Mi laureo all’università e scopro che con la mia laurea non posso fare gran che. Niente di ciò che vorrei, in ogni caso. Non ho voglia di proseguire gli studi, non voglio insegnare alle superiori né diventare il portaborse del curatore di qualche museo.
A questo punto ho accumulato cinque corsi serali della Facoltà d’arte, quattro dei quali nella sezione commerciale, e vado a esibirli in varie agenzie di pubblicità, insieme con la cartella dei disegni di sorrisi, di piatti di budino caramellato e di mezze pesche sciroppate. A questo scopo acquisto un completo di lana beige (in saldo), scarpe intonate con un po’ di tacco, un paio di orecchini di perle e una raffinata sciarpa di seta (in saldo) da Simpsons, quest’ultima raccomandatami dalla mia insegnante, una donna, dell’ultimo corso serale di Impaginazione e Design. Mi ha raccomandato anche un taglio di capelli diverso, ma sono disposta soltanto a farmi fare una permanente combinata con l’aiuto di grandi bigodini, di gel e di molte forcine. Alla fine riesco a procurarmi un lavoretto, faccio dei modellini e ho un piccolo bilocale ammobiliato, con cucinino e ingresso separato, in una grande casa cadente nell’Annex, a nord di Bloor. Uso la seconda camera per dipingere, e lì tengo la porta chiusa.
Questa casa ha un letto vero e un vero lavandino in cucina. Jon viene a cena e mi sfotte per i tovaglioli che ho acquistato (in saldo), per i piatti pirofili, per la tenda della doccia. «Roba da riviste di arredamento, eh?» mi dice. Mi sfotte anche per il letto, ma dormirci su gli piace. Ora viene in casa mia più spesso di quanto io non vada da lui
I miei genitori vendono la casa e si trasferiscono a nord. Mio padre ha lasciato l’università ed è ritornato a fare ricerca; ora è a capo del Laboratorio di ricerca sugli insetti forestali a Sault Ste. Marie. Dice che Toronto è sempre più sovrappopolata e anche inquinata. Dice che i Grandi Laghi inferiori sono diventati la più grande cloaca della terra, e che se sapessimo cosa c’è nell’acqua che beviamo diventeremmo tutti alcolizzati. In quanto all’aria, è così piena di agenti chimici che dovremmo portare tutti la maschera antigas. Su nel nord si può ancora respirare.
Mia madre non era molto felice di lasciare il suo giardino, ma si è rassegnata: «Se non altro avremo l’occasione di buttare via un bel po’ di quelle cianfrusaglie giù in cantina» ha detto. Hanno iniziato a coltivare un altro giardino nel Soo, dove però la stagione della fioritura è più breve. In estate sono quasi sempre in viaggio, da una zona infestata all’altra. Non c’è penuria di insetti.
Non sento la mancanza dei miei genitori. Non ancora. O piuttosto, non ho voglia di vivere con loro. Mi fa piacere essere lasciata con i miei progetti, con i miei pasticci. Ora posso mangiare come capita, arrangiarmi con spuntini e piatti pronti senza preoccuparmi di una dieta equilibrata, vado a letto quando mi pare, posso lasciare la biancheria sporca e i piatti da lavare.
Ottengo una promozione. Dopo un po’ di tempo mi trasferisco nell’ufficio artistico di una casa editrice, dove disegno copertine di libri. La notte, quando Jon non è in casa, dipingo. A volte mi dimentico di andare a letto e quando mi accorgo che è ormai l’alba devo vestirmi e andare al lavoro. In quei giorni sono intontita e faccio fatica a capire quello che mi dicono, ma nessuno sembra accorgersene.
Ricevo cartoline e qualche breve lettera da mia madre, spedite da posti come Duluth e Kapuskasing. Dice che le strade stanno diventando troppo affollate: ‘Troppi turisti in giro’ mi scrive. Rispondo con notizie sul mio lavoro, sull’appartamento, sul tempo che fa. Non accenno a Jon perché non ci sono notizie. Le notizie dovrebbero essere qualcosa di preciso e di rispettabile, come un fidanzamento.
Mio fratello Stephen è qua e là. È diventato più taciturno, e anche lui ora comunica con le cartoline. Una arriva dalla Germania e mostra un uomo in pantaloni corti di pelle, insieme col messaggio: ‘Grande acceleratore di particelle’; un’altra è dal Nevada, con un cactus, e il commento: ‘Interessanti forme di vita’. Va in Bolivia, per quella che presumo una vacanza, e manda la cartolina di una donna con un alto cappello che fuma un sigaro, con la scritta: ‘Bellissime farfalle. Spero che tu stia bene’. A un certo punto si sposa e lo annuncia con una cartolina da San Francisco, con il Golden Gate al tramonto, e la notizia: ‘Mi sono sposato. Annette manda i suoi saluti’. È tutto quello che so per alcuni anni, finché mi spedisce una cartolina della Statua della Libertà da New York, che dice: ‘Ho divorziato’. Presumo che sia rimasto sconcertato da ambedue gli avvenimenti, come se non si fosse trattato di qualcosa fatto da lui, di proposito, ma gli fossero capitati accidentalmente, come quando si inciampa in una pietra. Immagino che si sia avventurato nel matrimonio come nel parco di un paese sconosciuto, di notte, senza rendersi conto dei rischi che correva.
Arriva a Toronto per una conferenza e me lo comunica in anticipo con una cartolina della statua di Paul Revere a Boston: ‘Arrivo domenica 12. La mia conferenza è lunedì. Ci vediamo’.
Vado alla conferenza, non perché nutra molte speranze su di me (il titolo è ‘I primi picosecondi e la ricerca di una teoria del campo unificato: alcune osservazioni’) ma perché è mio fratello. Me ne sto lì seduta a scarnificarmi le dita, e intanto l’auditorio dell’università si va riempiendo di pubblico, composto prevalentemente da uomini. Per la maggior parte sembrano tipi con cui non sarei mai uscita, al tempo delle scuole superiori.
Poi entra mio fratello, accompagnato da un uomo che lo presenterà. Sono anni che non vedo mio fratello: è più magro e comincia a perdere i capelli. Ha bisogno degli occhiali, per leggere il suo testo. Riesco a vedere che gli spuntano dal taschino della giacca. Qualcuno ha migliorato il suo guardaroba, e ora indossa giacca e cravatta. Questa trasformazione, però, non lo fa apparire più normale ma più anomalo, come una creatura di qualche altro pianeta camuffata grazie a un abbigliamento umano. Ha un aspetto straordinariamente splendente, come se da un momento all’altro la sua testa potesse illuminarsi e divenire trasparente, mostrando un enorme cervello vivacemente colorato all’interno. Nello stesso tempo appare arruffato e perplesso, come se appena risvegliatosi da un piacevole sogno si trovasse circondato dai pellerossa.
L’uomo che presenta mio fratello dice che non ha bisogno di presentazioni e prosegue elencando le sue pubblicazioni, i premi che ha vinto, i contributi che ha dato. Seguono gli applausi, poi mio fratello sale sul podio. Si ferma con lo schermo alle spalle, si schiarisce la voce, sposta il peso da un piede all’altro, inforca gli occhiali. Ora sembra qualcuno che, in futuro, comparirà sui francobolli. È a disagio, e mi sento nervosa per lui. Penso che borbotterà parole incomprensibili. Ma non appena inizia a parlare va tutto bene.
«Quando di notte scrutiamo il cielo» dice, «vediamo frammenti del passato. Non solo nel senso che le stelle, quali le vediamo, sono echi di eventi avvenuti ad anni luce di distanza nel tempo e nello spazio: tutto, lassù, e anche tutto quaggiù è un fossile, un residuo dei primi picosecondi della creazione, quando l’universo si cristallizzò dal plasma omogeneo primordiale. Nei primi picosecondi, le condizioni erano difficilmente immaginabili. Se potessimo viaggiare a ritroso su una macchina del tempo verso questo momento esplosivo, ci troveremmo in un universo colmo di energie che non comprendiamo e di forze che si comportano stranamente, distorte al punto da risultare irriconoscibili. Più indietro esploriamo, più queste condizioni diventano estreme. Gli attuali strumenti sperimentali possono condurci lungo questa strada solo per un breve tratto. Oltre quel punto, la teoria diventa la nostra unica guida.» Dopo continua a parlare in una lingua che sembra inglese ma non lo è, e infatti non riesco a capirci una sola parola.
Per fortuna c’è qualcosa da guardare. L’aula diventa buia, lo schermo si illumina e compare l’universo, o alcune sue parti: il vuoto nero punteggiato da galassie e da stelle, incandescente, azzurro, rosso. Una freccia si sposta sullo schermo, esplorando e scoprendo. Compaiono poi diagrammi, sfilze di numeri e riferimenti a cose che qui tutti, tranne me, sembrano riconoscere. A quanto pare, esistono ben più di quattro dimensioni.
Mormorii di interesse serpeggiano per l’aula, si odono sussurri, fruscii di carta. Alla fine, quando si riaccendono le luci, mio fratello riprende a parlare la nostra lingua. «Ma che dire del momento precedente il primo momento?» si domanda. «E ha senso, poi, usare il termine ‘precedente’, dato che il tempo non può esistere senza lo spazio, né lo spazio-tempo senza gli eventi, né gli eventi senza la materia-energia? Eppure qualcosa dev’essere esistito prima. Quel qualcosa è il contesto teorico, i parametri entro cui devono operare le leggi dell’energia. A giudicare dalle scarse ma crescenti indicazioni attualmente a nostra disposizione, se l’universo è stato creato con un fiat lux, quel fiat deve essere stato espresso non in latino, ma nell’unico linguaggio autenticamente universale: la matematica.» Tutto ciò mi puzza molto di metafisica, ma il pubblico non sembra aversene a male perché applaude.
Vado poi al rinfresco, dove viene offerta la solita roba dell’università: sherry pessimo, tè troppo forte, biscotti ancora nei pacchetti. I numerosi uomini presenti mormorano nei capannelli, si stringono la mano. In mezzo a loro mi sento troppo visibile e fuori luogo.
Individuo mio fratello. «Sei stato grande» gli dico.
«Mi fa piacere che tu ci abbia capito qualcosa» mi risponde ironico.
«Be’, la matematica non è mai stata esattamente il mio forte» gli dico, e lui sorride con benevolenza.
Ci scambiamo notizie sui genitori: quando li ho sentiti l’ultima volta erano a Kenora, diretti verso ovest. «Ancora a contare i soliti bruchi, immagino» commenta mio fratello.
Ricordo quando vomitava sul ciglio della strada, e il suo odore di matite di cedro. Ricordo la nostra vita nelle tende e negli accampamenti dei boscaioli, l’odore della legna tagliata, della benzina, dell’erba schiacciata e del formaggio rancido, ricordo quando strisciavamo nel buio. Ricordo le sue spade di legno col sangue arancione, la sua collezione di fumetti. Lo vedo accovacciato nel terreno paludoso, che grida: «Buttati a terra, sei morta!». Lo vedo mentre bombarda i piatti da lavare con le forchette. Tutte le mie prime immagini di lui sono nitide e chiare, in technicolor: i suoi calzoncini sformati, la sua maglietta a strisce, i suoi capelli arruffati e schiariti dal sole, le sue braghe invernali e il suo casco di pelle. Poi c’è un vuoto e lui ricompare all’altro capo, inspiegabilmente più vecchio di due anni.
«Ricordi quella canzone che cantavi?» gli chiedo. «Era durante la guerra. A volte la fischiettavi. ‘Con un’ala sola e una preghiera’.»
Lui sembra perplesso, aggrotta un po’ la fronte. «Non posso dire di ricordarla» risponde.
«Disegnavi tutte quelle esplosioni. Prendevi a prestito la mia matita rossa, perché le tue erano tutte consumate.»
Mi guarda, con l’espressione di uno che si ricorda queste cose ma è come sconcertato che anch’io me le ricordi. «Non potevi essere così grande, allora» mi dice.
Mi domando cosa doveva essere per lui una sorella più piccola da tirarsi dietro. Per me lui era una presenza, non c’era momento in cui non esistesse. Ma per lui io non ero una presenza. Una volta era figlio unico, e io un’intrusa. Mi domando se si è risentito quando sono nata. Forse ha pensato che fossi una scocciatura, senza dubbio deve averlo pensato, qualche volta. Tutto considerato, nell’insieme ha fatto del suo meglio.
«Ricordi quel barattolo di biglie che hai seppellito sotto il ponte?» gli dico. «Non mi hai mai spiegato perché l’hai fatto.» Erano la più belle, le ‘pure’ rosse e azzurre, le acquamarine e gli occhi di gatto, sepolte sotto terra, al sicuro. Aveva calpestato la terra sopra il barattolo e sparso foglie tutt’intorno.
«Mi sembra di ricordare» risponde, come se fosse riluttante a rammentare quel suo io più giovane. Mi dispiace che riesca a ricordarsi alcune di queste cose e altre no; che le cose che ha perduto o confuso esistano ormai soltanto per me. Se ha dimenticato queste cose, io quante ne ho dimenticate?
«Può darsi che siano ancora laggiù» gli dico. «Chissà se qualcuno le ha trovate, quando hanno costruito il nuovo ponte. Hai seppellito anche la mappa.»
«È vero» risponde con quel suo sorriso d’un tempo, segreto ed esasperante. Ancora adesso è indecifrabile, e questo mi rassicura: nonostante il suo aspetto cambiato, i suoi capelli più radi e il suo abbigliamento di adesso, in fondo è ancora la stessa persona.
Dopo che se ne è andato verso la sua nuova destinazione, mi viene l’idea di regalargli per il compleanno una stella con il suo nome. Ho visto una pubblicità: si mandano i soldi e si riceve un certificato con una mappa stellare dove è indicata la propria stella. Forse lo troverebbe divertente. Ma non sono sicura che la parola ‘compleanno’ per lui abbia ancora qualche significato.