Josef mi sta cambiando i connotati. «Dovresti portare i capelli sciolti» mi dice, togliendomi la crocchia malferma da dietro e facendo scorrere le dita tra i capelli per renderli più vaporosi. «Sembri una meravigliosa gitana.» Preme le labbra sulla mia clavicola, aprendo il lenzuolo con il quale mi ha drappeggiata.
Rimango ferma e lo lascio fare. Gli lascio fare quello che vuole. È agosto e fa troppo caldo per muoversi. Uno strato di caligine, simile a fumo umido, è sospeso sopra la città e mi copre la pelle con una pellicola oleosa, filtrando nella mia carne. Mi muovo attraverso i giorni come uno zombie, le ore passano una dopo l’altra senza meta. Ho smesso di disegnare i mobili dell’appartamento, riempio la vasca da bagno di acqua fredda e mi ci infilo dentro ma ora non leggo più. Presto arriverà il momento di ritornare a scuola, e quasi non riesco a pensarci.
«Dovresti metterti dei vestiti rossi» mi dice Josef. «Ti starebbero meglio.» Mi porta alla luce crepuscolare della finestra, mi volta, poi si scosta leggermente, facendo scorrere su e giù la mano sul mio fianco. Non m’importa più se qualcuno ci vede. Sento le ginocchia molli, la bocca allentata. Quando stiamo insieme Josef non ha mai fretta, non si gratta la testa e si muove lentamente, delicato, con molta sicurezza.
Josef mi porta al Roof Garden del Park Plaza Hotel. Ho il mio vestito nuovo color porpora. È fatto di un corpetto aderente e scollato, e di una lunga gonna che quando cammino mi strofina le gambe nude. Ho i capelli sciolti e umidi. Penso che somiglino a un moccio. Cogliendo inaspettatamente la mia immagine nello specchio fumé in ascensore, durante la salita, vedo per un attimo ciò che vede Josef: una donna esile con capelli vaporosi e occhi pensosi su un volto sottile e bianco. Riconosco lo stile, tardo Ottocento. Preraffaellita. Dovrei avere in mano un papavero.
Ci sediamo in terrazza all’aperto, bevendo Manhattan e guardando al di là della balaustra di pietra. Josef ha scoperto di recente il gusto del Manhattan. Questo è uno degli edifici più alti della città. Sotto di noi Toronto imputridisce nella calura serale, gli alberi si estendono come muschio vecchio, sullo sfondo il lago è di zinco.
Josef mi racconta che una volta ha sparato a un uomo in testa, e ciò che più l’ha turbato è stata la facilità con cui l’ha fatto. Dice che detesta il corso di disegno dal vero e che non continuerà a condurlo all’infinito, immerso in queste acque stagnanti della provincia a spiegare i rudimenti a dei ritardati. «Io vengo da un paese che non esiste più» dice, «e tu da un paese che non esiste ancora.» Una volta mi sarebbe parso un pensiero profondo, ora mi domando cosa voglia dire.
In quanto a Toronto, dice che non ha né allegria né anima. In ogni caso, la pittura stessa somiglia ai postumi di una sbronza da passato europeo. «Non è più importante» dice, spazzandola via con un gesto della mano. Vuole lavorare nel cinema, dirigere film negli Stati Uniti. Ci andrà non appena riuscirà a sistemare tutto. Ha buone conoscenze; a esempio esiste una rete di ungheresi laggiù, ungheresi, polacchi, cecoslovacchi. Là almeno ci sono maggiori possibilità di fare film, mentre le uniche pellicole prodotte in questo paese sono cortometraggi fatti passare prima del film vero e proprio, in cui si vedono foglie che cadono a spirale nelle pozzanghere o fiori che si schiudono al rallentatore, con un sottofondo di flauti. Le persone che conosce se la stanno cavando bene negli Stati Uniti, gli daranno una mano.
Tengo la mano di Josef. Il suo modo di fare l’amore in questi giorni è meditabondo, come se pensasse a qualcos’altro. Mi accorgo di essere un po’ ubriaca, e ho anche paura dell’altezza. Non sono mai stata così in alto. Penso di avvicinarmi alla balaustra di pietra e di lasciarmi scivolare giù. Da qui si possono vedere gli Stati Uniti, una sottile linea polverosa all’orizzonte. Josef non accenna all’idea che io parta con lui. Io non gli chiedo niente.
Lui allora mi dice: «Sei molto silenziosa». Mi tocca una guancia. «Misteriosa.» Io non mi sento misteriosa, ma assente.
«Faresti qualsiasi cosa per me?» mi domanda, scrutandomi negli occhi. Mi volto verso di lui, lontana dalla terra. Dire di sì sarebbe così facile.
«No» rispondo. È una sorpresa, per me. Non so da dove è uscita questa risposta, questa sincerità inattesa e brusca. Suona brutale.
«Non pensavo» dice lui tristemente.
Jon compare un pomeriggio allo Chalet svizzero. Non lo riconosco, sulle prime, anche perché non lo vedo. Sto pulendo un tavolino con uno straccio, e ogni movimento è uno sforzo; ho il braccio appesantito, come in letargo. La notte scorsa sono stata con Josef ma la prossima no, quella non è la mia notte: tocca a Susie.
In questi giorni Josef accenna di rado a Susie. Quando ne parla lo fa con nostalgia, come se lei fosse già qualcosa del passato o una bella cosa morta, come il personaggio di una poesia. Ma può darsi che questo sia soltanto il suo modo di parlare. Può darsi che trascorrano insieme prosaiche serate domestiche, lui che legge il giornale mentre lei mette in tavola quel che ha cucinato. Sebbene lui dica che io sono un segreto, può darsi che parlino di me, così come Josef e io parliamo di Susie. Non è un pensiero piacevole.
Preferisco immaginare Susie come una donna chiusa dentro una torre, là nel Montecarlo, su Avenue Road, che guarda fuori dalla finestra oltre il parapetto di metallo dipinto del suo balconcino, piangendo flebilmente in attesa che compaia Josef. Non riesco a immaginare che oltre a questa abbia una qualsiasi altra vita. Non riesco a immaginarla, per esempio, a lavarsi le mutande, strizzandole dentro un asciugamano, e poi appendendole sulla rastrelliera in bagno come faccio io. Non riesco a immaginarla che mangia. È inerte, svogliata, infiacchita dall’amore come me.
«È un bel po’ che non ci vediamo» dice Jon. Lo metto improvvisamente a fuoco oltre il mio braccio che strofina il tavolo; mi sorride, i denti bianchi su una faccia più abbronzata di quanto ricordassi. Si china sul tavolo che sto pulendo. Ha indosso una maglietta grigia, vecchi jeans tagliati sopra le ginocchia, scarpe di gomma senza calze. Mi sembra che stia meglio adesso che in inverno. È la prima volta che lo vedo di giorno.
Mi accorgo della mia uniforme macchiata: chissà se puzzerò anche di sudore sotto le ascelle, di grasso di pollo? «Come ci sei capitato qui?» gli domando.
«A piedi» risponde. «Che ne diresti di un caffè?»
Ha trovato un lavoro estivo al dipartimento dei Lavori pubblici. Riempie i buchi nelle strade e incatrama le crepe aperte dal gelo; in effetti ha un vago odore di catrame. Non è quello che si potrebbe definire pulito. «Che ne diresti di una birra, dopo?» propone. È qualcosa che ha già proposto molte altre volte: vuole un passaporto per ‘Signore e accompagnatori’, come al solito. Io non ho niente da fare, e allora rispondo: «Perché no? Però devo prima andarmi a cambiare».
Quando stacco vado a farmi una doccia per precauzione, poi mi metto il vestito rosso. Ci incontriamo alla Foglia d’Acero ed entriamo nella parte riservata a ‘Signore e accompagnatori’. Sediamo lì nella penombra, dove almeno fa fresco, e beviamo birra alla spina. È imbarazzante essere da sola con lui, prima eravamo sempre in gruppo. Jon mi chiede che cosa ho fatto, e io rispondo: non molto. Mi chiede se ho visto in giro lo zio Joe, e io rispondo di no.
«Sarà scomparso dentro le braghette di Susie» dice. «Quella stronzetta fortunata.» Mi tratta ancora come ragazzo ad honorem, dice ancora cose volgari sulle donne. Mi sorprende che abbia usato il termine ‘braghette’; deve averlo imparato da Colin, l’inglese. Mi domando se sa anche di me, se fa anche commenti sulle mie braghette alle mie spalle. Ma come potrebbe saperlo?
Dice che ai Lavori pubblici si guadagnano parecchi soldi, ma non vuole far sapere agli altri, speciamente ai vecchi, che è pittore. «Potrebbero pensare che sono un finocchio, o roba del genere» spiega.
Bevo più birra di quanto dovrei, le luci mi baluginano intorno. Poi arriva l’ora di chiusura. Usciamo in strada nella calda notte estiva e non ho voglia di ritornare a casa da sola.
«Ce la fai a ritornare a casa?» mi chiede Jon. Io non rispondo.
«Su, andiamo. Ti accompagno» mi dice. Mi posa una mano sulla spalla e io posso sentire il suo odore di catrame, di polvere, di pelle esposta al sole, e allora mi metto a piangere. Sono lì in strada, tra ubriachi che escono barcollando dall’ingresso per soli uomini, mi tengo le mani premute sulla bocca, piango e mi sento stupida.
Jon è sconcertato. «Ehi, piccola» mi dice, accarezzandomi goffamente. «Cosa c’è che non va?»
«Niente» rispondo. Sentirmi chiamare ‘piccola’ mi fa piangere ancora di più. Mi sento come uno straccio bagnato, mi sento brutta. Spero solo che pensi che ho bevuto troppo.
Mi posa un braccio sulle spalle, mi stringe lievemente. «Su, andiamo» dice. «Andiamo a bere un caffè.»
Smetto di piangere mentre camminiamo per strada. Arriviamo a un portone accanto a un magazzino di valigie, lui tira fuori una chiave e saliamo le scale al buio. Oltre la porta di casa, mi bacia con quella sua bocca che sa di catrame e di birra. Le luci sono spente. Gli metto le braccia intorno alla vita e mi aggrappo come se stessi sprofondando nel fango; lui mi solleva e mi porta attraverso la stanza buia, inciampando nelle pareti e nei mobili, poi crolliamo insieme sul pavimento.