Sono seduta con Josef in un ristorante francese, a bere vino bianco e a mangiare lumache. Sono le prime lumache che mangio e questo è il primo ristorante francese in cui metto piede. È anche l’unico ristorante francese di Toronto, dice Josef, e si chiama La Chaumière, che secondo Josef significa ‘capanna’. La Chaumière però non è una capanna, ma un prosaico e consueto edificio come tanti altri di Toronto. Le lumache, che somigliano a grossi pezzi scuri di moccio del naso, si mangiano con una forchetta a due denti. Mi sembrano molto buone, sebbene siano gommose.
Josef dice che non sono lumache fresche ma in scatola. Lo dice triste, con rassegnazione, come se ciò significasse la fine, sebbene non sia chiaro di cosa: è in questi termini che parla di molte cose.
È così che ha pronunciato il mio nome, per esempio. È stato a maggio, l’ultima settimana del corso di Disegno dal vero. Tutti noi dovevamo incontrarci col signor Hrbik per una valutazione personale, per discutere dei rispettivi risultati nel corso dell’anno. Marjorie e Babs erano davanti a me nel corridoio, a bere caffè in tazzine di carta. «Ciao tesoro» mi hanno salutata. Marjorie stava raccontando la storia di un uomo che si era denudato davanti a lei all’Union Station, dov’era andata ad attendere sua figlia al treno da Kingston. Sua figlia ha la mia età e frequenta il Queen’s.
«Aveva un impermeabile, da non crederci» ha detto Marjorie. «Oh, Dio» ha esclamato Babs.
«E allora io l’ho guardato negli occhi, negli occhi dico, e gli ho detto: ‘Tutto qui?’ Voglio dire, era davvero piccolissimo. È naturale che quel poveraccio si aggiri per le stazioni in cerca di qualcuna che glielo guardi!»
«E poi?»
«Vedi, quello che prima sale poi deve scendere, non ti pare?»
Ridacchiavano, sbruffando goccioline di caffè e tossendo per il fumo delle sigarette. Come al solito le trovavo leggermente sconvenienti; scherzavano su cose riguardo a cui non era il caso scherzare.
Susie allora è uscita dall’ufficio del signor Hrbik. «Salve, ragazze» ha detto, sforzandosi di mostrarsi allegra. Aveva il trucco sbavato, gli occhi arrossati. Stavo leggendo romanzi francesi moderni e anche William Faulkner, e immaginavo che cosa doveva essere l’amore: un’ossessione con qualche sfumatura nauseante. Susie era il tipo di ragazza che poteva cedere a questo genere d’amore. Si sarebbe umiliata, avrebbe strisciato. Si sarebbe gettata a terra gemendo, aggrappata alle sue gambe, i capelli cascanti come bionde alghe sul cuoio nero delle scarpe del signor Hrbik (che portava le scarpe, essendo in procinto di uscire dalla stanza). Da questa angolazione, il signor Hrbik era visibile soltanto fino all’altezza delle ginocchia, e la faccia di Susie era invisibile. Sarebbe stata schiacciata dalla passione, obnubilata.
Non che mi dispiacesse per lei. In realtà ero un po’ invidiosa.
«Povero coniglietto» ha commentato Babs mentre lei si allontanava.
«Gli europei...» ha aggiunto Marjorie. «Non credo proprio che sia divorziato.»
«Sai, può darsi che non sia nemmeno sposato.»
«E quelle sue figlie?»
«Molto probabilmente sono nipoti, o qualcosa del genere.» Ho lanciato loro un’occhiataccia. Le loro voci erano troppo forti, il signor Hrbik avrebbe potuto udirle.
Quando se ne sono andate è arrivato il mio turno. Sono entrata e sono rimasta in piedi mentre lui, seduto, sfogliava la mia cartella di disegni aperta sulla scrivania. Penso che sia stato questo a rendermi nervosa.
Scorreva in silenzio i fogli, le mani, le teste, le natiche, mordicchiando la matita. «Questo è bello» ha detto alla fine. «Hai fatto progressi. È più rilassata, questa linea.»
«Quale?» ho chiesto, posando una mano sulla scrivania e chinandomi. Lui ha voltato la testa verso di me, e allora gli ho visto gli occhi. Non erano rossastri, dopo tutto, erano di un castano scuro.
«Elaine, Elaine» ha detto con tristezza. Ha posato la mano sulla mia. Un brivido freddo mi ha percorso il braccio, fino allo stomaco. Sono rimasta raggelata, rivelata a me stessa. Era a questo che miravo, quando pensavo di aiutarlo?
Lui ha scosso la tesa, come se avesse rinunciato o non avesse altra scelta, poi mi ha attratta a sé tra le sue ginocchia. Non si è nemmeno alzato in piedi. Mi sono trovata così sul pavimento, in ginocchio, la testa rovesciata all’indietro, le sue mani che mi accarezzavano la nuca. Non ero mai stata baciata prima in quel modo. Era come la pubblicità di un profumo sconosciuto, pericoloso e potenzialmente degradante. Potevo alzarmi e correre via, ma se fossi rimasta lì anche un solo minuto non ci sarebbero stati più palpeggiamenti sui sedili delle auto o nei cinema, né schermaglie per i ganci del reggipetto. Niente più scherzi e ragazzate.
Siamo andati all’appartamento di Josef in taxi. Josef era seduto discosto da me, anche se mi teneva una mano sul ginocchio. Non ero ancora abituata a viaggiare in taxi, e pensavo che il conducente ci stesse osservando nello specchietto retrovisore.
L’appartamento di Josef era in Hazelton Avenue, non proprio nei bassifondi ma qualcosa del genere. Le case erano vecchie, una vicina all’altra, con giardinetti incolti sul davanti, tetti appuntiti e cadenti decorazioni di legno sul porticato. Le auto erano parcheggiate una dopo l’altra lungo il marciapiede, le case per la maggior parte accoppiate, attaccate l’una all’altra. Era in una di queste cadenti casette bifamiliari dal tetto appuntito che abitava Josef, al secondo piano.
Un uomo grasso, più anziano, in maniche di camicia e bretelle, si dondolava su una sedia, sul porticato della casa accanto a quella di Josef. Ci ha osservati intanto che Josef pagava il taxi e poi, mentre percorrevamo il vialetto d’ingresso, «Bella giornata» ha detto.
«Davvero, eh?» ho risposto. Josef non prestava attenzione. Mi ha posato lievemente una mano sulla nuca, mentre salivamo la stretta scala interna. Ovunque mi toccasse provavo un senso di pesantezza.
L’appartamento era composto di tre stanze: una davanti, una in mezzo con un cucinino e una in fondo. Erano stanze piccole e poco ammobiliate, come se si fosse trasferito lì da poco o stesse per traslocare. La camera da letto era dipinta di malva, con parecchie stampe di figure allungate in colori scuri, appese alle pareti. In questa stanza non c’era altro che un materasso per terra, con una coperta messicana sopra. L’ho guardato e ho pensato che stavo vedendo la vita degli adulti.
Josef mi ha baciata, in piedi questa volta, ma mi sentivo imbarazzata. Temevo che qualcuno ci vedesse dalla finestra. Temevo che mi chiedesse di spogliarmi e che poi mi voltasse da una parte e dall’altra per guardarmi da lontano. Non mi piace essere guardata da dietro, è una prospettiva sulla quale non ho controllo. Ma se me l’avesse chiesto avrei dovuto farlo, perché ogni esitazione da parte mia mi avrebbe privata della sua considerazione.
Si è disteso sul materasso e ha alzato lo sguardo, come in attesa. Dopo un attimo mi sono distesa accanto a lui e lui mi ha baciata di nuovo, slacciandomi i bottoni. Erano quelli di una camicia di cotone troppo larga, che aveva sostituito i maglioni a dolce vita ora che faceva caldo. L’ho abbracciato pensando: è stato in guerra.
«E Susie?» ho domandato. Non appena dette queste parole, mi sono resa conto che era una domanda da liceo.
«Susie?» ha ripetuto Josef, come sforzandosi di ricordare quel nome. La sua bocca era accanto al mio orecchio, e quel nome suonava come un sospiro di rammarico.
La coperta messicana era ruvida, ma questo non mi dava fastidio: avevo già sentito dire che il sesso non è piacevole la prima volta. Mi aspettavo anche di sentire l’odore della gomma e il dolore, ma non c’è stato molto dolore, e nemmeno tutto quel sangue che si diceva.
Josef non si aspettava il dolore. «Ti fa male?» ha chiesto a un certo punto. «No» ho risposto trasalendo e lui non si è interrotto. Non si aspettava nemmeno il sangue. Avrebbe dovuto far lavare la coperta, ma non ne ha parlato. Era delicato, e mi ha accarezzato una coscia.
Josef è stato via tutta l’estate. A volte mi porta in ristoranti con tovaglie a scacchi e candele infilate in bottiglie di Chianti, a volte a vedere film stranieri, svedesi e giapponesi, in piccoli cinema poco affollati. Ma ogni volta finiamo poi nel suo appartamento, sopra o sotto la coperta messicana. Il suo modo di fare l’amore è imprevedibile: a volte è avido, a volte ripetitivo, a volte distratto, come se scarabocchiasse su un foglio. È anche questa imprevedibilità che mi tiene legata a lui. L’imprevedibilità e anche quel suo bisogno che a volte mi sembra disperato e incontrollabile.
«Non mi lasciare» mi dice, facendo scorrere le mani su di me; sempre prima, non dopo. «Non potrei sopportarlo.» È una cosa antiquata, e detta da un altro uomo mi sembrerebbe ridicola, ma con Josef non lo è. Sono innamorata del suo bisogno, il solo pensarci mi avvolge di tenerezza, mi sento inerte come la polpa di un’anguria. Per questo motivo ho rinunciato al mio progetto di ritornare all’albergo di Muskoka e di lavorare lì come l’anno scorso. Ho trovato un lavoro nello Chalet svizzero in Bloor Street, un posto in cui viene servito soltanto pollo ‘arrasto’, come è scritto sull’insegna. Pollo con salsa, con insalata di cavolo, con focaccine bianche, e un solo sapore di gelato, la ‘ciliegia di Borgogna’, che ha una vistosa tonalità rossastra. Indosso un’uniforme col mio nome scritto sul taschino, come nella palestra delle scuole superiori.
A volte Josef viene a prendermi dopo il lavoro. «Puzzi di pollo» mormora nel taxi, appoggiandomi il viso sul collo. Ho perso ogni pudore in taxi, sto abbracciata a lui con la sua mano sotto il braccio, sul seno, oppure mi distendo sul sedile, seduta sul suo grembo.
Me ne sono anche andata da casa. Le sere che sto con lui, Josef vuole che mi fermi tutta la notte. Vuole svegliarsi con me addormentata accanto, fare l’amore con me senza svegliarmi. Ho detto ai miei genitori che è solo per quest’estate, in modo da essere più vicina allo Chalet svizzero. Loro pensano che sia uno spreco di soldi. Vanno a spassarsela in qualche posto su nel nord, e quindi avrei la casa tutta per me, ma l’idea che io ho di me stessa e quella che hanno miei genitori non appartengono più allo stesso posto.
Se fossi andata a Muskoka non avrei comunque passato l’estate in casa con loro, ma non vivere in casa nella stessa città è diverso. Ora abito con due altre ragazze dello Chalet svizzero, anche loro studentesse lavoratrici, in un appartamento a forma di corridoio in Harbord Street. La stanza da bagno è festonata da calze e mutandine, ci sono bigodini posati sul ripiano in cucina simili a bruchi setolosi, piatti incrostati che si ammucchiano nel lavandino
Vedo Josef due volte la settimana, e so che non è il caso di tentare di chiamarlo o di vederlo altre volte. O non c’è oppure è con Susie, perché non ha cessato affatto di vederla. Ma non dobbiamo parlarle di me, dobbiamo tenerlo segreto. «Ci resterebbe terribilmente male» dice Josef. È l’ultimo della fila che deve sopportare il peso di sapere: se qualcuno deve restarci male, dovrò essere io. Eppure sento che lui mi ha dato la sua fiducia: su questo siamo d’accordo, dobbiamo proteggere Susie. È per il suo bene. E in ciò consiste la soddisfazione di ogni segreto. Io so qualcosa che lei non sa.
È venuta a sapere che lavoro allo Chalet svizzero. Probabilmente è stato Josef a dirglielo, come per caso, e facendoci quasi scoprire: probabilmente lo trova eccitante, immaginare noi due insieme. Di quando in quando Susie viene qui a bere un caffè, nel tardo pomeriggio, quando non c’è quasi nessuno. È un po’ ingrassata, ha le guance più carnose. Posso immaginare come sarà tra quindici anni, se non sta attenta.
Con lei sono più carina di quanto sia mai stata. E anche un po’ prudente. Chissà, se venisse a saperlo potrebbe perdere quel po’ di autocontrollo che le è rimasto e venirmi a cercare con un coltellaccio.
Vuole parlarmi, vuole che usciamo insieme qualche volta. Continua a parlare di ‘Josef e io’. Ha un’aria disperata.
Josef mi parla di Susie come di una bambina con dei problemi. «Vuole sposarsi» mi dice. Vuole farmi capire che è una persona irrazionale, ma che d’altra parte negarle questa cosa, questo giocattolo troppo costoso, lo rattrista non meno profondamente. Non ho nessuna voglia di mettermi nella stessa categoria delle donne irrazionali e petulanti. Non voglio sposarmi con Josef, né con altri. Sono arrivata a concepire il matrimonio come una cosa disonorevole, un volgare baratto anziché un libero dono. Anche solo l’idea del matrimonio sarebbe degradante per Josef, lo guasterebbe: non è questo il suo posto nell’ordine delle cose. Il suo posto è quello dell’amante, con le cose segrete e le stanze spoglie, i ricordi e i brutti sogni. In ogni caso, ho messo il matrimonio alle mie spalle. Posso vederlo là dietro, innocente e infiocchettato come una bambola, irrecuperabile. Anziché al matrimonio mi dedicherò alla pittura. Finirò con i capelli tinti, con indumenti bizzarri, con vistosi gioielli esotici d’argento. Viaggerò molto. E magari mi darò alla bottiglia.
Esiste, naturalmente, lo spettro di rimanere incinta. Non si può avere un diaframma se non si è sposate, i profilattici vengono venduti sottobanco e soltanto agli uomini. Qualche ragazza si è spinta troppo oltre su un sedile posteriore, c’è rimasta e poi ha lasciato le superiori, oppure ha avuto qualche strano incidente mai spiegato. Incidenti che sono chiamati con espressioni scherzose: ‘finire al banco dei pegni’, ‘essere cotte al forno’. Ma queste espressioni buone per il cesso non hanno niente a che vedere con Josef e con la sua vissuta camera da letto color malva. E non hanno niente a che fare nemmeno con me, immersa come sono in questa densa atmosfera incantata in tono minore. In ogni caso, mi segno delle piccole croci sul calendario tascabile.
Nei giorni liberi, quando non vedo Josef, tento di dipingere. A volte disegno con matite colorate. Disegno i mobili dell’appartamento: il divano superimbottito e disseminato di abiti sparsi, la lampada a bulbo presa a prestito dalla madre di una coinquilina, lo sgabello in cucina. Ma il più delle volte mancano le energie, e allora finisco col leggere un giallo nella vasca da bagno.
Josef non vuole parlarmi della guerra, e neppure di come sia fuggito dall’Ungheria durante la rivoluzione. Questi ricordi, dice, sono troppo dolorosi per lui; vuole soltanto dimenticare. Dice che ci sono molti modi per morire, e che alcuni sono meno piacevoli di altri. Dice che sono fortunata perché non dovrò mai conoscere cose del genere. «Questo paese non ha eroi» dice, «e dovreste mantenerlo tale.» Dice che sono immacolata: è così che lui mi vuole. Dice queste cose e mi fa scorrere le mani sulla pelle come per cancellare, per levigarmi.
Eppure mi racconta i suoi sogni. È molto interessato a questi sogni, e in effetti non ricordo di averne mai udito descrivere altri del genere. Contengono tende di velluto rosso, divani di velluto rosso e stanze di velluto rosso. Ci sono anche cordoni di seta bianca con le nappe. Particolare attenzione viene dedicata alle stoffe. Ci sono anche tazzine da tè sbeccate.
Sogna una donna avvolta nel cellophane, se l’è messo anche sulla faccia, un’altra che cammina lungo la balaustra di un balcone coperta da un sudario bianco, un’altra ancora distesa a faccia in giù nella vasca da bagno. Quando mi racconta questi suoi sogni, non guarda proprio me; in realtà, è come se guardasse un punto a qualche centimetro di profondità dentro la mia testa. Non so come rispondere, e allora sorrido lievemente. Sono un po’ gelosa di queste donne dei suoi sogni. Non corrispondo a nessuna di loro. Joseph sospira e mi accarezza la mano. «Sei così giovane» mi dice.
A questo non ho da dare una risposta, sebbene non mi senta affatto giovane. In questo momento mi sento antica, stanca e accaldata. L’odore incessante di pollo arrosto mi sta togliendo l’appetito. È la fine di luglio, l’umidità incombe su Toronto come una cappa di vapore su una palude e proprio oggi si è guastato il condizionatore d’aria dello Chalet svizzero. Ci sono state delle lamentele. Qualcuno ha rovesciato sul pavimento della cucina un piatto da portata carico di quarti di pollo, di focaccine e di salsa, facendoci scivolare. Il capocucina mi ha dato della stronza incapace.
«Io non ho un paese» dice Josef lamentosamente. Mi tocca teneramente una guancia, scrutandomi negli occhi. «Il mio paese sei tu, adesso.»
Mangio un’altra lumaca in scatola, inautentica. Mi colpisce d’improvviso il pensiero che sono infelice.