Febbraio arriva prestissimo. Il grigio auditorium del museo esala i vapori dei cappotti bagnati, la fanghiglia degli stivali invernali si scioglie sul pavimento. Si sente spesso tossire.
Abbiamo terminato il periodo medioevale, con i suoi reliquiari e i suoi santi allungati, e stiamo procedendo speditamente attraverso il Rinascimento, soffermandoci sui punti più importanti. Abbondano le Vergini Marie. È come se una sola, enorme Vergine Maria avesse originato tutta una nidiata di figlie, che quasi sempre le assomigliano un po’, ma non del tutto. Si sono spogliate delle loro aureole dorate e di quell’aspetto allungato, del seno piatto che avevano nella pietra e nel legno, sono ingrassate. Ascendono al Cielo meno spesso. Alcune hanno facce rotonde e solenni, e sono sedute accanto a un caminetto o su una sedia dell’epoca, oppure accanto a una finestra aperta con i tetti sullo sfondo; alcune hanno un’espressione ansiosa, altre sono lattee e di un colorito bianco-rosato, con aureole sottili e bei riccioli dorati che sfuggono sotto il velo, limpidi cieli italiani in lontananza. Sono chine sulla culla della Natività, oppure tengono in grembo Gesù Bambino.
Gesù non riesce quasi mai a sembrare un bambino perché ha braccia e gambe troppo lunghe e affusolate, e anche quando sembra un bambino non è mai un neonato. Ne ho visti di neonati, con quella loro aria raggrinzita da albicocche secche, e questi Gesù bambini non possiedono nulla di simile. È come se fossero nati all’età di un anno o fossero uomini rimpiccioliti. In questi quadri compaiono un mucchio di rossi e di blu, e sono frequenti gli allattamenti.
La voce secca che esce dal buio si concentra sulle particolarità formali della composizione, sulla disposizione delle pieghe degli abiti per accentuare la circolarità, sul modo di rendere i tessuti, sull’uso della prospettiva nei passaggi a volta e nelle piastrelle dei pavimenti. L’allattamento lo saltiamo: la bacchetta che esce dal nulla non si sofferma mai su questi seni nudi, alcuni dei quali hanno uno sgradevole colore verde-rosa o sono percorsi da vene, oppure mostrano una mano che preme il capezzolo e perfino il latte. In questi momenti, si sente un certo movimento sulle sedie: nessuno vuole pensare all’allattamento, non il professore e tanto meno le ragazze. All’ora del caffè rabbrividiscono: sono schizzinose e allatteranno col biberon, che in ogni caso è più igienico.
«Il fatto dell’allattamento» osservo, «è che la Vergine è così umile da allattare lei. Molte donne di allora se potevano permetterselo facevano allattare i loro bambini da altre.» L’ho letto in un libro che ho scovato in mezzo a una catasta in biblioteca.
«Ah, Elaine» mi dicono, «come sei intelligente!»
«L’altro fatto è che Gesù è venuto al mondo da mammifero» aggiungo. «Mi domando come abbia fatto Maria con i pannolini. Ora sarebbe una reliquia, il sacro Pannolino. E come mai non ci sono immagini di Gesù bambino sul vasino? Sappiamo che esiste un pezzo del sacro Prepuzio, ma che ne sappiamo della sacra Cacca?»
«Sei tremenda!»
Sogghigno, accavallo una caviglia sul ginocchio, poso i gomiti sul tavolo. Mi diverte imbarazzare le ragazze in questo modo facile, volgare: serve a dimostrare che non sono come loro.
Questa è una vita, la mia vita di giorno. La mia altra vita, quella reale, avviene di notte.
Sto osservando Susie da vicino, presto attenzione a quello che fa. Susie non ha la mia età, ha due anni in più, quasi ventuno. Non vive in casa con i genitori, ma in un piccolo appartamento in uno dei nuovi edifici su Avenue Road, a nord di St Clair. Si pensa che siano i suoi genitori a pagarglielo. Come potrebbe permetterselo, altrimenti? Questi edifici hanno gli ascensori, ampi ingressi con le piante e nomi come ‘Il Montecarlo’. Chi abita lì dentro fa qualcosa di audace e di sofisticato, anche se i pittori osservano ironicamente che ci abitano anche terzetti di infermiere. Loro, i pittori, abitano in Bloor Street o a Queen, sopra magazzini di ferramenta e negozi che vendono valigie all’ingrosso, oppure nei vicoli laterali, dove vivono anche gli immigrati.
Susie si trattiene dopo la lezione, arriva in anticipo, gironzola nei paraggi e durante il corso guarda il signor Hrbik soltanto per lanciargli occhiate di sbieco, furtive. La incontro che sta uscendo dall’ufficio di lui; trasale, mi sorride, poi si volta e con voce artificiosa, troppo alta, dice: «Grazie, signor Hrbik! Ci vediamo la settimana prossima!». Fa un cenno di saluto con la mano, anche se la porta è quasi chiusa e lui non può assolutamente vederla: quel cenno della mano è rivolto a me. Ora capisco che la mia intuizione era giusta: c’è una storia d’amore col signor Hrbik. E lei pensa che nessuno l’abbia intuito.
In quanto a questo si sbaglia. Ascolto per caso Marjorie e Babs che ne parlano indirettamente. «Senti, tesoro, è un modo per passare il corso» dice una di loro. «Mi piacerebbe che per riuscirci bastasse fare una capriola.» «Meglio non provarci! Quei tempi sono passati da un pezzo, non credi?» E poi ridono allegramente, come se ciò che sta accadendo fosse una cosa normale, o magari buffa.
Io non credo che questa storia d’amore sia una cosa buffa. Una storia d’amore, io la vedo così: non riesco a disgiungere la parola ‘storia’ dalla parola ‘amore’, anche se non è chiaro chi dei due ami l’altro. Ho deciso che è il signor Hrbik ad amare Susie. O meglio, non è che la ami realmente; è infatuato di lei. Mi piace questa parola, ‘infatuato’: fa pensare allo stordimento, al rimbambimento, a mosche ubriache nella melassa. In quanto a lei, Susie, è troppo superficiale per essere capace di amare. Immagino che sia lei la più lucida, quella che ha in mano la situazione: sta giocando con lui con lo stile duro e laccato dei cartelloni dei film degli anni Quaranta. Duro come le unghie, e so anche il colore di queste unghie: Fuoco di Ghiaccio. E tutto ciò nonostante la sua espressione indifesa, i modi accattivanti. Emana senso di colpa come un dolce aroma, e il signor Hrbik barcolla infatuato verso il suo destino.
Quando si accorge che altri, in classe, ne sono a conoscenza, poiché Babs e Marjorie sanno come far capire ciò che sanno, Susie si fa più audace. Inizia a chiamare il signor Hrbik per nome e a citarlo nelle sue frasi: «Josef pensa», «Josef dice». Sa sempre dov’è. Ogni tanto va a Montreal per il fine settimana, perché lì ci sono ristoranti migliori e vini decenti. Ne è sicura, sebbene lei non ci sia mai andata. Fa circolare indiscrezioni sul suo conto: in Ungheria era sposato, ma la moglie non l’ha seguito e ora è divorziato. Ha due figlie, di cui tiene le fotografie nel portafoglio. Lo fa morire, essere lontano da loro. «Proprio così, lo fa morire» dice sommessamente, gli occhi umidi di lacrime.
Marjorie e Babs bevono tutto. Con loro Susie sta già perdendo la sua reputazione di puttanella per entrare nella sfera della complicità. Loro le danno corda: «Sai, non posso darti torto...» «Anch’io penso che sia proprio un bel bocconcino!» «Ah, io sarei capace di mangiarmelo, ma sarebbe come rubare le caramelle ai bambini, non è vero?». Nei gabinetti, siedono tutte e due accanto in scomparti separati, e parlano sopra al rumore del piscio che sgorga, e io intanto sto davanti allo specchio e ascolto. «Spero solo che lui sappia che cosa sta facendo. Con una brava ragazza come lei...» Vogliono dire che lui dovrebbe sposarla. O forse che dovrebbe sposarla se rimanesse incinta. Sarebbe la cosa più appropriata.
I pittori, da parte loro, la trattano con i piedi. «Cristo, vuoi smetterla di parlare di Josef? Sembra che per te il suo culo sia il centro del mondo!» Ma lei non è capace di stare zitta. Si lascia andare a miserevoli risolini di giustificazione, che ci irritano ancora di più. Quello sguardo saturo, ormai colmo, l’ho già visto altre volte.
Sento che il signor Hrbik ha bisogno di essere protetto, forse addirittura soccorso. Non so ancora che un uomo può essere degno di ammirazione in molte cose e in molte altre uno stronzo. E non ho nemmeno imparato che la cavalleria degli uomini, nelle donne diventa idiozia: gli uomini, se finiscono nella rete dei soccorritori, sanno cavarsi d’impiccio molto più facilmente.