Proseguo verso est lungo Queen Street, ancora un po’ stordita dal vino bevuto a pranzo. Sbronza, così si diceva una volta. L’alcol è un depressivo e tra un po’ inizierà la fase calante, ma per adesso sono euforica e canticchio tra me e me con la bocca lievemente dischiusa.
Qui c’è un gruppo di statue color verderame, con macchie nere che colano giù come sangue metallico: una donna seduta che regge uno scettro e tre giovani soldati in gruppo che le marciano intorno, le gambe fasciate da calzerotti simili a bende, difensori dell’Impero dall’espressione decisa, predestinata, congelata nel tempo. Al di sopra, su un piano di pietra, ecco un’altra donna in piedi, con ali di angelo: è la Vittoria o la Morte, o forse tutte e due. Questo monumento commemora la guerra in Sudafrica, più o meno novant’anni fa. Mi domando se qualcuno ricorda quella guerra o se qualcuno, in tutte queste auto che arrancano intorno, abbia mai guardato il monumento.
Mi dirigo a nord per University Avenue, oltre la sterilità degli ospedali, lungo il vecchio percorso della sfilata di Babbo Natale. L’istituto di zoologia è stato abbattuto, dev’essere successo ormai da anni. La finestra da cui guardavo le fradice fatine e i fiocchi di neve con i geloni ora è uno spazio vuoto. Chi altri si ricorda dov’era una volta?
Adesso ci sono fontane lungo questa strada, aiuole quadrate piene di fiori e statue nuove, strane. Seguo la curva intorno al palazzo del Parlamento, con quella sua forma da nobile vedova vittoriana: è rosa scuro, le falde della sottana debordanti, stolida. Davanti sventola quella bandiera che non ho mai saputo disegnare, degradata a bandiera di provincia, rossa scarlatta con lo Union Jack in un angolo in alto, e tutti quegli impossibili castori e quelle foglie istoriate più in basso. Sventola anche la nuova bandiera nazionale, due bande rosse e una foglia rossa d’acero rampante in campo bianco, simile al marchio di fabbrica di una margarina della qualità più scadente, oppure a selvaggina uccisa nella neve. Vedo ancora questa bandiera come se fosse nuova, sebbene l’abbiano ormai cambiata da parecchi anni.
Attraverso la strada, taglio dietro una piccola chiesa, rimasta qui incagliata quando hanno ristrutturato. Il sermone domenicale è annunciato su un cartellone identico a quelli delle offerte speciali dei supermercati: ‘Credere è vedere’. Una marea verticale di vetrate gli si contrappone, e dietro alle facciate lustre si vedono mazzetti di stoffe cardate, pelli scamosciate, attraenti cianfrusaglie d’argento. Tutti nutrimenti per lo spirito. La teologia è cambiata, nel corso degli anni: ‘soltanto ciò che meriti’, tutto lì quel che ci si poteva aspettare alla fine. Ora è diventato un ristorante specializzato in pasticcini. Tutto quello che hanno saputo fare è abolire il senso di colpa e aggiungere il dessert.
Volto un angolo e in una strada laterale incontro una doppia fila di lussuose botteghe: maglieria fatta a mano e corredini francesi per neonati, saponette con nastri, tabacchi d’importazione e opulenti ristoranti con calici dal lungo gambo, agenzie immobiliari, e poi l’emporio di jeans firmati, la bottega di ninnoli in carta veneziana, la boutique di calze con la gamba al neon che scalcia.
Questi edifici un tempo sembravano bicocche. Era il vecchio territorio di Josef questo, con i grassoni saturi di birra seduti sotto il porticato di casa a sudare nella calura d’agosto, mentre i loro figli strepitavano e i loro cani se ne stavano distesi, ansanti, legati da logori guinzagli alla palizzata: la pittura si scrostava dagli infissi di legno e malinconiche calendule che puzzavano di piscio di gatto appassivano nei vialetti dissestati. Poche migliaia di dollari investiti allora nel posto giusto, e oggi si potrebbe essere miliardari: ma chi avrebbe potuto prevederlo? Non certo io, che salivo la scala stretta fino al secondo piano a casa di Josef, col fiato che si faceva corto e la sua mano posata sulla mia anca, nella luce morente della serata estiva: lentamente, su nel proibito, tristemente delizioso
Josef, adesso, lo capisco più di allora. Lo capisco perché sono più vecchia. Capisco la sua malinconia, la sua ambizione, la sua disperazione, i suoi angoli vuoti che chiedevano di essere riempiti. Capisco i pericoli.
Che cosa faceva, per esempio, con due donne di quindici anni più giovani di lui? Se una delle mie figlie si innamorasse di un uomo come lui, impazzirei. Sarebbe come quella volta che Sarah e la sua migliore amica sono ritornate di corsa da scuola per dirmi che avevano visto per la prima volta un esibizionista nel parco. «Mamma, mamma, c’era un uomo con i pantaloni calati!»
Per me è stato un momento di paura e di rabbia feroce: ‘Toccale e ti ammazzo’. Ma per loro era soltanto qualcosa di strano e di ridicolo.
Oppure la prima volta che ho rivisto la mia cucina dopo aver avuto Sarah. L’ho portata a casa dall’ospedale e ho pensato: ‘Tutti quei coltelli. Tutte quelle cose acuminate e bollenti’. Riuscivo a vedere soltanto ciò che poteva farle male.
Può darsi che una delle mie figlie abbia un uomo come Josef o come Jon nascosto nella sua vita, in segreto. Chissà quali ragazzi squallidi o più vecchi stanno usando, o a loro vantaggio, o come contrappunto a me? Intanto continuano a proteggermi da loro, perché sanno che rimarrei terrorizzata.
Sulle prime pagine dei giornali leggo parole che un tempo non si pronunciavano a voce alta e tanto meno si stampavano: ‘rapporto sessuale’, ‘aborto’, ‘incesto’, e vorrei nasconderle ai loro occhi, anche se sono ormai cresciute o perlomeno ritenute tali. Come madre sono capace di scandalizzarmi, prima no.
Dovrei prendere un regalino per ciascuna di loro, come facevo sempre quando erano più piccole e io ero in viaggio. Una volta sapevo per istinto che cosa desideravano, ora non più. Mi è difficile ricordare precisamente quale età abbiano adesso. Mi offendevo, una volta, quando mia madre si dimenticava che ero una persona adulta, ma adesso sto avvicinandomi anch’io alla fase dell’idiozia, quando si scava tra ingiallite fotografie di bambini e si rimane a fissare un ricciolo di capelli.
Sto guardando con gli occhi socchiusi una vetrina di sciarpe di seta italiane, di colori meravigliosamente imprecisati, grigiazzurro o verdemare, quando sento una mano che mi tocca il braccio e provo un gelido balzo al cuore.
«Cordelia» dico, voltandomi.
Ma non è Cordelia. Non è nessuno che io conosca. È una donna, anzi una ragazzina mediorientale di chissà quale paese, con una lunga sottana di cotone stampato che le copre le caviglie e stivali con la suola di gomma, incongrui, giubbetto abbottonato, un fazzolettone piegato sulla fronte, che le casca da una parte e dall’altra come un soggolo. La mano che mi tocca è infagottata in un guanto invernale, la pelle del polso che si vede tra il guanto e la manica della giubba brunastra, come il caffè con la panna. Gli occhi sono grandi, come nei ritratti dei bambini abbandonati.
«Per favore» mi dice. «Stanno uccidendo molte persone.» Non dice dove. Potrebbe essere in chissà quanti posti, oppure tra un paese e l’altro, perché la condizione di apolide è divenuta ormai una nazionalità. In un certo senso la guerra non è mai terminata, si è soltanto frantumata e diffusa, penetra ovunque e non vi si può mettere fine. La carneficina è interminabile, adesso; un’industria con un mucchio di soldi nella quale è abbastanza difficile distinguere i buoni dai cattivi.
«Sì» le dico. Questa è la guerra che ha ucciso Stephen.
«Alcuni sono qui. Non hanno neanche... niente, hanno. Li ucciderebbero...»
«Sì» le dico. «Capisco.» È quello che capita a camminare, in auto si è più isolati. E poi come faccio a sapere se è davvero chi dice di essere? Potrebbe essere una tossicodipendente. Nel mercato della commozione i truffatori abbondano.
«Ho una famiglia di quattro persone. Due bambini. Sono con me, è mia, è mia responsabilità.» Stenta un po’ a dire ‘responsabilità’, ma ci riesce. È timida e non le piace quel che fa, fermare persone per strada.
«Sì?»
«E ce la faccio.» Ci guardiamo in faccia. Ce la sta facendo. «Venticinque dollari possono sfamare una famiglia di quattro persone per un mese.»
Che cosa possono mangiare? Pane vecchio, avanzi di cibo? Forse vuole dire una settimana? Se ci crede davvero, si merita i miei soldi. Mi tolgo un guanto, frugo nella borsetta tra i biglietti sparsi, rosa, azzurri, rossi. È una cosa oscena avere questo potere, e anche sentirsi così impotenti. Probabilmente mi odia.
«Ecco» le dico.
Lei annuisce. Non prova affatto gratitudine, ha avuto soltanto una conferma dell’opinione che ha di me, oppure di se stessa. Si toglie il grosso guanto di maglia per prendere il denaro. Guardo le nostre mani, la sua mano liscia, le unghie come pallide lune, la mia con le pellicine strappate, la pelle che inizia ad assomigliare a quella dei rospi. Infila le banconote tra i bottoni del giubbetto. Deve avere un borsello lì dentro, al sicuro dagli scippatori. Poi si infila il guanto, che è rosso scuro, con una foglia rosa ricamata nella lana.
«Dio la benedica» mi dice. Non dice Allah. Ad Allah potrei anche credere.
Mi allontano da lei, infilandomi il guanto. Ogni giorno sono sempre più numerose, sempre più frequente quel gemito silenzioso, quelle mani affamate e protese: «Ho bisogno, ho bisogno, aiuto». Non c’è fine.