«Stephen dice che il tempo non è una linea» le dico. Cordelia alza gli occhi al cielo, come avevo previsto.
«Davvero?» replica. Questa risposta ci soddisfa entrambe. Mette a posto la questione del tempo e anche Stephen, che ci chiama ‘le teenager’, come se lui non lo fosse.
Cordelia e io siamo sul tram che va in centro, come sempre al sabato in inverno. La vettura è impregnata di aria troppo respirata e di odore di lana. Cordelia siede con aria disinvolta e ogni tanto mi dà di gomito, lanciando a qualcuno un’occhiata senza espressione con quei suoi occhi grigioverdi, opachi e scintillanti come metallo. Riesce a sostenere lo sguardo di chiunque, e io sono quasi altrettanto brava. Siamo inaccessibili, scintillanti, abbiamo tredici anni.
Portiamo lunghi cappotti di lana con la cintura, il bavero rialzato per assomigliare alle attrici, stivali di gomma con il bordo rovesciato e pesanti calze da uomo. Infilati in tasca abbiamo i fazzolettoni che le nostre madri ci fanno mettere in testa, ma che ci togliamo appena siamo lontane dalla loro vista. Non ci piacciono le cose da mettere in testa. Le nostre bocche sono dure, lucide di un rosso opaco come quello delle unghie. Pensiamo di essere amiche.
Sul tram c’è sempre qualche vecchia signora, o qualche signora che consideriamo vecchia. Alcune sono vestite da persone rispettabili, con cappotti di tweed tagliati su misura, guanti intonati e cappellini senza fronzoli, solo qualche piccola piuma sbarazzina su un lato. Altre sono più povere, sembrano straniere, portano scialli neri sulla testa e intorno alle spalle. Altre ancora sono infagottate e goffe, con la bocca stretta e severa, le braccia cariche di borse della spesa, e queste le associamo alle compere, alle botteghe delle svendite. Cordelia sa riconoscere le stoffe da poco prezzo a prima vista: «Tipo gabardine» dice. «Roba da due soldi.»
Poi ci sono quelle che non si sono rassegnate, che cercano ancora di fare effetto. Non sono molte, però danno nell’occhio. Indossano completi scarlatti o violacei, portano orecchini pendenti e cappellini che sembrano costumi di scena. Le sottovesti spuntano in fondo alle loro gonne, sottovesti di insoliti e suggestivi colori. Tutto ciò che non è bianco è suggestivo. Hanno capelli tinti di paglierino o azzurrino, oppure di un colore ancora più appariscente sulla pelle incartapecorita, di un nero sbiadito come le vecchie pellicce. Il rossetto deborda dalle labbra, la cipria è a chiazze, gli occhi pesantemente bistrati per sembrare più lunghi. Queste sono le donne che più facilmente parlano da sole. Ce n’è una che continua a ripetere «montone, montone», come una filastrocca, un’altra che ci tocca le gambe con l’ombrello e dice «tutte nude».
Questo è il tipo che preferiamo. Hanno una certa allegria, una loro fantasia, non si curano di quello che pensa la gente. Sono scappate, anche se non ci è chiaro da che cosa. Sappiamo che quel bizzarro abbigliamento e quei vezzi verbali li hanno scelti loro, e che quando sarà il momento anche noi saremo libere di scegliere.
«Diventerò così anch’io» dice Cordelia. «Solo che io avrò un pechinese bisbetico e caccerò via i ragazzini dal mio prato. Mi procurerò un bel bastone nodoso.»
«Io invece avrò un’iguana» ribatto, «e mi vestirò soltanto di rosso ciliegia.» È un colore che ho scoperto da poco.
E ora mi domando: chissà, forse non si accorgevano del loro aspetto. Può darsi che fosse semplicemente così: disturbi alla vista, un problema che ho anch’io adesso. Troppo vicina allo specchio vedo una macchia, troppo lontana non riesco a distinguere i particolari. Chissà che faccia mi sto facendo, che genere d’arte moderna mi sto pitturando addosso? Anche quando riesco a mettermi alla distanza giusta, appaio sempre diversa. Sono in fase di transizione: certi giorni sembro una trentacinquenne sciupata, altri una pimpante cinquantenne. Dipende molto dalla luce e da come socchiudo gli occhi.
Mangio nei ristoranti rosa, che per la pelle sono i migliori; quelli gialli ti fanno diventare giallo. Passo un bel po’ di tempo a pensare a queste cose. La vanità sta diventando una scocciatura, e capisco perché molte donne alla fine ci rinunciano. Ma io non sono ancora pronta.
Negli ultimi tempi mi sono sorpresa a borbottare fra me e me o a camminare per strada con la bocca leggermente aperta, un po’ piegata. Soltanto un po’, ma potrebbe essere la punta dell’iceberg, una piccola crepa nel muro che poi si allargherà, fino a diventare chissà cosa. Quali prospettive di effervescente eccentricità, quale follia?
Non ne parlerei con nessuno, tranne che con Cordelia. Ma con quale Cordelia? Quella che ho evocato poco fa con gli stivali rivoltati e il bavero rialzato, oppure quella di prima o quella di dopo? Nessuno è soltanto uno.
Se mi capitasse di incontrare di nuovo Cordelia, che cosa le direi di me? La verità, oppure qualcosa per far bella figura? Probabilmente quello di far bella figura è un bisogno che sento ancora.
Non la vedo da molto tempo, né mi aspettavo di vederla. Ma ora che sono ritornata qui, non riesco quasi a camminare per strada senza intravederla mentre volta un angolo o entra in un portone. Inutile dire che questi suoi frammenti, una spalla, il color cammello di un cappotto, il profilo di un volto, un polpaccio, appartengono tutti a donne che, viste nell’insieme, non sono Cordelia.
Non ho la minima idea di che aspetto possa avere adesso. Che sia grassa, che abbia i seni cascanti o qualche piccolo pelo grigio agli angoli della bocca? Improbabile: se lo sarebbe strappato. Porta occhiali con montatura alla moda, si è fatta il lifting, si tinge i capelli o si fa le mèches? Tutto ciò è possibile: abbiamo raggiunto entrambe quell’età di confine, quella fascia di mezzo durante la quale si può ancora credere che questi trucchi funzionino, purché si eviti la luce diretta del sole.
Penso a Cordelia che si esamina le borse sotto gli occhi, la pelle tutt’intorno allentata e raggrinzita come quella dei gomiti. Sospira e si picchietta con la crema, che è quella giusta perché Cordelia sa qual è quella giusta. Si osserva le mani che si stanno rimpicciolendo, deformandosi un po’ come le mie. È iniziato l’avvizzimento, l’invecchiamento della bocca; la linea del doppio mento, lì sotto, comincia a essere visibile nel vetro scuro del finestrino della metropolitana. Nessun altro se ne accorge ancora, a meno che non guardi attentamente; ma Cordelia e io siamo abituate a guardare attentamente.
Lascia cadere l’accappatoio, che è verde, un tenue verde marino intonato agli occhi, e dà un’occhiata dietro di sé: vede nello specchio le pieghe adipose della pelle sopra la vita, le natiche cascanti come bargigli e, quando si volta, i capelli simili a felci inaridite. Me la vedo in tuta, anche questa verde mare, a fare qualche esercizio ginnico, sudando come un maiale. So che cosa direbbe di tutto ciò, so come ridacchiavamo di disgusto e di piacere quando trovavamo la ceretta che le sorelle maggiori usavano per depilarsi le gambe, raggrumata in un vasetto cosparso di peluria. Gli aspetti grotteschi del corpo l’hanno sempre affascinata.
Immagino di incontrarla per caso. Magari con un logoro pastrano addosso e un berretto di maglia simile a un copri-teiera, seduta sul bordo del marciapiede con tutti i suoi averi in due sacchetti di plastica lì accanto, tutta presa a borbottare tra sé. «Cordelia! Non mi riconosci?» le dico. E lei, anche se mi riconosce, finge di no. Si alza e ciabatta via coi suoi piedi gonfi, avvolti in vecchie calze che fanno capolino dai buchi degli stivali di gomma, poi volge il capo a dare un’occhiata.
Anche se tutto ciò dà qualche soddisfazione, se ne ricava di più da cose peggiori. Guardo da una finestra, o magari da un balcone, e così posso vedere meglio un uomo che insegue Cordelia giù sul marciapiede, la raggiunge, le sferra un pugno nelle costole (non posso sopportarla, quella sua smorfia), la fa cadere a terra. Ma non riesco ad andare oltre.
Meglio passare alla tenda a ossigeno. Cordelia è in stato d’incoscienza. Troppo tardi sono stata chiamata al suo capezzale in ospedale. Ci sono fiori maleodoranti che appassiscono in un vaso, tubi che le entrano nelle braccia e nel naso, il rumore del respiro nell’agonia. Le tengo una mano. Ha il volto gonfio, bianco come una terracotta prima di cuocere, occhiaie giallastre che le segnano le palpebre chiuse e immobili, eppure un lieve tremito le percorre le dita; o sono io che me lo immagino? Sono lì seduta e mi domando se devo strapparle quei tubi dalle braccia, staccare la spina dalla presa. Attività cerebrale nulla, hanno detto i medici. Sto piangendo? E chi mi ha chiamata lì?
Ancora meglio, un polmone d’acciaio. Non ne ho mai visti di polmoni d’acciaio, ma quando esisteva ancora la poliomielite i giornali pubblicavano fotografie di bambini nel polmone d’acciaio. Queste fotografie del polmone d’acciaio (un cilindro, un enorme rotolo di metallo dal quale spuntava una testa, sempre quella di una bambina con i capelli sparsi sul cuscino, occhi grandi e notturni) mi affascinavano ancor più delle storie di bambini che andavano a pattinare sul ghiaccio sottile, vi precipitavano dentro e morivano annegati, oppure di quelli che giocavano sui binari della ferrovia e il treno gli tranciava le braccia o le gambe. Si può essere colpiti dalla polio senza sapere come e dove, finire in un polmone d’acciaio senza sapere perché. Qualcosa che si è respirato o mangiato, qualcosa trasmesso da monete sporche passate tra le mani degli altri. Non si può mai dire.
I polmoni d’acciaio venivano usati per spaventarci, per impedirci di fare ciò che volevamo: niente piscine pubbliche, niente luoghi affollati in estate. «Vuoi passare il resto della tua vita in un polmone d’acciaio?» dicevano. Una domanda insulsa, anche se per me questa vita così inerte, così penosa, aveva un suo fascino segreto.
Cordelia in un polmone d’acciaio, che la fa respirare come si suona una fisarmonica. Intorno a lei sibila un rumore meccanico. È perfettamente cosciente ma non può muoversi né parlare. lo entro nella stanza, mi muovo, parlo. l nostri occhi s’incontrano.
Cordelia deve pur vivere da qualche parte. Potrebbe essere qui, a un chilometro di distanza, abitare forse nella casa accanto. Ma in fin dei conti non ho idea di ciò che farei se mi capitasse d’incontrarla per caso, nella metropolitana ad esempio, seduta di fronte a me o mentre legge cartelloni pubblicitari aspettando il treno. Saremmo lì, fianco a fianco, a guardare una grande bocca rossa che si distende intorno a una stecca di cioccolato, io che mi volto verso di lei e le dico: ‘Cordelia, sono io, Elaine’. Lei si volterebbe: lancerebbe un gridolino teatrale? Mi ignorerebbe?
Oppure sarei io a ignorarla, se ciò accadesse? Forse mi avvicinerei a lei senza parlare, le getterei le braccia al collo. O ancora potrei prenderla alle spalle, scuoterla e ancora scuoterla.
Mi sembra di camminare da ore giù per la collina, verso il centro, dove i tram non passano più. È sera, uno di quegli acquerelli tutti grigi come polvere liquida con i quali la città si presenta in autunno. Il clima, in ogni caso, mi è ancora familiare.
Ora sono arrivata al punto in cui scendevamo dal tram; era gennaio e si camminava tra cumuli di neve sporca ammucchiati ai bordi dei marciapiedi, nel vento graffiante che dal lago si infilava tra gli scialbi edifici dal tetto piatto, che per noi erano quanto di più vicino ci fosse alla civiltà. Ma questa parte della città non è più piatta, né squallida e pretenziosa. Scritte al neon in corsivo decorano le facciate di mattoni tutte restaurate e si vedono un mucchio di guarnizioni d’ottone, un mucchio di beni immobili, un mucchio di soldi. Più avanti si elevano imponenti torri oblunghe, tutte di vetro e illuminate, simili a enormi pietre tombali di luce fredda. Beni congelati.
Non dedico molta attenzione alle torri, né alla gente che mi passa accanto coi suoi vestiti alla moda, roba d’importazione, cuoio cucito a mano, pelle scamosciata o cose del genere. Guardo in basso giù sul marciapiede, come un investigatore.
Sento una stretta alla gola, e un dolore mi percorre la mascella. Ho ricominciato a mordicchiarmi le dita. Sento il sangue, un sapore che ricordo. Sa di ghiaccioli all’arancio, di gomma americana, di liquirizia rossa, di capelli masticati, di ghiaccio sporco.