieco rifiuto di accettare un’elezione in cui qualcuno che loro disapprovavano aveva, almeno legalmente, tecnicamente, conquistato la Casa Bianca. La Sinistra era diventata una macchina produttrice di rabbia, in preda all’autocombustione: una bolla blu che si scioglieva dissolvendosi in se stessa.
Tuttavia, io e il mio amico eravamo entrambi piú che consapevoli di vivere con tutte le comodità in quella a cui ora ci si riferiva come alla bolla del privilegio del maschio bianco. E forse da certi punti di vista era vero, ma non consideravo né l’essere bianco né l’essere maschio caratteristiche che definivano la mia identità – o almeno non ne ero mai stato granché cosciente (le cose stanno cosí, comunque, non posso farci niente). Eppure, assieme a milioni di altri uomini bianchi, sempre piú mi veniva ricordato da una certa fazione che dovevamo definire noi stessi a partire dalla nostra identità di bianchi che era in sé un vero problema. In realtà, questa fazione lo pretendeva, senza preoccuparsi di riconoscere che la questione delle politiche dell’identità di ogni genere potesse essere l’idea peggiore nell’attuale clima culturale, e certamente incoraggiare il diffondersi di organizzazioni separatiste di estrema destra composte da soli bianchi. In generale, le politiche dell’identità avallano l’idea che gli esseri umani siano essenzialmente tribali, e che le nostre differenze siano inconciliabili, cosa che naturalmente rende impossibili l’accettazione della diversità e l’inclusione. È questo il vicolo cieco tossico delle politiche dell’identità; ed è una trappola. Malgrado ciò, però, da parte mia non rifiutavo le persone che avevano queste posizioni, o volevano schierarsi dalla parte di un candidato specifico. Erano libere di fare ciò che volevano, e in veste di amico le appoggiavo. Potevo non essere d’accordo con loro ma non avrei mai interrotto un rapporto di amicizia con chicchessia per le sue idee politiche. Non ho mai smesso di frequentare qualcuno basandomi sulle sue preferenze di voto, e forse per me era piú facile che per altri visto che la politica non mi interessa. Oppure, come sostengono molti, era piú facile perché sono un maschio bianco privilegiato. O magari semplicemente perché sono un uomo adulto, non piú un bambino, e capisco che il mondo non si comporta sempre esattamente come vorremmo e che le persone non sono tutte uguali. Mi è sempre piú interessato capire come sono fatte le persone, non per chi votano.
Ma nell’estate del 2018 le tue posizioni politiche facevano sí che venissi invitato (o no) a una festa o a una cena o, come scoprí l’addetto stampa della Casa Bianca una settimana di giugno, che ti fosse permesso o no di mangiare in un ristorante aperto al pubblico. Questa cosa era diventata, per alcuni di noi, una forma di «resistenza» sempre piú inaccettabile – qualcosa che a quasi tre anni dall’ascesa di Trump sentivamo noiosa, assurda, in malafede. Rifiutare quelli che non la pensano come te ora non era piú una forma di protesta e di resistenza ma si era trasformato in una forma infantile di fascismo, ed era diventato sempre piú complicato accettare queste tattiche escludenti. Avere punti di vista politici diversi era giudicato immorale, razzista e misogino. Questo costante strepitare degli inconsolabili era, per me, piú che stancante, un continuo ronzio acuto e fastidioso che non portava mai a niente. Da parte mia ritenevo che si potesse pure non essere d’accordo con le idee politiche di un’altra persona o perfino con la sua visione del mondo ma ciò nonostante imparare anche qualcosa di utile da lei e poi andare oltre. Ma se guardi tutto solo attraverso le lenti del tuo partito o della tua appartenenza, e sei capace di stare nella stessa stanza solo con gente che la pensa e che vota come te, questo non fa forse di te una persona poco curiosa e tendente all’ipersemplificazione, passiva-aggressiva, irrigidita nella presunzione di incarnare la superiorità morale, senza che tu ti chieda mai se per caso, agli occhi degli altri, non incarni invece l’inferiorità?
L’isteria dell’estate 2018 raggiunse l’apice quando si aprí il capitolo della futura Corte suprema, costringendo il mio sconvolto e rumoroso fidanzato al silenzio e a una crisi depressiva che durò quarantott’ore dopo che il giudice Kennedy annunciò le dimissioni, e alcuni amici cominciarono a mandarmi messaggi disperati, chiedendosi in quale altro paese dovessero espatriare. Aggiungete a questo la presunta immoralità cosmica delle politiche sull’immigrazione ora messe in atto ai confini (quelle di Obama non erano cosí tanto diverse), e la Resistenza divenne ufficialmente qualcosa di diverso rispetto a com’era iniziata. Sembrava che fosse arrivato, alla fine, il momento di rifiutare quest’isteria, una sorta di gioco fasullo che non si avvicinava neppure a connettersi con ciò che era reale e pragmatico, e che manipolato e messo in scena come appariva non risultava quasi mai né avvincente né coinvolgente – ma solo un tentativo disperato di afferrare, ecco, che cosa? Di sicuro non una qualsiasi idea di buona educazione, o la presa d’atto che il presidente stava governando in un modo che il novanta per cento dei suoi elettori approvava. Sempre piú si aveva l’impressione che si fosse messo in moto un apparato per delegittimare l’elezione stessa semplicemente perché certa gente non aveva ottenuto ciò che voleva. E Trump li aveva avvertiti in tutti i suoi comizi, in cui You Can’t Always Get What You Want chiudeva costantemente le sue esibizioni.
Il Paese assomigliava spesso a un demenziale liceo in cui gli ultimi della classe tiravano qualsiasi cosa contro chiunque fosse stato eletto rappresentante degli studenti giusto per vedere che cosa gli restava appiccicato addosso, sminuendo a ogni occasione lui e tutti quelli che lo avevano votato. Era stata questa la dinamica, come ho già accennato, che aveva aiutato Trump a diventare il piú grande outsider che avessimo mai visto. I ricorrenti paragoni con Hitler, e l’accostamento dell’Immigration and Custom Enforcement (Ice) alla Gestapo, per me furono la goccia che fece traboccare il vaso – dopo i quasi due anni di pausa della serie vediamo-un-po’-se-questi-qua-si-danno-una-cazzo-di-calmata che avevo osservato fino al termine dell’estate 2018 – e a quel punto fui io a non riuscire piú a darmi una cazzo di calmata. E una nuova nota di ironia aveva fatto il suo ingresso sulla scena: ormai sentivo gente di Sinistra che trovava irritante ciò che era diventata la Sinistra. Una sera davanti a un paio di bicchieri qualcuno sospirò: – Non so com’è che siamo diventati cosí molesti –. E a una cena un progressista di mezz’età sbottò: – Oh, non li reggo piú questi della Resistenza, – e si trattava di un gay che ne era stato un membro orgoglioso.
Andiamocene, cominciai a sentir dire quell’estate. Andiamocene, io me ne vado. Me ne vado e basta. La prima volta che notai questo hashtag era l’ultima settimana di giugno, ed era collegato a giovani che avevano prodotto dei video poi postati su Facebook in cui dicevano perché stavano lasciando il Partito democratico. Il fondatore del movimento #Andiamocene era un giovane attore gay già democratico che era rimasto progressivamente deluso dalle prediche, dall’inerzia e dalla malafede del partito, e dopo la sconfitta di Hillary ne aveva avuto abbastanza, e pensava fosse il caso di molti altri. – Una volta ero un liberal, – diceva in un video. – Ma rifiuto un sistema che permette a un gruppo di persone ambiziose, disinformate, dogmatiche, di sopprimere la libertà di parola, creare una falsa narrazione e passare sopra con indifferenza alla verità. Rifiuto l’odio. Queste sono le ragioni per cui sono diventato liberal. E queste sono le stesse ragioni per cui ora me ne vado –. Questo movimento potrà anche essere stato di piccole dimensioni, ma ciò che lo fece sembrare piú grande fu che esprimeva quello di cui molte persone parlavano già prima che #Andiamocene diventasse virale: l’era della tradizionale piattaforma democratica stava finendo, o meglio era finita nel novembre del 2016, o magari anche prima, forse implodendo da qualche parte lungo la strada che portava allo shock delle presidenziali. Non si trattava del fatto che Trump avesse conquistato l’Assemblea dei grandi elettori per cosí poco, mi disse un amico nonché sostenitore deluso della Clinton, ma che lei aveva perso con un margine ben maggiore di quanto chiunque potesse aver immaginato, ed era questa la ragione per cui tutti provavano tanta rabbia e disorientamento, come se gli avessero promesso qualcosa di cosí immutabile da essere inciso nella pietra. (Il mio fidanzato millennial era convinto che il movimento #Andiamocene fosse stato creato e diffuso da bot russi; non era cosí, ma nell’estate del 2018 chi poteva dirlo con certezza?) Quel movimento fu una reazione contro quella che molti videro come una resistenza sempre piú squilibrata e rabbiosa, che sosteneva che se non eri «consapevole» di quanto fosse odioso e pericoloso Donald Trump, allora tu e i suoi sostenitori dovevate subire una fatwa sempre piú estesa sia dal punto di vista sociale sia da quello professionale. Ma se eri stato allontanato dai tuoi famigliari, abbandonato dagli amici o avevi perso il lavoro anche solo perché tolleravi quell’uomo, queste erano ulteriori prove che la Sinistra non era per niente cosí inclusiva e variegata come da tempo proclamava. Nell’estate del 2018, la gente di sinistra si era trasformata in una massa di hater, aiutata da un disordinato incoraggiamento da parte dei media tradizionali, e ora era percepita da molti come contraria al buonsenso, antirazionale e antiamericana.
Nell’estate precedente, quella del 2017, avevo perso alcuni amici (o presunti tali) non perché avevo votato per Donald Trump (non l’avevo fatto), ma perché sul mio podcast avevo finalmente espresso le mie idee a proposito delle ricche élite che vivevano su entrambe le coste, che stavano ancora frignando per via delle presidenziali, e avevo sostenuto che quest’incapacità di razionalizzare la cosa e affrontarla come un semplice dato di fatto era diventata insopportabile non solo per loro, ma anche per chiunque si trovasse a doversi sciroppare la messa in scena del loro trauma. Mi ero preso gioco dei miei amici ricchi che si lagnavano dell’ingiustizia del responso delle urne in occasione di un pranzo da Spago costato migliaia di dollari, e avevo criticato aspramente Meryl Streep per il suo indignato discorso anti-Trump ai Golden Globe pronunciato nella stessa settimana in cui aveva messo in vendita la sua dimora al Greenwich Village per trenta milioni di dollari. Dopo la messa in onda di quel podcast avevo notato che alcuni miei conoscenti non uscivano piú con me, e che una o due persone che in effetti consideravo amiche erano semplicemente svanite – perché, immagino, non mi ero espresso in modo categorico contro il presidente, perché non ero d’accordo con loro sul fatto che tutto stesse andando in malora, perché semplicemente non ritenevo che Trump fosse la cosa peggiore che fosse mai capitata alla democrazia e perché credevano che per me fosse okay che l’«Hitler arancione» sedesse alla Casa Bianca. Io lo stavo normalizzando, e questo, compagno, non era accettabile.
Talvolta avevo twittato a proposito degli amici sbandieratori della propria virtú che volevano farmi la lezione, e sul mio podcast avevo raccontato la reazione istintiva di una produttrice che lavorava a Los Angeles quando avevo citato un conoscente comune che aveva votato per Trump: sembrava fosse stata morsa da uno zombie uscito da 28 giorni dopo e infettata dal virus della rabbia. Avevo fatto battute del genere non perché fossi a favore di qualsiasi cosa avesse fatto Trump, ma solo perché non avevo messo su una faccia stravolta dall’angoscia per qualcosa che aveva fatto, e dunque all’improvviso venivo considerato un collaborazionista, e mostravo secondo loro tutti i sintomi di quella orribile infezione. Qualcuno dei follower del podcast aveva insinuato che lamentarmi dell’isteria della Sinistra faceva in pratica di me l’incarnazione di Rush Limbaugh, che ero uno scherzo della natura di estrema destra pro-Trump, che quella era tutta spazzatura, disgustosa, insopportabile. E perciò eccoci al punto: l’opinione di qualcuno era insopportabile. Quello era ormai l’atteggiamento generale. Nonché una violazione ridicola e violenta della libertà di parola, proprio come le decisioni politiche ritenute sgradevoli venivano fraintese come immorali. L’incessante paragone con Hitler e i nazisti era particolarmente ripugnante visto che il mio patrigno, un ebreo polacco ormai settantenne, da bambino aveva perso la famiglia durante l’Olocausto, e da parte mia non potevo piú neppure fingere di simpatizzare con quell’isteria; anche solo come metafora, era inefficace e fondamentalmente idiota. Tuttavia, il mio fidanzato socialista, che io avevo spesso accusato di fascismo progressista, credeva ora che la mia ossessione per l’estetica fosse diventata, nell’estate del 2018, a sua volta essenzialmente fascista.
In precedenza, quell’anno, diversi giornalisti mi avevano cercato per via di un paio di tweet che avevo postato a favore di Kanye West. A quanto pareva non riuscivano a credere che a me piacessero i suoi «folli» post, soprattutto dal momento che aveva detto di appoggiare Trump, e non riuscivano a spiegarsi perché avevo twittato «Ave Kanye!» in risposta a quel suo bizzarro mix di profezie di inequivocabile interpretazione e calcolate prese in giro a fini promozionali. Da parte della stampa si insinuava che ci fosse qualcosa che non andava in me per aver postato quel tweet, e non in loro per avermene chiesto il perché. Ma io conoscevo Kanye dal 2013, quando del tutto inaspettatamente mi aveva mandato un messaggio chiedendomi se mi sarebbe piaciuto lavorare a una sua idea per un film. Non ci eravamo mai incontrati, ma la cosa mi aveva incuriosito abbastanza perché andassi a trovarlo nel reparto privato del Cedars-Sinai all’indomani della nascita del suo primo figlio. Avevamo trascorso quattro ore a parlare del progetto cinematografico e di parecchie altre cose – di tutto, da Yeezus al porno ai Pronipoti – finché Kim Kardashian non era uscita dalla sua stanza con in braccio il loro primogenito North. Pareva proprio fosse arrivato il momento di salutare, anche se sembrava che Kanye volesse farmi restare lí per sempre, arrivando a offrirmi una Grey Goose che stava versando da una magnum intanto che mi preparavo ad andarmene. Dato che avevo lavorato con lui ad alcuni complicati e bizzarri progetti riguardanti film, show televisivi e video che nella maggior parte dei casi non erano mai decollati, e che ciò nonostante avevo mantenuto i contatti con lui tramite i social, mi era capitato di reagire a quel suo incredibile flusso di coscienza su Twitter nelle settimane precedenti l’uscita del suo nuovo disco – alla pari di centinaia di migliaia di altri follower.
Quei tweet erano la conferma dei motivi per cui mi piaceva Kanye: erano teneri e misteriosi, stupidi e profondi, divertenti e giocosi, c’erano discorsi di autoaiuto e vecchie foto, in parte assurde bravate ma anche una sincera riflessione su chi era Kanye West in quel momento. E a un certo punto durante quella tempesta di tweet aveva menzionato il fatto che amava Trump, e ammirava la sua «energia da drago», che lui e il presidente, aveva insinuato, condividevano. Ma la sua ammirazione non era assolutamente una novità, visto che l’aveva già esternata tale e quale quando si era incagliato in una filippica durante un concerto a San Jose la settimana successiva alla vittoria di Trump – e aveva detto al pubblico: – Se avessi votato avrei votato per Trump –. (Il mio fidanzato era a quel concerto e per poco non collassava). Come se non bastasse era stato una delle pochissime celebrità a rendere visita al presidente alla Trump Tower all’indomani dell’elezione. (Un’altra fu Leonardo Di Caprio ma con uno scopo diverso). Tutte queste cose erano un distillato di Kanye, ossessionato dallo showbiz e dallo spettacolo e dal potere – e per alcuni di noi la sua onestà era stata sempre un’ipnotica fonte d’ispirazione. Ma a Sinistra avevano reagito come una manica di maestrini disgustati, spiegandoci che ciò che Kanye aveva twittato era molto, molto brutto; che nessuno doveva ascoltarlo; che avrebbe dovuto scusarsi cosí che noi tutti potessimo perdonarlo nel contesto di una narrazione in cui lui – un nero – aveva appoggiato un razzista e dunque era a sua volta razzista. Travolto dal panico moralista, John Legend aveva sbandierato la propria virtú sui social pregando Kanye di ritrattare, ritrattare, ritrattare, e Kanye si era rifiutato. Come aveva fatto quando il «New York Times», in un ritratto per il resto incensatorio nella sezione Arti & Tempo libero, non era riuscito a sua volta a mandar giú la faccenda Trump, e aveva insistito perché Kanye chiarisse e chiedesse scusa, se lo riteneva necessario, e Kanye, fedele al suo stile, aveva rifiutato.
Ciò che rendeva divertenti tweet tipo «L’autovittimismo è una malattia» o quelli che elogiavano il presidente era il fatto che mandavano in crisi gli oppositori di Trump anche quando avrebbero dovuto essere consapevoli che quelle cose andavano prese nello spirito in cui erano state concepite – come una performance artistica dada e bipolare. Ma prendendo Kanye sul serio, e cosí alla lettera, come se fosse un predicatore della domenica mattina anziché una popstar, ne fraintendevano il significato in modo da incasellarlo nella visione deformata del mondo post-Trump che si erano immaginati, un futuro distopico e draconiano in cui 1984 incontrava The Handmaid’s Tale. Era diventato quasi un gioco di società: che cosa potevi dire per farli inalberare ancor di piú? Ma era davvero cosí divertente – o era solo e soltanto stancante – vederli dare di matto e indignarsi per, be’, praticamente per tutto? Avevano sviluppato regole molto precise riguardo a come vivere e a quali erano le opinioni consentite, a ciò che faceva di una persona un «buono» o un «cattivo» soggetto, e a quali sentieri bisognasse imboccare, e Kanye West non era conforme a niente di tutto questo. Anziché scandalizzarsi in continuazione, avrebbero dovuto rendersi conto che una figura come quella di Trump doveva affascinare uno come Kanye: insolente, un gangster, uno che era quello che era ti piacesse o no, un solitario, sincero, uno che diceva la verità senza dover essere preso alla lettera, pieno di difetti, contraddittorio, un ribelle, orribile per alcuni o fantastico per altri ma di sicuro non grigio e nemmeno cerchiobottista, incapace come burocrate ma abile come disgregatore. E tutte queste cose erano anche, va da sé, ciò che un mucchio di altre persone di mia conoscenza adorava di Trump nell’estate del 2018.
I media iniziarono a deriderlo e ipotizzarono che per dire qualcosa di simile Kanye dovesse essersi drogato. Stava distruggendo la sua carriera! Com’era possibile che a un nero piacesse Trump? E – cambiando argomento, o bersaglio – come poteva appoggiare Candace Owens? Owens, una giovane donna nera carina e interessante, aveva detto che era diventata conservatrice quando infine aveva capito che «i veri razzisti sono i liberal, in realtà sono loro a fare i troll». Owens era cresciuta a Stamford, nel Connecticut, e aveva lavorato per «Vogue», e a modo suo era diventata un’attivista, in particolare critica nei confronti di Black Lives Matter. Owens sosteneva che i Democratici erano i veri proprietari delle piantagioni, e durante i suoi incontri nei college sollecitava i giovani neri a piantarla di autovittimizzarsi con i nonsense della politica dell’identità e a smetterla di paragonarsi agli schiavi veri. Kanye tentò di ribadire questi concetti in un’intervista sconclusionata e finto-motivante a «Tmz» – tra le cose che aveva detto, «la schiavitú ce l’avete solo dentro la testa» – e i media cominciarono a criticare aspramente tutte le cose e le persone che in qualche modo erano connesse a lui. Anche un idiota avrebbe potuto capire che cosa Kanye stava provando a dire, per quanto maldestro e incomprensibile fosse, ma visti i pregiudizi che avevano contagiato tutto nel 2018, la stampa si disse preoccupata che stesse attraversando un «periodo delirante» e che probabilmente si sarebbe dovuto sottoporre a una cura per uscire dalla tossicodipendenza. O forse era solo impazzito del tutto, perché solo un pazzo poteva pensarla come lui. L’opinione generale, negli articoli che dovunque ne celebravano il funerale, era che dopo il commento sulla schiavitú e i tweet su Trump la sua carriera fosse irrimediabilmente compromessa. Era finita, per Kanye.
Incontrai Kanye nel corso della settimana in cui tutte queste polemiche stavano infiammando i social, anche se all’inizio non volevo. Kanye mi aveva cercato perché voleva resuscitare un progetto televisivo di cui avevamo parlato nel 2015, che lui ora stava ripensando come film. Ero sempre interessato all’idea originaria ma non ero sicuro che potesse funzionare al cinema, cosí esitai, in parte anche per via degli impegni di ciascuno. Lui di lí a poco sarebbe andato nel Wyoming per finire la produzione del suo ultimo disco, e nel frattempo per me non sarebbe stato facile trovare il tempo necessario per incontrarci nei suoi uffici a Calabasas. Ma poi capii che la mia esitazione era in qualche modo influenzata da tutte quelle cose uscite sui media. Pensavo che Kanye probabilmente stesse bene, ma che forse, come molti insinuavano, stesse attraversando una specie di fase delirante o irresponsabile, e se le cose stavano cosí, cercare di incontrarci in una settimana in cui io ero già travolto dal lavoro e dalle scadenze non aveva alcun senso. Ma quando gli spiegai che il mio calendario era già pieno di impegni, lui mi sembrò deluso, e questo a sua volta deluse me. Cosí cambiai subito i miei programmi e andai in auto alla sua base, fugacemente preoccupato di poter incontrare, come i media continuavano a insistere, un uomo che aveva perso la testa.
L’anno 2018 aveva dato una botta d’ansia a un mucchio di persone, e in molti provavano la sensazione di essersi buttati nel vuoto senza paracadute. La Resistenza sembrava stesse realizzando un film nel quale tutti erano attori e recitavano un ruolo e leggevano le battute da una sceneggiatura, ma non era facile capire se si trattava di un film horror o solo di un altro reality: che cosa era vero, e che cosa non lo era? Ciascuno aveva la sua opinione personale, la sua reazione immediata e provocatoria alla realtà. E davvero in pochi parevano avere il dono della neutralità, la capacità di guardare il mondo in un modo calmo, distaccato, da lontano, senza il vincolo della partigianeria. Il pregiudizio era ovunque. Grazie alla mia ironia solo di rado venivo confuso – come ho raccontato sopra – dal gioco dei media, ma se Sean Hannity sulla Fox offriva una visione del mondo che talvolta sembrava una tronfia fantasia decisamente schierata dalla parte dell’amministrazione – ma non era sempre cosí – allora Rachel Maddow dalla parte opposta della barricata sulla Msnbc, col suo personale labirinto di teorie arcane allineate in tutto e per tutto con la concezione del mondo della sua audience, mi sembrava molto simile. Non erano entrambi, da un certo punto di vista, due pennivendoli partigiani mediocri e arroganti? Questa contrapposizione veniva alla luce dappertutto, e una settimana di quello stesso mese di agosto ebbi due conversazioni distinte con due donne di mia conoscenza un po’ in là con gli anni, entrambe sulla settantina, entrambe appartenenti alla stessa classe socioeconomica, tutte e due bianche e laureate, una residente sulla Costa est e l’altra sulla Costa ovest. Una di loro mi disse che Trump la preoccupava talmente che la maggior parte dei giorni faceva fatica a formulare pensieri normali, mentre l’altra mi disse che probabilmente Trump era il piú grande presidente in cui si fosse imbattuta nel corso della sua vita. E ciascuna delle due pensava che per l’altra sarebbe stata necessaria la camicia di forza.
Quest’ansia non toccava solo la politica o i media. Dal giorno dell’elezione, Hollywood si era mostrata in innumerevoli occasioni una delle enclave capitaliste piú ipocrite del mondo, con una facciata che si pavoneggiava proclamando il progressismo, l’uguaglianza, l’inclusione e la diversità – tranne quando si trattava dell’inclusione e della diversità di pensiero politico e di opinione e di linguaggio. L’ostilità passivo-aggressiva della corporation qui in gioco era quella di un teenager iroso e disturbato, i suoi atteggiamenti e le sue pose cosí infantili che eri costretto a chiederti se le illusioni che quel villaggio spacciava non avessero ingoiato del tutto la logica e il buonsenso. Si battevano orgogliosamente per la pace ma non facevano una piega davanti a un video in cui Snoop Dogg sparava a Trump oppure questi veniva decapitato da Kathy Griffin o picchiato da Robert De Niro, o piú semplicemente, come suggeriva un Johnny Depp evidentemente ubriaco, assassinato. E la minaccia che si percepiva non era limitata a cose a prima vista secondarie, come quando, in quell’estate del 2018, Whoopi Goldberg e Joy Behar a The View avevano perso le staffe a proposito di Trump per poi togliere la parola a un ospite che non era d’accordo con loro, e che dopo l’interruzione pubblicitaria non era piú in studio. Nell’aria si percepivano segnali ben piú pericolosi.
Il tweet notturno di Roseanne Barr che paragonava Valerie Jarrett, una consigliera anziana di Obama, a un personaggio scimmiesco del Pianeta delle scimmie, ne provocò il licenziamento da parte della Walt Disney Company con la motivazione del razzismo, anche se la Barr protestò sostenendo che non sapeva neppure che la Jarrett fosse nera. Questo episodio presagí l’altro licenziamento di una figura di primo piano da parte della Disney, l’autore e regista James Gunn, responsabile del grande successo della serie di film dei Guardiani della Galassia. Erano venuti alla luce dei tweet di una decina d’anni prima, contenenti sgradevoli battute da bulletto, esempi malriusciti di humour provocatorio di basso livello che spesso toccavano temi come la pedofilia, i pompini, lo stupro, l’Aids. Erano esattamente quelle le cose che molti di noi pensavano fossero state incoraggiate da Twitter agli esordi, all’epoca in cui i tweet «offensivi» non definivano ancora chissà come l’intera personalità di un individuo e non lo sbattevano in cella condannandolo all’ergastolo. La Disney interruppe tutti i rapporti di lavoro con Gunn, i cui film avevano fatto incassare alla corporation piú di un miliardo di dollari, e lo fece fuori dal successivo film dei Guardiani, che lui aveva già scritto e che secondo quanto pianificato doveva entrare nella fase della produzione quell’autunno. Ciò che rese la decisione della corporation cosí raggelante fu che Gunn aveva non solo chiesto scusa dissociandosi da quei tweet anni prima ma era anche molto attivo come detrattore di Donald Trump, che criticava a gran voce, va da sé, su Twitter. Fu allora che ci colpí la consapevolezza che neppure un progressismo veemente poteva piú mettere in salvo, almeno non nella cultura tirannica e oppressiva della corporation di Hollywood che stabiliva come ci si dovesse esprimere in veste di attori, registi, artisti. La libertà di espressione era diventata, a quanto pareva, un desiderio di morte estetico, un vero suicidio.
Con un numero sempre minore di corporation a dominare il gioco (e presto potrebbe essercene solo una) gli amici compagni potrebbero dover aderire alle loro nuove regole: riguardo alla comicità, riguardo alla libertà di espressione, riguardo a ciò che è divertente oppure offensivo. Gli artisti – o, nella lingua locale, i creativi – non dovranno piú superare i limiti, spingersi nella metà oscura, esplorare tabú, fare battute inappropriate o esprimere opinioni controcorrente. O meglio, potremo farlo, col rischio di non dar piú da mangiare alle nostre famiglie. Questa nuova prassi ti chiedeva di vivere in un mondo in cui nessuno veniva mai offeso, in cui tutti erano sempre bravi e gentili, dove le cose erano sempre prive di macchie e asessuate, preferibilmente perfino senza genere – e qui iniziai davvero a preoccuparmi, visto che le corporation professavano di voler controllare non solo ciò che dicevi ma anche i tuoi pensieri e i tuoi impulsi, perfino i tuoi sogni. A causa di questa potenziata capacità di influenza delle corporation, il pubblico sarebbe ancora stato in grado di consumare materiali che non fossero sanzionati o che nonostante tutto flirtassero con la trasgressione, l’ostilità, il politicamente scorretto, la marginalità, i limiti della diversità e dell’inclusione forzose, ogni tipo di sessualità o qualsiasi altra cosa che potesse essere condannata dall’ormai dilagante «avvertenza: contenuti offensivi»? Il pubblico voleva subire il lavaggio del cervello, o lo aveva già subito? Come potevano degli artisti fiorire in un ambiente in cui erano terrorizzati di esprimersi liberamente, o di assumersi grossi rischi creativi che spesso confinavano col cattivo gusto o perfino con la blasfemia, o semplicemente di mettersi nei panni degli altri senza poi essere accusati di appropriazione culturale? Prendete, per esempio, il caso di un’attrice privata di un ruolo che cercava disperatamente di interpretare perché – fate un bel respiro, compagni – non era ancora esattamente quel personaggio. Gli artisti non dovevano stare ovunque tranne che in un luogo sicuro e allergico al rischio in cui la tolleranza zero era il primo e fondamentale requisito? Tutto questo, alla fine dell’estate del 2018, somigliava non solo a una brutta anticipazione del futuro ma a un nuovo ordine mondiale da incubo. E l’iperbole di cui accusavo gli altri, mi resi conto, ora la stavo esprimendo in prima persona – ma non potevo farne a meno.
Il comportamento di Kanye continuò a confondere certa gente nei mesi successivi. A settembre, apparve in veste di ospite musicale al Saturday Night Live indossando un cappello con la scritta Make America Great Again – quello reso celebre da Trump durante le presidenziali del 2016 e che aveva fatto presa sia sulla Destra sia sulla Sinistra, una sorta di potere talismanico che era a seconda dei casi il simbolo del Male conservatore razzista e sessista o, per chi ci credeva, il simbolo del patriottismo e dell’orgoglio nazionale. Portare quel cappello era diventato, per alcuni, un atto di sfida – poteva rivelarsi pericoloso e metterti nei guai, cosa che era esattamente il motivo per cui era diventato un feticcio amato da Kanye, tanto da fargli dire, una settimana dopo, in un incontro col presidente alla Casa Bianca, che indossarlo lo aveva fatto sentire Superman. Dopodiché coronò la sua performance al SNL con un proclama improvvisato in cui elogiò il presidente, attaccò i media schierati, accusò membri del cast di forzarlo a non indossare il cappello MAGA e fondamentalmente accusò quelli di sinistra di essere i veri razzisti. E alla Casa Bianca parlò con Trump, tra le altre cose, della riforma delle carceri, dell’abolizione del Tredicesimo emendamento, e perfino di un iPlane all’idrogeno di cui fu felice di condividere i progetti col suo ospite, che definí il padre che non aveva mai avuto, e che affermò di amare moltissimo per poi chiedergli il permesso di abbracciarlo. A causa di ciò, Kanye West venne strigliato dalla maggior parte dei media e definito un «negro di contorno» e una «puttana in cerca di attenzioni» che sarebbe dovuto essere «ricoverato» e che «ciò che era accaduto» a Kanye era «ciò che accade quando un negro non legge» – questo venne detto davvero da giornalisti della Cnn e sulla Msnbc – e questa storia del negro ignorante divenne un tema di discussione nei media mainstream che erano ancora violentemente anti-Trump. È questa la fine che aveva fatto la Sinistra nell’autunno del 2018 – di modo che ti veniva da pensare cupamente: Forse questo approccio con loro funzionerebbe, oppure no.
Tuttavia prima che si verificassero questi eventi, quando stavo guidando diretto a Calabasas per l’appuntamento che mi stava dando un filo d’ansia, un dato di fatto mi attraversò la mente, concreto e inoppugnabile: il Kanye folle e incoerente che stava sconvolgendo i media nel 2018 era, in realtà, lo stesso Kanye che avevo incontrato nel 2013 in un’ala del Cedars-Sinai o a bordo piscina dietro una capanna nella casa di Kris Jenner a Calabasas nel 2014; questo Kanye non era diverso da quello con cui me ne ero andato a zonzo per le Hollywood Hills quando era nel bel mezzo dell’incisione di The Life of Pablo, o con cui mi ero aggirato per la sua casa ancora mezza in costruzione in fondo a una via privata un piovoso pomeriggio alla vigilia del Natale del 2015, dove avevamo guardato Cremaster 3 e lui mi aveva mostrato un posto che io avevo creduto fosse uno sgabuzzino ma che in realtà doveva diventare la stanza «glam» di sua moglie. Del resto, questo Kanye non era diverso dal performer che avevo visto per la prima volta allo Staples Center nel 2008, quando si era avventurato in una predica in cui aveva paragonato se stesso a Gesú, John Lennon, Walt Disney, Elvis Presley e Steve Jobs. Il suo ego e il suo narcisismo e le sue manie di grandezza, la pura follia delle sue ambizioni, e la sua energia da drago – erano sempre stati assolutamente palesi, mentre ora venivano considerati qualcosa di nuovo e contaminato, nella nuova definizione della Resistenza. Certe fazioni non riuscivano a riconoscere in lui un artista che si esprimeva attraverso metafore e poesia, che spesso era solo divertente e schivo, che non si poteva prendere alla lettera – e quel Kanye non era per nulla cambiato. Ma di certo era cambiata la categorica opposizione, a lui e a ciò che si credeva rappresentasse. – Volete che il mondo vada avanti? – chiese Kanye al pubblico del SNL appena poche settimane dopo. – Provate con l’amore.
Arrivai alla base di Kanye a Calabasas e, dopo essere stato accolto dalla security, venni accompagnato in una stanza dove lui era in pieno multitasking: stava mettendo assieme il gruppo di lavoro per il film, supervisionava la sua linea di abbigliamento, provava nuovo materiale. Da quando lo avevo conosciuto per caso cinque anni prima, non lo avevo mai visto tanto attento e concentrato e felice. Questo era Kanye al massimo della sua lucidità, e quel pomeriggio mi confermò che era, in realtà, sanissimo: era se stesso, niente scuse, non una sorta di freak drogato che farneticava su Twitter. La gente doveva solo accettare – non approvare o accogliere – che c’era un tipo che vedeva il mondo alla sua maniera, e non come avrebbe dovuto vederlo secondo gli altri. Ciò per cui Kanye si batteva nei suoi tweet su Trump era un’idea di pace e unità, in cui gli avversari potessero lavorare assieme nonostante le feroci differenze ideologiche – ecco tutto. Non era particolarmente interessato alle vere questioni politiche o alla linea programmatica presa alla lettera, ma d’altronde nessuno aveva l’aria di esserlo alla fine dell’estate del 2018. Kanye, come chiunque altro, su entrambi i lati della barricata, vedeva ormai il mondo come un teatro in cui andava sempre in scena un musical, e tutti speravano che i protagonisti somigliassero a loro cosí da dare voce alle loro opinioni. Ma, nel caso di Kanye, con la giusta dose di energia da drago narcisista, un’energia che gli consentiva, al di là di ciò che gli altri ne pensavano, di essere completamente libero.
La cosa di cui parlammo veramente io e il mio amico quella sera a Culver City – come due membri disillusi della Generazione X diventati adulti durante la combinazione destro-sinistro dei nichilisti anni Settanta e degli entusiasmanti e reaganiani anni Ottanta – era la libertà. Ma come potevi essere libero se dovevi prostrarti alle buffonate strepitanti che provenivano da entrambi i lati di un Grand Canyon che nessuno stava tentando di attraversare? Fin dal novembre del 2016 io e il mio amico avevamo entrambi sentito dire che una terribile crisi economica stava per materializzarsi, che il pianeta stava per collassare, che innumerevoli persone sarebbero morte, che le tensioni della situazione nordcoreana avrebbero portato gli Stati Uniti alla catastrofe nucleare, e che Trump avrebbe subito l’impeachment, dopo essere stato defenestrato da un video in cui pisciava – privando tutti del loro lavoro e coi carri armati russi nelle strade. Notammo anche oziosamente come il regista David Lynch non aveva potuto affermare in un’intervista che pensava che forse Donald Trump sarebbe stato ricordato come uno dei grandi presidenti della storia, non senza che il pensiero di gruppo lo costringesse a scusarsi immediatamente su Facebook. E dov’era una Resistenza capace di risultare cosí attraente e subdola da convincerti, e forse da farti vedere le cose sotto una luce piú allargata e senza paraocchi? Ma quella di cui disponevamo nel 2018 sembrava ripiegata nel sostegno al vandalismo e alla violenza. La stella di Trump su Hollywood Boulevard era stata distrutta con un piccone, un attore somigliante a un Lorax settantenne aveva detto «Vaffanculo Trump» ai Tony Awards, una conduttrice televisiva aveva definito la figlia del presidente «una cogliona irresponsabile» nel suo programma tv, un altro attore aveva suggerito che il figlio undicenne del presidente venisse chiuso in una gabbia con dei pedofili. E tutto ciò arrivava da Hollywood: la terra dell’inclusione e delle differenze. Forse a nessuno fregava assolutamente nulla di Barron Trump, perché quello era semplicemente l’anno dell’infinita serie di punti piú bassi da parte di una Resistenza che si stava avvitando in una serie di fallimenti epici dando fiato alla propria rabbia contro Trump. Forse si trattava solo di un altro episodio del reality show che si sta ancora svolgendo. O forse quando ti trovi nel calderone di una rabbia infantile, la prima cosa che perdi è la capacità di giudizio, e subito dopo il buonsenso. E infine perdi la testa e, assieme a questa, la tua libertà.