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Il tempo passa e Susie sbiadisce. Josef non ricompare.

E così rimango sola con Jon. Ho la sensazione, come per una coppia di reggilibri, che lui da solo non sia completo. Però mi sento virtuosa, perché ora non gli nascondo più niente. Per lui, comunque, non fa nessuna differenza: anche prima non sapeva che gli nascondevo qualcosa. Non capisce perché adesso io mostri meno indifferenza per quello che fa nel resto del suo tempo.

Decido che sono innamorata di lui, anche se sono troppo prudente per dirlo: potrebbe disapprovare l’uso di questa parola, oppure pensare di essere stato incastrato.

Continuo ad andare nel suo lungo appartamento bianco e nero e a finire ancora sopra al suo sacco a pelo, sebbene ciò accada saltuariamente perché Jon non è molto bravo nel pianificare in anticipo o nel ricordare le cose. A volte, quando arrivo al suo portone di casa non ricevo risposta al citofono, oppure il telefono non risponde perché Jon non ha pagato la bolletta. Siamo una coppia, in un certo senso, anche se tra noi non c’è niente di esplicito. Quando è con me è con me: è pressappoco tutto quello che arriverà a dire nel definire quello che non si chiama ancora il nostro rapporto.

Si fanno festicciole buie e fumose, con luci spente e candele che tremolano nelle bottiglie. Ci sono gli altri pittori e un’assortita compagnia di donne in maglione a dolce vita, che hanno iniziato a comparire con i capelli lunghi e diritti, divisi nel mezzo. Siedono in gruppo sul pavimento, al buio, e mentre ascoltano canzoni folk che parlano di donne accoltellate fumano sigarette alla marijuana, come si fa a New York. Le chiamano ‘canne’ o ‘erba’, e sostengono che liberano la loro arte.

Qualsiasi tipo di sigaretta mi fa tossire, dunque non fumo. Certe sere mi ritiro nella stanza sul retro con l’uno o l’altro pittore: preferisco non vedere quello che sta combinando Jon con le ragazze dai capelli lisci. Di qualsiasi cosa si tratti, vorrei che lo facesse in privato. Ma lui non sente la necessità di nascondere niente: il possesso sessuale è una cosa borghese, un residuo del concetto dell’inviolabilità della proprietà privata. Nessuno possiede nessun altro.

Lui non dice tutto questo; afferma soltanto: «Ehi, tu non sei la mia padrona».

A volte gli altri pittori sono ‘fatti’ di droga o ubriachi, altre volte invece hanno voglia di parlarmi dei loro problemi e lo fanno in modo impacciato, tra inizi e interruzioni, con brevi parole. I loro problemi riguardano per lo più le ragazze. Ben presto mi porteranno i loro calzini da rammendare, i bottoni da attaccare. Mi fanno sentire una zia. Queste sono le cose che faccio al posto delle scenate di gelosia, nelle quali non c’è futuro. O almeno così mi pare.

 

Jon ha abbandonato i suoi dipinti di vortici e di budella. Dice che sono troppo romantici, troppo emotivi, sdolcinati e sentimentali. Ora fa dipinti in cui tutte le forme sono linee diritte o cerchi perfetti. Usa nastri adesivi per fare le linee diritte e lavora con blocchi di colore puro, senza nessun impasto.

A questi suoi dipinti dà titoli del tipo Enigma: Blu e Rosso oppure: Variazione: Nero e Bianco o ancora: Opus 36. Fanno male agli occhi, quando li guardi, ma Jon dice che proprio questo è il punto.

 

Durante il giorno, vado a scuola.

Il corso di Arte e Archeologia, più buio e più vellutato dell’anno scorso, abbonda di impasti e di chiaroscuri. Sono ancora presenti le Madonne, ma i loro corpi hanno perduto l’originale luce soffusa, e il più delle volte compaiono di notte. Ci sono ancora dei santi, però non sono più seduti in una cella silenziosa o nel deserto, con i loro crani memento mori e i leoni accucciati come cani ai loro piedi; si dibattono invece in pose contorte, trafitti da frecce o legati a un palo. I temi biblici propendono alla violenza, diffusissimo quello di Giuditta che taglia la testa a Oloferne. Abbondano ancora le divinità classiche e guerre, battaglie e massacri sono come prima, ma più confusi, con braccia e gambe intrecciate. Si vedono ancora i ritratti di ricchi personaggi, ma in abiti più scuri.

Mentre passiamo attraverso i secoli, compaiono nuovi soggetti: navi solitarie e animali solitari, cani e cavalli ad esempio; poi contadini solitari, paesaggi con o senza case, fiori solitari, piatti di frutta e tagli di carne, con o senza aragoste. Le aragoste sono un oggetto prediletto per via del loro colore.

Donne nude.

Le sovrapposizioni sono numerose: una dea nuda inghirlandata di fiori, con un paio di cani accanto; personaggi biblici con o senza abiti, accompagnati o meno da animali, da alberi e da navi. Ricchi personaggi in odore di divinità. La frutta e i massacri solitamente non vengono associati, e nemmeno le divinità e i contadini. Le donne nude sono presentate nello stesso modo dei piatti di carne e delle aragoste morte, con la stessa attenzione per il gioco di luce delle candele sulla pelle, la stessa voluttà, la stessa cura sensuale dei particolari resi con dovizia, lo stesso piacere pittorico per la tattilità (‘Resi con dovizia’, scrivo. ‘Piacere pittorico per tattilità.’) Sembrano servite su un piatto.

Non mi piace questa pittura piena d’ombre, viscosa. Preferisco quella di prima, con il suo chiarore diurno, i suoi gesti pacati e cristallizzati. Non mi piace più nemmeno la pittura a olio, non mi piace la sua densità, la sua obliterazione della linea, quella sua aria da labbra truccate, il modo in cui richiama l’attenzione sulla pennellata del pittore. Non riesco a cavarci niente. Quella che cerco, invece, è una pittura che sembri esistere per volontà propria. Cerco oggetti che alitino luce, una luminosa piattezza.

Disegno con matite colorate. Oppure dipingo con tempera a uovo, che è la tecnica dei monaci. Nessuno la insegna più, ormai, e perciò devo frugare in biblioteca in cerca delle istruzioni. La tempera a uovo è difficile e sporca, faticosa e sulle prime scoraggiante. Quando cuocio il gesso imbratto il pavimento e le padelle di mia madre, e rovino una tela dopo l’altra prima di imparare a dipingere in modo da ottenere una superficie liscia. Oppure dimentico qua e là le mie bottiglie di rosso d’uovo e di acqua, che marciscono e appestano la cantina con una puzza simile a quella dello zolfo. Separo con cura i bianchi d’uovo e li porto di sopra a mia madre, che ci fa delle meringhe.

Dipingo accanto alla grande finestra in soggiorno, se non c’è nessuno in casa, oppure alla luce naturale che filtra dalla finestra in cantina. La notte uso due lampade a collo d’oca, ciascuna con tre lampadine. Le condizioni non sono le migliori, ma è tutto quello che posso avere. In futuro, penso, avrò un grande studio con lucernari, anche se cosa dipingerò non è affatto chiaro. Di qualsiasi cosa si tratti, dopo comparirà nelle tavole colorate dei libri, come le opere di Leonardo di cui osservo avidamente gli studi su mani, piedi, capelli e cadaveri. Sono affascinata dagli effetti del vetro e di altre superfici che riflettono la luce. Studio i dipinti nei quali compaiono perle, cristalli, specchi, particolari rilucenti di ottone. Trascorro molto tempo sui Coniugi Arnolfini di Van Eyck, soffermandomi con una lente d’ingrandimento sulla scadente riproduzione a colori del mio libro di testo. Ciò che mi affascina non sono le due pallide e delicate figure senza spalle che si tengono per mano, ma la specchiera sulla parete alle loro spalle, che riflette nella sua superficie convessa non soltanto i loro dorsi, ma anche due altre persone non presenti nel ritratto. Queste figure riflesse nello specchio sono lievemente sghembe, come se all’interno operasse una diversa legge di gravità, una diversa disposizione dello spazio, chiuso lì dentro, sigillato nel vetro come in un fermacarte. Questo specchio rotondo è come un occhio, un unico occhio che può vedere più di chiunque altro guardi, e al di sopra dello specchio si legge la scritta Johannes de Eyck fuit hic. 1434. È una scritta sconcertante, simile ai graffiti nei gabinetti o a quel che si può scrivere con la vernice spray sui muri.

In casa non ho una specchiera con cui esercitarmi, perciò dipingo bottiglie di ginger ale, bicchieri di vino, cubetti di ghiaccio del frigorifero, la teiera smaltata, gli orecchini di perle false di mia madre. Dipingo legno lucidato e metallo, una padella col fondo di rame vista da sotto, un bollitore di alluminio. Mi trastullo con i particolari, china sui miei dipinti, ritoccando le parti salienti con pennelli piccoli.

Mi rendo conto che i miei gusti non sono alla moda, e così li coltivo in privato. Jon, ad esempio, parlerebbe di illustrazioni; per lui qualsiasi ritratto di cose riconoscibili è un’illustrazione. In questo lavoro manca l’energia spontanea, questo direbbe. Non c’è sviluppo. Potrei essere una fotografa, oppure Norman Rockwell. A volte sono d’accordo con lui: che cos’ho fatto finora? Niente che non assomigli a un campionario accidentale della sezione ‘Articoli per la casa’ del ‘Catalogo Eaton’. Però continuo.

 

Il mercoledì seguo un altro corso serale. Non è Disegno dal vero, che quest’anno viene insegnato da un irascibile iugoslavo, ma Arte pubblicitaria. Gli studenti sono molto diversi dalla folla del Disegno dal vero. Provengono perlopiù dalla Divisione commerciale della facoltà d’arte, e non da Belle Arti; anche loro sono in maggioranza ragazzi. Alcuni hanno serie ambizioni artistiche, però non bevono altrettanta birra. Sono più puliti e più seri, dopo la laurea vogliono trovare lavori ben pagati. Anch’io.

L’insegnante è un uomo anziano, sparuto, con un’aria da sconfitto. Nella vita pensa di essere un fallito, ma una volta ha creato una celebre illustrazione di carne di maiale e fagioli in scatola che ricordo ancora dall’infanzia. Mangiavamo molte scatolette di carne di maiale e fagioli durante la guerra. La sua specialità è il sorriso: il trucco consiste nell’abilità di disegnare i denti, bei denti bianchi e uniformi, non separati l’uno dall’altro: ciò li farebbe apparire canini o falsi (come quelli del professore). Mi ha detto che rivelo abilità nel disegnare sorrisi, e che potrei andare lontano.

Jon mi prende un po’ in giro per questo corso serale, ma non quanto avevo pensato. Sebbene chiami l’insegnante ‘signor fagiolino’, non va oltre.