Sono parecchie le malattie della memoria. L’amnesia dei nomi, per esempio, o dei numeri. E anche altre forme più complesse di amnesia. In qualche caso si può perdere il passato e ricominciare tutto daccapo, si deve imparare ad allacciarsi le stringhe delle scarpe, a mangiare con la forchetta, a leggere e a cantare. Si viene presentati ai propri parenti, ai più vecchi amici, come se non si fossero mai conosciuti, e con loro si crea un’altra possibilità, migliore del perdono perché si può iniziare dall’innocenza. In altri casi, si può conservare il passato lontano ma perdere il presente. Non si riesce a ricordare che cos’è accaduto cinque minuti prima. Quando una persona che si conosce da una vita esce dalla stanza e poi ritorna, la si saluta come rivedendola dopo vent’anni, si piange a dirotto di gioia e di sollievo, come in una riunificazione con i defunti.
A volte mi domando quale di queste forme mi colpirà in futuro, perché so che una di esse mi colpirà.
Per anni ho desiderato essere più vecchia, e ora lo sono.
Sono seduta nel tetro ultranero del Quasi, e bevo vino rosso guardando fuori dalla finestra. Dall’altra parte del vetro passa Cordelia, poi si scioglie e si ricompone, trasformandosi in qualcun altro. Un altro errore di identità.
Perché le hanno dato quel nome, perché questo giogo sulle spalle? Cuore di luna, gioiello del mare, a seconda di quale lingua straniera si usi. La terza sorella, quella buona. Quella testarda, respinta, quella che non veniva ascoltata. Se fosse stata chiamata Jane, le cose sarebbero andate diversamente?
Mia madre mi ha chiamato col nome della sua migliore amica, come facevano le donne a quei tempi. Elaine, un nome che una volta trovavo troppo lamentoso. Volevo qualcosa di più definito, un monosillabo come Dot o Pat, simile al passo di un piede. Niente su cui fosse possibile confondersi, niente di nebuloso. Il mio nome, però, col passare del tempo mi si è solidificato. Ora è solido e al contempo malleabile, come un guanto ben portato.
C’è un mucchio di ‘neo-nero’, qui dentro, un po’ in pelle, un po’ in vinile lucido. Sono venuta preparata, questa volta: ho una maglia di cotone nero col collo alto e l’impermeabile nero con il cappuccio abbottonato, ma sono io che non sono del tessuto adatto. E nemmeno l’età è adatta, qui dentro hanno tutti dodici anni. Questo posto l’ha suggerito Jon. Fidarsi di lui è come aggrapparsi alla tavola del surf quando rimane sospesa sulla schiuma dell’ultima ondata.
Ha sempre seguito il principio di arrivare in ritardo per far capire che era impegnato in molte cose, tutte più importanti di me, e anche oggi non fa eccezione. Compare trenta minuti dopo l’ora convenuta, ma questa volta almeno si scusa. Ha imparato qualcosa, oppure la nuova moglie gli ha insegnato un po’ di buone maniere? Buffo che continui a chiamarla ‘nuova’.
«Non ti preoccupare, l’avevo messo in conto» gli dico. «Mi fa piacere che ti abbiano dato il permesso di uscire a giocare.» Una piccola stoccata preliminare a sua moglie.
«Un pranzo con te non si può certo considerare un gioco» replica lui con un sogghigno.
È ancora all’altezza. Ci scrutiamo. In quattro anni ha aggiunto altre rughe, le basette e i baffi stanno ingrigendo. «Non accennare alla chiazza pelata» mi avverte.
«Quale chiazza pelata?» domando, per fargli capire che ignorerò il suo decadimento fisico se lui non accennerà al mio. Anche in questo caso si mostra all’altezza.
«Sei più in forma che mai» dice. «Si vede che vendere quadri deve farti bene.»
«Sì, è vero» replico. «È molto meglio che leccare il culo e squartare corpi di donne nei film dell’orrore.» Una frase come questa avrebbe provocato fuoco e fiamme, un tempo, ma ormai dev’essersi rassegnato al suo ruolo nella vita. Scrolla le spalle, sforzandosi di prenderla come meglio può, ma sembra stanco.
«Dai tempo al tempo, e il lecchino diventa il leccato» risponde. «Fin dal tempo dell’occhio che esplode, non riesco a fare niente di sbagliato. In questo momento sono ricoperto di saliva dalla testa ai piedi.»
Affiora il rischio di volgari insinuazioni d’argomento sessuale, ma lo scanso. Penso invece che abbia ragione: siamo tutti e due affermati, adesso, per quel che ciò può significare. O probabilmente ne abbiamo l’aria. Una volta le persone che conoscevo morivano suicide, in incidenti di motocicletta o per altre cause di morte violenta. Ora muoiono di malattia: infarti, tumori, cedimenti del fisico. Il mondo comincia a essere governato da persone della mia età, da uomini della mia età con calvizie incipiente e con preoccupazioni per la salute, e ciò mi spaventa. Quando coloro che governavano erano più anziani di me, potevo fidarmi della loro saggezza, potevo credere che avessero superato la collera, la malizia e il bisogno di essere amati. Ora ho maggiore esperienza. Guardo quelle facce sui giornali e sulle riviste, e mi domando: quali avidità, quali furori li spingono?
«Come va il tuo vero lavoro?» gli domando, addolcendomi per fargli capire che lo prendo ancora sul serio.
Questo lo preoccupa. «Bene» risponde. «Non ho potuto occuparmene molto, negli ultimi tempi.»
Rimaniamo in silenzio, pensando alle nostre carenze. Non ci è rimasto molto per diventare quello che volevamo un tempo. Jon aveva delle potenzialità, ma questa è una parola che ora non può più essere usata senza un certo disagio. Le potenzialità hanno una loro scadenza.
Parliamo di Sarah, tranquillamente e senza competitività, come se fossimo suoi zii. Parliamo della mia mostra.
«Immagino che avrai visto quella stroncatura sul giornale» gli dico.
«Era una stroncatura?» domanda.
«Colpa mia. Sono stata sgarbata con l’intervistatrice» gli dico, sforzando un tono contrito. «Sto facendo di tutto per diventare una vecchia strega bisbetica.»
«Diversamente rimarrei deluso» commenta. «Falli sudare, è per questo che sono pagati.» Ridiamo tutti e due. Lui mi conosce e sa che pezzo di merda posso essere.
Lo guardo con quell’affettuosa nostalgia che gli uomini dicono di provare per il tempo di guerra, per i loro commilitoni, e penso: ‘Una volta lanciavo oggetti contro quest’uomo’. Gli ho lanciato un portacenere di vetro, non molto costoso, che non si è rotto. Gli ho scagliato una scarpa (la sua) e una borsetta (la mia), senza nemmeno chiuderla, così è rimasto sommerso sotto una pioggia di chiavi e di monetine. La cosa peggiore che gli ho scagliato contro è stato un piccolo televisore portatile, in piedi sul letto, sollevandolo con l’aiuto delle molle, anche se nell’istante in cui l’ho lanciato ho pensato: ‘Dio , fa’ che si scansi!’. Una volta pensavo che sarei stata capace di ucciderlo. Oggi provo soltanto un vago rimpianto al pensiero che a quel tempo non eravamo abbastanza civili l’uno con l’altra. Eppure erano inspiegabili tutti quei furori, quelle sconsideratezze, quelle distruzioni in technicolor. Inspiegabili e strazianti, quasi letali.
Ora che sono più o meno al sicuro da lui, e lui da me, posso ricordarlo con affetto e anche nei particolari, cosa che non posso dire di molti altri. I vecchi amanti finiscono come le vecchie fotografie, sbiadiscono a poco a poco come in un lento bagno di acido, prima i nèi e i foruncoli, poi le sfumature, poi la faccia stessa, finché non rimane altro che il profilo. Che cosa rimarrà di loro quando avrò settant’anni? Niente dell’estasi barocca, niente di quella compulsione grottesca. Una parola o due, che si librano nel vuoto interiore. Magari il dito d’un piede, una narice, un baffo, che galleggiano come un ricciolo di alga in mezzo ad altri relitti.
Davanti a me, al tavolo color nero-notte, Jon, pur rimpicciolendosi, continua nondimeno a muoversi, a respirare. Sento dentro di me un residuo di dolore, di rimpianto. ‘Non andare! Non è ancora il momento! Non andare!’ Come sempre, sarebbe stupido rivelargli il mio sentimentalismo, la mia debolezza.
Quello che mangiamo è vagamente tailandese: un pollo speziato e saporito, un’insalata esotica di foglie rosse con frammenti purpurei. Una cucina sgargiante. Sono queste le cose che mangia adesso la gente, la gente che mangia in posti come questo: Toronto non è più la città del pasticcio di pollo, dello stufato di carne e delle verdure stracotte. Ricordo il mio primo avocado, avevo ventidue anni. È stato come per mio padre il primo concerto sinfonico. Ho un perverso desiderio dei dolci della mia infanzia, quelli del tempo di guerra, semplici, poco costosi e insapori: il budino di tapioca con i suoi pallini gelatinosi, i crème caramel Jell-O, il Junket. Il Junket era fatto di tavolette bianche che uscivano da un tubo, e veniva servito con una cucchiaiata di gelatina d’uva in cima. Probabilmente è scomparso.
Jon ha ordinato una bottiglia intera e non un bicchiere per volta. È un segno del vecchio spaccone, del pavone vanitoso, ed è rassicurante.
«Come sta tua moglie?» gli chiedo.
«Be’» risponde, abbassando gli occhi, «Mary Jane e io abbiamo deciso di provare a stare separati per un po’.»
Questo potrebbe spiegare la tisana, una furtiva presenza, più giovane, più vegetariana, nello studio. «Immagino che avrai fatto qualche piccolo numero» commento. «Dicono sempre che lui se n’è andato e mai che si sono separati, l’hai notato?»
«Per dire la verità» risponde, «è stata Mary Jean che se n’è andata.»
«Mi dispiace» gli dico. E subito mi dispiace davvero, anzi sono indignata: come ha potuto fargli una cosa simile, quella gelida, insensibile sgualdrina? Mi schiero subito dalla parte di Jon nonostante anch’io gli abbia fatto la stessa cosa, tanti anni fa.
«Penso che la colpa sia anche mia» soggiunge. È qualcosa che una volta non avrebbe mai ammesso. «Ha detto che non riusciva a capirmi.»
Ci potrei scommettere, non avrà detto soltanto questo. Jon ha perso qualcosa, qualche illusione che pensavo gli fosse necessaria. È arrivato a capire che anche lui è umano. Oppure è una esibizione a mio beneficio, per dimostrarmi quanto sia cambiato? Forse agli uomini era meglio non dirlo, che hanno una natura umana. È servito soltanto a metterli a disagio. È servito soltanto a renderli più infidi, più astuti, più sfuggenti, più indecifrabili.
«Se tu non fossi stato così pazzo» gli dico, «avrebbe potuto anche funzionare. Tra noi due, voglio dire.»
Questo gli fa alzare di scatto la testa. «Chi era il pazzo?» ribatte, sogghignando ancora. «Chi ha portato l’altro in macchina all’ospedale?»
«Se non fosse stato per te» replico, «non sarebbe stato necessario portarmi in ospedale.»
«Questo non è giusto e lo sai» risponde.
«Hai ragione» dico. «Non è giusto. Sono contenta che tu mi abbia portata in ospedale.»
Perdonare gli uomini è molto più facile che perdonare le donne.
«Ti accompagno dove stai andando» mi propone, quando usciamo in strada. Mi piacerebbe. Stiamo andando bene insieme, ora che non c’è più niente in gioco. Posso capire perché mi sono innamorata di lui. Ma ora non ne avrei più le forze.
«Va bene così» rispondo. Non voglio ammettere che non so dove sto andando. «Grazie per lo studio. Fammi sapere se hai bisogno di qualcosa lì dentro.» So bene, però, che non salirà finché ci sono io, sarebbe ancora troppo imbarazzante e anche rischioso, essere lì insieme dietro una porta con la serratura.
«Si potrebbe magari bere qualcosa insieme, più tardi» mi dice.
«Sì, magari» rispondo.
Lasciato Jon, m’incammino in direzione sud lungo il Queen, oltre i venditori ambulanti che offrono strane T-shirt, oltre le giarrettiere e le mutandine di seta esposte nelle vetrine. Sto pensando a un quadro che ho dipinto ormai parecchi anni fa. S’intitolava Donne che cadono. Molti dei miei quadri hanno avuto origine da una confusione sul significato delle parole.
Non ce n’erano di uomini in questo mio dipinto, ma il soggetto erano loro, quelli che avevano fatto cadere le donne. Non attribuivo nessuna intenzionalità a questi uomini. Erano come il tempo meteorologico, non avevano una loro mente. Semplicemente ti infradiciavano di pioggia o ti colpivano come il fulmine, poi se ne andavano senza pensarci, come un temporale. Oppure erano come rocce, una fila di rocce aguzze e scivolose con i bordi frastagliati. Si può camminare sulle rocce purché si faccia attenzione, badando a dove si posano i piedi; ma se si scivola, se si cade e ci si taglia, non serve a niente dare loro la colpa.
Doveva essere questo che intendevo per donne cadute. Le donne cadute erano le donne che erano inciampate negli uomini e si erano fatte male. Nel quadro veniva suggerito un movimento verso il basso, contro il proprio volere ma non per volere di altri. Le donne che cadevano non erano trascinate né spinte in giù, semplicemente cadevano. Naturalmente c’era un riferimento a Eva e alla caduta, ma niente che riguardasse la caduta raccontata da quella storia, che come molte storie per bambini riguardava soltanto il tema del cibo.
Donne che cadono mostrava le donne, in tre, che cadevano come per caso da un ponte, le sottane gonfiate a campana dal vento, i capelli ritti. Cadevano giù, sopra gli uomini invisibili, frastagliati e scuri, che se ne stavano senza volontà propria molto più sotto.