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Sto guardando una donna nuda. In fotografia sarebbe un nudo, ma qui non è in fotografia. È la prima donna nuda che abbia mai visto, a parte me stessa nello specchio. Le ragazze, nello spogliatoio delle scuole superiori, indossavano sempre reggipetto e mutandine; non è la stessa cosa, e nemmeno le donne m costume da bagno a un pezzo, in tessuto elastico Lycra, pudicamente schermate, che si vedono nella pubblicità delle riviste.

Anche questa donna non è completamente nuda, perché ha un lenzuolo drappeggiato sulla coscia sinistra, infilato tra le gambe: la peluria non si vede. È seduta su uno sgabello, le natiche debordanti ai lati, la robusta schiena curva, la gamba destra accavallata sulla sinistra all’altezza del ginocchio, il gomito destro posato sul ginocchio destro, il braccio sinistro dietro, con la mano sullo sgabello. Ha lo sguardo annoiato e la testa che ciondola in avanti, nella posizione in cui l’hanno messa. Sembra inibita, scomoda e anche infreddolita, le si vede la pelle d’oca sugli avambracci. Ha il collo grosso. I capelli sono ricciuti e corti, rossi e più scuri alla radice; sospetto che stia masticando gomma, perché di quando in quando si vede un lento, furtivo movimento laterale della mascella. Non dovrebbe muoversi.

Sto tentando di disegnare questa donna con un carboncino. Vorrei arrivare alla fluidità della linea. È così che l’ha messa in posa l’insegnante, per rappresentare la fluidità della linea. Preferirei usare una matita dura, il carboncino mi scivola tra le dita e le macchia, non è adatto per disegnare i capelli. Anche questa donna mi mette a disagio. Ha un mucchio di carne, soprattutto sotto la cintola, lo stomaco è attraversato da pieghe, i seni sono cascanti e hanno enormi capezzoli scuri. La cruda luce fluorescente che le cade addosso trasforma in caverne le orbite dei suoi occhi e accentua le linee che discendono dal naso al mento; la mole massiccia del corpo fa sì che la sua testa sembri un ripensamento. Non è bella, temo di esagerare questo aspetto.

È una lezione serale del corso di ‘Disegno dal vero’ che si svolge il martedì nella Scuola d’arte di Toronto, in una grande aula spoglia, oltre la quale c’è una scala di servizio e poi McCaul Street, poi Queen, con i suoi ubriachi e le rotaie del tram, e ancora più in là Toronto, quadrata come una scatola. Siamo in una dozzina nell’aula, con i nostri speranzosi e quasi nuovi album da disegno in carta Bristol, e le dita sporche di nero: due donne più anziane, otto giovanotti, un’altra ragazza della mia età e io. Non sono una studentessa di questa scuola, ma a certe condizioni anche quelli che non sono studenti possono iscriversi al corso. Le condizioni sono che si deve convincere l’insegnante di voler fare sul serio. Non si sa bene quanto tempo rimarrò qui.

L’insegnante è il signor Hrbik, un uomo fra i trenta e i quarant’anni con folti capelli ricciuti e scuri, i baffi, un naso aquilino e occhi che sembrano quasi rossi, simili a more di gelso. Ha l’abitudine di fissare gli altri senza parlare e, a quanto pare, senza battere nemmeno le palpebre.

Sono gli occhi la prima cosa che ho notato, andando al colloquio con lui. Seduto nel suo piccolo ufficio tappezzato, all’università, se ne stava appoggiato allo schienale della sedia masticando l’estremità di una matita. Quando mi vide posò la matita.

«Quanti anni ha?» mi domandò.

«Diciassette» risposi. «Quasi diciotto.»

«Ah» disse con un sospiro, come se fosse una brutta notizia. «Che cosa ha fatto?»

Dal tono sembrava che mi stesse accusando di qualcosa. Poi capii cosa intendeva: dovevo portare una cosa chiamata ‘cartella dei lavori recenti’, cioè dei disegni, in modo che potesse giudicarmi. Ma non avevo molti lavori da portare. Il mio più o meno unico rapporto con l’arte l’avevo avuto alle superiori, durante il corso di educazione artistica che dovevamo seguire in nona classe, quando ascoltavamo Serenata al chiaro di luna interpretandola con linee ondulate a pastello, oppure disegnavamo tulipani in un vaso. Non ero mai stata in una galleria d’arte, ma avevo letto un articolo su Picasso sulla rivista ‘Life’.

L’estate prima, quando rifacevo letti e pulivo gabinetti in un albergo di Muskoka per guadagnare qualche soldo in più, avevo acquistato in un emporio per turisti una valigetta per dipingere a olio. I nomi scritti sui tubetti dei colori erano simili a parole d’ordine: ‘Blu cobalto’, ‘Terra d’ombra bruciata’, ‘Lago cremisi’. Nel mio tempo libero portavo questa valigetta sulla spiaggia e me ne stavo lì seduta con la schiena appoggiata a un albero, sugli aghi di pino che mi pungevano da sotto; tra sciami di moscerini che mi ronzavano intorno, guardavo la piatta distesa metallica dell’acqua e gli entrobordo di mogano verniciato che la solcavano con la bandierina a prua. Su quelle imbarcazioni andavano a volte altre cameriere, quelle che partecipavano ai festini illeciti nelle camere dei clienti, dove bevevano whisky di segale e ginger ale in bicchieri di carta, e si diceva che facessero anche altro. Erano già avvenuti lacrimosi alterchi nella stanza della lavanderia, tra le lenzuola stirate.

Non sapevo come dipingere e nemmeno che cosa, ma sapevo che dovevo iniziare. Dopo un po’ avevo dipinto una bottiglia di birra senza etichetta e un albero che sembrava un piumino spelacchiato, e parecchie immagini incerte di rocce dai colori melmosi, con un lago violentemente azzurro sullo sfondo. E anche un tramonto, somigliante a qualcosa che ci si può rovesciare addosso.

Gli mostrai queste cose nella cartelletta nera in cui le avevo portate. Il signor Hrbik aggrottò la fronte e si mise a rigirare tra le dita la matita senza parlare. Ero scoraggiata e anche intimidita per via del potere che aveva su di me, il potere di escludermi. Potevo vedere che questi miei dipinti li giudicava brutti. Ed erano realmente brutti.

«Nient’altro?» domandò. «Qualche disegno?»

Per disperazione, avevo preso con me anche qualche mio vecchio disegno di biologia, a matita e con sfumature colorate. Non avevo niente da perdere, e così li avevo portati con me.

«Che cos’è questo?» mi domandò, prendendo un disegno capovolto.

«È l’interno di un verme» risposi.

Non manifestò alcuna sorpresa. «E questo?»

«Una planaria. In sezione colorata.»

«E questo?»

«È il sistema riproduttivo di una rana. Una rana maschio» aggiunsi.

Il signor Hrbik mi fissò con i suoi scintillanti occhi purpurei. «Perché vuole iscriversi a questo corso?» domandò.

«Perché è l’unico al quale posso iscrivermi» risposi. Poi mi accorsi che suonava davvero male. «È la mia unica speranza. Non conosco nessun altro che possa insegnarmi.»

«E perché vuole imparare?»

«Non lo so.»

Il signor Hrbik allora prese la matita e se la infilò in un angolo della bocca, come una sigaretta. Poi la prese di nuovo in mano e si fece scorrere le dita tra i capelli. «Lei è un’autentica dilettante» mi disse, «ma a volte è meglio così. Possiamo iniziare da zero.» Poi per la prima volta mi sorrise. Aveva denti disuguali. «Vedremo che cosa si può fare di lei» mi disse.

 

Il signor Hrbik cammina nell’aula. Dispera di tutti noi, compresa la modella, che lo esaspera continuando a masticare furtivamente una gomma. «Stia ferma!» le dice, tirandola per i capelli. «Basta con questa gomma.» La modella gli scaglia una malevola occhiata e stringe le mascelle. Con la faccia imbronciata, le prende le braccia e la testa disponendole in un altro modo, come se appartenessero a un manichino. «Proviamo ancora.»

Cammina avanti e indietro in mezzo a noi, sbirciando alle nostre spalle e borbottando tra sé, mentre l’aula si riempie del rumore raschiante del carboncino sulla carta. «No, no» dice a uno dei ragazzi. «Questo è un corpo.» Pronuncia ‘cavpo’. «Non è un’automobile. Deve pensare alle dita, a toccare questa carne o a farci scorrere sopra la mano. Dev’essere qualcosa di tattile.» Mi sforzo di pensare come vuole lui, ma mi ripugna. Non ho nessuna voglia di far scorrere le dita sulla pelle d’oca di questa donna.

Poi dice a una delle donne più anziane: «Non vogliamo che sia bello. Il cavpo non è bello come un fiore. Disegni quello che c’è». Si ferma dietro di me e nell’attesa io mi rimpicciolisco. «Non stiamo illustrando un testo di medicina» mi dice. «Lei ha fatto un cadavere, non una donna.» La pronuncia ‘tonna’.

Guardo quello che ho disegnato e vedo che ha ragione. Sono stata accurata e attenta, ma ho disegnato una bottiglia a forma di persona, inerte, senza vita. Il coraggio che mi ha portata fin qui svanisce. Non ho nessun talento.

Ma al termine della lezione, dopo che la modella si è alzata rigidamente in piedi, avvolgendosi nel lenzuolo prima di andare a vestirsi, mentre sto riponendo il carboncino il signor Hrbik mi si avvicina. Strappo i disegni che ho fatto e sto per buttarli, ma lui posa subito una mano sulla mia. «Li conservi» mi dice. «Perché?» domando. «Non sono riusciti bene.»

«Li guarderà dopo» mi dice, «e vedrà fino a dove è arrivata. Lei sa disegnare molto bene gli oggetti, ma non è ancora capace di disegnare la vita. Dio ha fatto il campo di fango e poi ci ha alitato l’anima. Sono necessari tutti e due, il fango e l’anima.» Mi rivolge un breve sorriso, mi stringe l’avambraccio. «Dev’esserci passione.»

Lo guardo sconcertata. Quello che dice è trasgressivo: non si parla del corpo se non a proposito di malattie, né dell’anima se non in chiesa, e nemmeno della passione se non intendendo il sesso. Ma il signor Hrbik è straniero, e non si può pretendere che lo sappia.

«Lei è una tonna non finita» soggiunge a voce più bassa, «ma qui sarà finita.» Non sa che ‘finita’ significa qualcosa che non esiste più. Lui intende darmi un incoraggiamento.