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Sono in una birreria a bere birra alla spina da dieci cents con gli altri studenti del corso di Disegno dal vero. Arriva lo scontroso cameriere, tenendo in equilibrio su una mano un vassoio circolare, e posa pesantemente i bicchieri, comuni bicchieri per l’acqua, pieni di birra. La schiuma trabocca. Non mi piace molto il sapore della birra, ma ormai ho imparato a berla. Ne so persino abbastanza da spargerci un po’ di sale in cima, in modo da far calare la schiuma.

Questa birreria ha un tappeto rosso scolorito, tavolini neri dozzinali e sedie di plastica imbottite, illuminazione scarsa e l’odore dei portacenere in auto, proprio come le altre birrerie che frequentiamo. Hanno nomi come Lundy’s Lane o Taverna della Foglia d’Acero e sono sempre buie, anche durante il giorno, perché non gli hanno dato il permesso di metterci delle finestre per guardare all’interno dalla strada. Lo scopo è di impedire la corruzione dei minori. Anch’io sono minorenne, non ho ancora ventun’anni, l’età minima per poter bere, ma nessuno dei camerieri mi ha mai chiesto la carta d’identità. Jon dice che sembro così giovane da far pensare che, se non avessi l’età minima, non avrei mai il coraggio di entrare.

Le birrerie sono divise in due parti. La parte riservata agli uomini è quella frequentata da rissosi e chiassosi ubriachi; dai pavimenti coperti di segatura sale un odore di birra rovesciata, di urina stantia e di vomito. A volte lì dentro capita di udire grida e schianti di vetri rotti, e di vedere poi un paio di corpulenti camerieri che sbattono fuori qualcuno che si dimena e si sbraccia, con il naso sanguinante.

La parte per le signore e i loro accompagnatori è più pulita e tranquilla, più signorile, puzza di meno. Gli uomini qui non possono entrare se non con una donna, mentre le donne non possono entrare nella parte riservata agli uomini. Ciò ha lo scopo di impedire alle prostitute di importunare gli uomini e agli alcolizzati di importunare le donne. Colin, che viene dall’Inghilterra, ci parla dei pub inglesi, dove ci sono caminetti, dove si può giocare a freccette, passeggiare qua e là e perfino cantare, ma niente di tutto ciò è consentito in queste birrerie. Sono fatte per bere birra, punto e basta. Se qualcuno ride troppo forte può essere invitato ad andarsene.

Gli studenti del corso di Disegno dal vero preferiscono la parte riservata a ‘Signore e accompagnatori’, ma per entrare hanno bisogno di una donna. È per questo che mi invitano, e qualche volta mi offrono perfino la birra. Sono il loro passaporto. A volte sono l’unica ragazza disponibile dopo la lezione perché Susie, l’altra ragazza della mia età, spesso si rifiuta, mentre Marjorie e Babs ritornano a casa. Sono sposate, non vengono prese sul serio. l ragazzi le chiamano ‘signore pittrici’.

«Se loro sono signore pittrici, io cosa sono?» domando.

«Una ragazza pittrice» scherza Jon.

Colin, che ha belle maniere, mi spiega: «Se vali poco, sei una signora pittrice. Altrimenti sei soltanto una pittrice». Loro non dicono ‘artista’: per quanto li riguarda, qualsiasi pittore che si definisca artista è una ‘merda’.

Ho smesso di farmi dare appuntamenti come una volta, in un certo senso non è più una cosa seria. E poi non mi invitano più tanto spesso, dopo la comparsa dei maglioni neri col collo alto; i ragazzi del tipo blazer e camicia bianca sanno bene cosa fa per loro. In ogni caso sono ragazzi, non uomini. Le loro guance rosse, il loro modo di ridacchiare in gruppo, le loro categorie di brave e non brave ragazze, i loro ingordi, maldestri tentativi di spingersi oltre la frontiera delle giarrettiere e dei reggipetti non mi interessano più. Mi interessano invece i baffi di lunga data e le dita macchiate di nicotina, le rughe dell’esperienza, le palpebre pesanti, una stanca conoscenza del mondo e gli uomini che sanno aspirare dalla bocca il fumo delle sigarette ed emetterlo con disinvoltura dalle narici. Non so bene da dove arrivi un’immagine del genere. Mi sembra che sia giunta qui dal nulla, già definita.

Gli studenti del corso di Disegno dal vero non sono così, anche se non indossano nemmeno i blazer. Con i loro indumenti deliberatamente scadenti e sporchi di vernice, con la peluria che gli è da poco spuntata sulla faccia, stanno attraversando una fase di transizione. Anche se parlano, diffidano delle parole: uno di loro, Reg, che viene dal Saskatchewan, è così taciturno da risultare praticamente muto, e questa sua afasia gli conferisce un’autorità particolare, come se le arti visive gli avessero consumato una parte del cervello e l’avessero messo in una condizione di beata idiozia. Diffidano di Colin, l’inglese, non perché parla molto, ma perché parla troppo bene. I veri pittori grugniscono, come Marlon Brando.

Però riescono a far capire i loro sentimenti. Sono scrollate di spalle, mormorii, frasi lasciate in sospeso, movimenti delle mani come colpi sferrati, pugni chiusi, dita aperte, sculture abbozzate nell’aria. A volte questo linguaggio dei segni riguarda la pittura di altre persone: «Mi ha rotto» dicono, o molto più di rado: «È un fan-cazz-astico». Non sono molte le cose che approvano. Pensano anche loro che Toronto sia una ‘fogna’. «Qui non succede mai niente» dicono, e molte loro conversazioni hanno come argomento piani di fuga. Parigi è ormai finita e neppure Colin, l’inglese, vuole ritornare in Inghilterra. «Laggiù dipingono tutti in giallo e verde» dice. «Giallo e verde, come la cacca d’anitra. Una cosa deprimente.» Soltanto New York può andare bene. È lì che succede tutto, è lì che si fanno i movimenti.

Quando hanno bevuto parecchie birre, può capitare che parlino di donne. Parlano delle loro amichette, alcune delle quali convivono con loro, e le chiamano ‘la mia vecchia’. Oppure fanno battute sulle modelle del corso, che cambiano ogni sera, e parlano di andare a letto con loro come se ciò dipendesse soltanto dalla loro disposizione o riluttanza. Davanti a questa eventualità esistono due possibili reazioni: uno schioccare di labbra o un conato di nausea. «Una vecchia vacca» dicono. «Un armadio», «Che schifo». A volte, mentre ne parlano, mi lanciano delle occhiate per vedere come reagisco. Quando le descrizioni del corpo si fanno troppo dettagliate («Una gnocca come il culo di un elefante», «Che ne diresti, eh, di fotterti un’elefantessa?»), si zittiscono l’un l’altro come se fossero in presenza della mamma, come se non avessero ancora deciso chi sono io.

Tutto ciò non mi offende, anzi, mi sento privilegiata: faccio eccezione a qualche regola che nemmeno io ho identificato. Sono qui seduta nella penombra, nell’aria viziata di birra e di fumo di sigarette, un po’ stordita, con la bocca chiusa e gli occhi aperti. Penso di poterli vedere chiaramente perché da loro non mi aspetto niente. In verità mi aspetto molto. Mi aspetto di essere accettata.

 

C’è qualcosa, in loro, che non mi piace: prendono in giro il signor Hrbik. Si chiama Josef e loro lo chiamano zio Joe, come Stalin, perché ha i baffi e un accento est-europeo, e perché è autoritario nelle sue opinioni. Questo è ingiusto perché io so, come ormai tutti sanno, che è stato cacciato via da quattro diversi paesi a causa delle traversie della guerra e che si è trovato in trappola dietro la Cortina di ferro, che ha vissuto negli stenti ed è quasi morto di fame, che è fuggito durante la rivoluzione ungherese, probabilmente a rischio della vita. Non ha mai parlato con chiarezza di quelle circostanze: anzi, in classe non ha mai accennato a niente di tutto ciò. Però lo sappiamo.

Ma tutto questo non fa nessuna differenza per i ragazzi. Disegnare vecchie vacche, il signor Hrbik, tutta questa è roba vecchia. Lo chiamano D.P., e cioè displaced person, una persona fuori posto, un insulto che ricordo già dal tempo delle superiori. È così che venivano chiamati i profughi europei e in generale tutte le persone stupide, goffe, disadattate. Imitano il suo accento e il modo di parlare del suo corpo. Seguono il corso di Disegno dal vero soltanto perché è materia d’esame, ma non è il disegno dal vero che importa. Importa l’Action Painting, per la quale non è sicuramente necessario saper disegnare: in particolare non è necessario saper disegnare una vacca senza vestiti. In ogni caso seguono il corso, scarabocchiando col carboncino, sforzandosi continuamente di rendere seni e natiche, cosce e colli, e qualche sera nient’altro che piedi, come faccio anch’io, mentre il signor Hrbik cammina avanti e indietro, strappandosi i capelli per la disperazione.

Le facce dei ragazzi sono impassibili. A me il loro disprezzo appare evidente, ma il signor Hrbik non se ne accorge. Mi dispiace per lui, e gli sono grata perché mi ha ammessa al corso. E poi lo ammiro. La guerra è ormai abbastanza lontana per sembrare una cosa romantica, ma lui c’è passato in mezzo. Mi domando se abbia in corpo qualche foro di pallottola o altri ricordi analoghi.

 

Questa sera, nella parte riservata alle ‘Signore e accompagnatori’ della Taverna della Foglia d’Acero non ci siamo soltanto i ragazzi e io. C’è anche Susie.

Susie ha i capelli gialli e si può vedere che se li arriccia, li acconcia e poi li arruffa, con punte biondo cenere in fondo. Anche lei indossa jeans e maglioni neri a dolce vita ma i suoi jeans sono più attillati; di solito, poi, porta qualcosa intorno al collo, una catenina d’argento o un medaglione. Si trucca gli occhi tracciando una pesante linea nera sulle palpebre, in stile Cleopatra, con mascara nero e fumosi ombretti azzurro scuro, così i suoi occhi si cerchiano d’un azzurro livido come se qualcuno l’avesse picchiata. Usa una cipria bianca e un rossetto rosa pallido che la fanno sembrare malata, come se da settimane andasse a dormire sempre tardissimo. Con quelle anche larghe e i seni troppo grossi rispetto alla sua statura, sembra un pupazzo di gomma che sia stato schiacciato sulla testa e si sia gonfiato in questi punti. Ha una voce flebile, ansimante, una risatina nervosa, e pure un nome che ricorda un piumino per la cipria. La considero una ragazzina sciocca che sta perdendo tempo alla scuola d’arte, troppo stupida per andare all’università; sui ragazzi, invece, non esprimo giudizi simili.

«Zio Joe era furibondo, questa sera» dice Jon. Jon è alto, con le basette e le mani grosse. Indossa un giubbotto di tela con un mucchio di bottoni automatici. Insieme a Colin, l’inglese, è quello che sa parlare meglio. Usa parole come ‘purezza’ e ‘piano di pittura’, ma lo fa soltanto quando siamo in due o in tre, e mai in presenza di tutto il gruppo.

«Oh» esclama Susie con una risatina annaspante, come se aspirasse l’aria anziché emetterla, «come sei cattivo! Non dovresti chiamarlo così!»

Questo mi infastidisce, perché ha detto qualcosa che avrei dovuto dire io ma non ne avevo il coraggio, e anche perché questo suo intervento difensivo assume le sembianze di un gatto che si struscia contro le gambe, o di una mano che accarezza ammirata un bicipite.

«Un vecchio scoreggione presuntuoso» interviene a sua volta Colin, per richiamare su di sé l’attenzione di Susie.

Susie volta verso di lui i suoi occhioni cerchiati d’azzurro. «Non è vecchio» afferma con solennità. «Ha soltanto trentacinque anni.» Tutti ridono.

Ma come fa a saperlo? La guardo e me lo domando. Ricordo una volta che sono arrivata presto a lezione. La modella non c’era ancora, ero sola nell’aula; poi è entrata Susie, che si era già tolta il cappotto, e subito dopo il signor Hrbik.

Susie mi si è avvicinata e ha detto: «Sapessi come odio la neve!». Solitamente non mi rivolgeva mai la parola. Ed ero io a essere stata fuori sotto la neve: lei sembrava calda come un toast.