Alcune di noi che partecipano alle riunioni stanno preparando una mostra di gruppo, fatta soltanto da donne. È una faccenda rischiosa, e lo sappiamo. Jody dice che potremmo essere fustigate dall’establishment artistico maschile. La loro teoria, di questi tempi, è che la vera arte trascende maschile e femminile. La teoria di Jody è che finora l’arte è stata fatta soprattutto da uomini che si ammiravano a vicenda. Una donna artista da loro può essere ammirata soltanto come qualcosa di secondario, come una sorta di bizzarra eccezione. «Fenomeni da baraccone» dice Jody.
Potremmo essere fustigate anche dalle donne perché ci siamo separate, ci siamo messe in mostra. Potremmo essere definite ‘elitarie’. Sono molti i rischi che corriamo.
Alla mostra partecipano quattro di noi. Carolyn, che ha un viso angelico di luna, incorniciato da una frangia di capelli scuri, si definisce ‘artista tessile’. Alcune sue opere sono coperte patchwork composte da fantasiosi disegni. Su una sono incollati preservativi imbottiti di assorbenti igienici (intonsi), a forma di lettere che compongono la scritta CHE COS’È L’AMORE? Un’altra è floreale, con un messaggio allegato:
ABBASSO
L’UOMO
GENEITÀ
Compone anche festoni murali con carta igienica, arrotolata come corda e intrecciata con pellicole di vecchi film scollacciati, di quelli che venivano chiamati ‘film d’arte’. «Porno usato» dice allegramente. «Perché non riciclarlo?»
Jody usa manichini d’abbigliamento, li sega e ne incolla insieme le parti in pose inquietanti, poi li rifinisce con vernici, collage e filo metallico che dispone nei posti più appropriati. Un manichino è appeso con un gancio da macellaio infilato nel plesso solare, un altro ha fiori e alberi dipinti sulla faccia come un bel tatuaggio, di una delicatezza che in Jody non avrei sospettato. Un altro ha le teste di sei o sette vecchie bambole incollate sulla pancia. Ne riconosco qualcuna: Sparkle Plenty, Betsy Wetsy, Barbara Ann Scott.
Zillah è bionda e mingherlina, come le fragili figlie dei fiori di qualche anno fa. I suoi lavori li chiama ‘lintscapes’: sono fatti di strati della lanugine simile a feltro che si forma sui filtri delle asciugatrici e che può essere strappata a fogli. Anch’io ho ammirato questi fogli mentre li buttavo nella pattumiera, con la loro consistenza e i loro morbidi colori. Zillah ha acquistato molti tovaglioli in diverse tonalità di colore e li ha passati ripetutamente attraverso l’asciugatrice, ottenendo sfumature rosa, grigioverde, bianchiccio, oltre che del comune ‘grigio-sotto-il-letto’. Li ha tagliati in forme diverse e li ha incollati con cura su uno sfondo, formando composizioni multistrati che assomigliano a paesaggi di nuvole. Ne sono affascinata, vorrei averci pensato io per prima. «È come fare un soufflé» dice Zillah. «Un soffio d’aria fredda, e hai chiuso.»
Jody, che è quella che prende le decisioni, ha esaminato i miei quadri e ha scelto quelli per la mostra. Ha optato per alcune nature morte, Il torchio, Il tostapane, La belladonna e Tre streghe. Tre streghe è quello dei tre divani.
A parte le nature morte, quello che esporrò è prevalentemente figurativo, ma ci sono anche un paio di composizioni fatte con cannucce per bevande e con maccheroni crudi, e un’altra intitolata Carta argentata. Non volevo che fossero comprese anche queste, ma a Jody piacevano. «Materiali domestici» ha detto.
Sono in mostra anche i pezzi della Vergine Maria e tutte le signore Smeath. Pensavo che fossero troppe, ma Jody le ha volute. «È la negazione della donna piccante» ha detto. «Perché devono essere sempre donne giovani e belle? È giusto far vedere il corpo femminile che invecchia, mostrato con compassione, tanto per cambiare?» È questo che ha scritto nel catalogo, anche se in un linguaggio più elevato.
La mostra si svolge in un piccolo supermercato ormai estinto a ovest di Bloor Street. Dev’essere trasformato tra breve in un paradiso dell’hamburger ma nel frattempo è vuoto e una delle donne, che conosce una cugina della moglie dell’imprenditore che ne è proprietario, è riuscita a convincerlo a lasciarcelo usare per due settimane. Quando gli ha detto che nel Rinascimento i nobili più famosi erano ben noti per il gusto estetico e per il mecenatismo, l’idea gli è piaciuta. Non sa che è una mostra di sole donne: sono solo alcuni artisti, questo gli è stato detto. Lui ha risposto che gli sta bene, purché non sporchiamo il locale.
«Che cosa c’è da sporcare?» si domanda Carolyn mentre ci guardiamo intorno. Ha ragione, è già abbastanza sporco. I banchi e gli scaffali dei prodotti sono stati smontati, alcuni pezzi del vecchio pavimento rivestito di linoleum compaiono al di sotto delle grandi assi nude, le lampadine penzolano dai fili e soltanto alcune funzionano. I banchi delle casse, però, sono ancora al loro posto, e sulle pareti sono afflosciati alcuni cartelli sbrindellati: ‘offerta speciale a 3 e 95¢’, ‘Fresco dalla California’, ‘La carne come la vuoi tu’.
«Questo spazio si può adattare» dice Jody, camminando con le mani affondate nelle tasche della tuta.
«E come?» domanda Zillah.
«Non per niente ho fatto judo» risponde Jody. «Si deve lasciare che sia lo slancio a fare perdere l’equilibrio all’avversario.»
In pratica ciò significa che si appropria dell’insegna ‘La carne come la vuoi tu’ e la incorpora in una delle sue composizioni, uno smembramento particolarmente violento in cui il manichino, vestito soltanto di corde e di cinghie di pelle, è finito con la testa capovolta sotto un braccio.
«Se tu fossi un uomo, per una cosa simile ti maciullerebbero» le dice Carolyn.
Jody sorride dolcemente. «Ma io non lo sono.»
Lavoriamo per tre giorni, aggiustando e riaggiustando. Dopo aver sistemato la roba, rimangono da montare i tavoli a cavalletto presi in affitto per il rinfresco, e c’è da acquistare il ‘mangia e bevi’. ‘Mangia e bevi’ è un’espressione di Jody. Prendiamo vino canadese in piccole damigiane da un gallone, bicchieri di plastica per servirlo, salatini e patatine, pezzi di formaggio avvolti nella pellicola, cracker. Questo è quanto possiamo permetterci, ma vige anche la tacita regola secondo cui tutte queste cose devono essere rigorosamente plebee.
Il nostro catalogo è composto da due fogli ciclostilati, graffati a un angolo in alto. Il catalogo dovrebbe essere un prodotto collettivo, ma in realtà l’ha scritto quasi tutto Jody, è lei che ne ha la predisposizione. Carolyn fa uno striscione con un lenzuolo, tinto in modo da sembrare insanguinato, da appendere fuori dalla porta con la scritta:
F(OUR) FOR ALL
«Che cosa vorrebbe dire?» domanda Jon, a quanto pare capitato qui con l’intenzione di venirmi a prendere, in realtà per dare un’occhiata. Sospetta di questi miei rapporti con altre donne, anche se non si abbasserebbe mai a dirlo apertamente, e in ogni caso le chiama ‘le ragazze’.
«È un gioco di parole su free for all» gli spiego, anche se so che ha capito. «E poi c’è dentro anche our, nel senso di ‘nostre’.» ‘C’è dentro’ è un’altra espressione di Jody.
Jon non fa commenti.
È lo striscione che richiama l’attenzione dei giornali: è una novità, un avvenimento che promette scandalo. Un giornale manda in avanscoperta un fotografo, che dice scherzosamente: «Su, ragazze, bruciate qualche reggipetto» e intanto ci fotografa.
«Maiale» dice Carolyn a bassa voce.
«Stai calma» le dice Jody. «Gli piace, se ci scaldiamo.»
Prima dell’inaugurazione, vado alla galleria con un certo anticipo. Cammino nella mostra, su e giù per i vecchi corridoi del supermercato, intorno ai banchi delle casse dove le sculture di Jody posano come modelle su una passerella, lungo le pareti sulle quali le coperte patchwork di Carolyn gridano la loro sfida. Sono lavori forti, penso, più forti dei miei. Anche le composizioni di garza di Zillah mi sembrano avere più consistenza, più sottigliezza, una sicurezza che i miei dipinti non hanno: in questo contesto sono troppo rifiniti, troppo decorativi, troppo carini e basta.
Ho divagato, non sono riuscita a dire quello che volevo. Sono rimasta ai margini.
Bevo un po’ di quel vino cattivo, poi un altro po’; così mi sento meglio, anche se so che poi mi sentirò peggio. Sa di quella roba nella quale di solito si metteva a marinare l’arrosto.
Sono appoggiata alla parete, accanto alla porta, con il mio bicchiere di plastica in mano. Sono qui perché questa è l’uscita. E anche l’ingresso: arrivano i visitatori, e poi ne arrivano altri ancora.
Molti di questi, la maggioranza, sono donne. Ce n’è di tutti i generi: hanno capelli lunghi, gonne lunghe, jeans, tute, orecchini, berretti da muratori, scialli color lavanda. Alcune fanno anche loro le pittrici, altre lo sembrano. Sono arrivate Carolyn, Jody e Zillah, adesso, ed ecco le voci di saluto, abbracci, baci sulle guance, gridolini divertiti. Sembra che tutte abbiano più amiche di me, più amicizie femminili. In realtà non avevo mai pensato a questa mancanza, credevo che le altre donne fossero come me. Lo erano, una volta. E ora non lo sono più.
C’è sempre Cordelia, naturalmente, ma sono anni che non la vedo. Jon non è ancora arrivato, sebbene abbia detto che sarebbe venuto. Abbiamo chiamato persino una baby-sitter perché potesse venire. Penso che magari civetterò con qualcuno, qualche persona sconveniente, tanto per vedere cosa succede. Mi faccio strada in mezzo alla ressa con un altro bicchiere di plastica pieno di quello schifoso aceto rosso, sforzandomi di non sentirmi esclusa.
Dietro di me sento una voce di donna: «Be’, c’è da dire che sono sicuramente diverse». È la classica censura matronale del ceto medio di Toronto, la condanna senza appello. Dicono così anche dei sobborghi. Non farebbe bella figura sopra il divano, questo vuole dire. Mi volto e la guardo: un abito grigioargento di buon taglio, perle, una sciarpa elegante, costose scarpe scamosciate. È convinta della sua legittimità, del suo diritto a dichiararsi: io e quelle come me siamo qui perché ci tollerano.
«Elaine, vorrei presentarti mia madre» dice Jody. L’idea che questa donna sia la madre di Jody mi lascia senza fiato. «Mamma, è Elaine che ha fatto il dipinto dei fiori, sai, quello che ti piace.»
Allude alla Belladonna. «Oh, sì» esclama la madre di Jody con un caloroso sorriso. «Voi ragazze siete tutte così dotate... Mi piace molto quel quadro, i colori sono deliziosi. Ma che cosa sono tutti quegli occhi?»
Somiglia così tanto a quello che avrebbe detto mia madre, che mi sento struggere di nostalgia. Come vorrei che ci fosse qui mia madre. La maggior parte di queste cose non le piacerebbe, in particolar modo i manichini tagliati, non li capirebbe proprio. Però sorriderebbe e tirerebbe fuori qualcosa di carino da dire. Poco tempo fa, avrei riso di questa sua capacità. Ora ne sento il bisogno.
Mi verso un altro bicchiere di vino, prendo un cracker al formaggio e scruto in mezzo alla gente in cerca di Jon o di chiunque altro. Vedo, al di sopra delle teste, la signora Smeath.
La signora Smeath mi sta guardando. È distesa sul divano col suo cappellino domenicale, simile a un turbante, la coperta afghana avvolta tutt’intorno. Questo quadro l’ho intitolato Torontodalisca: Omaggio a Ingres, per via della posa e della pianta del ficus simile a un ventilatore alle sue spalle. È seduta davanti a uno specchio, con metà della faccia che si squama, come il nostro fumetto dell’orrore che avevo letto: questo quadro è intitolato Lebbra. È in piedi davanti al suo lavandino, col suo minaccioso coltellino in mano, una patata mezza pelata nell’altra mano. Questo è intitolato Occhio-per-occhio.
Accanto c’è Dono bianco, che è composto da quattro pannelli. Nel primo la signora Smeath è avvolta in cartavelina bianca, come un barattolo di marmellata o una mummia: solo la testa spunta fuori, con su dipinto quel suo sorrisetto a labbra chiuse. Negli altri tre si spoglia progressivamente: dapprima indossa il suo vestito stampato e il grembiule con la pettorina, poi il busto color carne dell’ultima pagina del ‘Catalogo Eaton’ (anche se credo che non ne avesse) ed infine i mutandoni di cotone con le gambe flosce, un unico, grande seno tagliato in sezione per mostrare il cuore. Il suo cuore è quello di una tartaruga morente, il cuore di un rettile, rosso scuro, malato. Sul fondo di questo pannello c’è scritto con uno stampino: IL-REGNO-DI-DIO-È-DENTRO-DI-TE.
Per me è ancora un mistero, l’odio così forte che provo per lei.
Distolgo lo sguardo dalla signora Smeath e vedo un’altra signora Smeath: questa però si muove. Ha appena varcato la porta e sta dirigendosi verso di me. Ha la stessa età che aveva lei. E come se fosse uscita dalla parete, dalle pareti, ha la stessa faccia rotonda da patata cruda, quella struttura massiccia di ossa grosse, gli occhiali scintillanti e la crocchia di capelli. Sento la paura che mi stringe lo stomaco, poi quell’odio stantio che divampa in un attimo.
Ma naturalmente questa non può essere la signora Smeath, che ora deve essere molto più vecchia. E infatti non è lei. La crocchia di capelli era un’illusione ottica: sono soltanto capelli che ingrigiscono, tagliati molto corti. È Grace Smeath, scialba e virtuosa, in un abbigliamento informe, senza età, grigio; è senza anelli o altri ornamenti. Dal modo in cui cammina, impettita e tremante, le labbra serrate, le lentiggini che risaltano sulla pelle bianchissima come morsi di insetti, posso capire che questa situazione non può essere trasformata in un lieto incontro mondano da un mio timido sorriso.
In ogni caso ci provo. «Sei Grace?» le chiedo. Parecchie persone tutt’intorno si sono interrotte a metà. Questo non è il tipo di donna che frequenta solitamente le inaugurazioni alle gallerie, di qualsiasi genere esse siano.
Grace continua a marciare implacabile verso di me. La sua faccia è più grassa di una volta. Penso a scarpe ortopediche, a calze di filo di Scozia, a biancheria consunta e ingrigita dal bucato, a depositi di carbone in cantina. Ho paura di lei; non di quello che potrebbe farmi, ma del suo giudizio. Ed ecco che arriva.
«Sei disgustosa» mi dice. «Stai nominando il Signore invano. Perché vuoi offendere le altre persone?»
Che cosa c’è da dire? Potrei sostenere che la signora Smeath non è la madre di Grace, ma una mia composizione. Potrei accennare ai valori formali, all’attento uso del colore. Ma Dono bianco non è una composizione, è il ritratto della signora Smeath, e per di più è indecente. Sono graffiti da gabinetto elevati a una sfera più alta.
Grace sta fissando la parete alle mie spalle: non sono soltanto uno o due i ritratti che la sgomentano, sono molti. È la metamorfosi della signora Smeath da un quadro all’altro: nuda, esibita, dissacrata, insieme col divano di velluto marrone, la sacra pianta del ficus, gli angeli di Dio. Sono andata troppo oltre.
Le mani di Grace sono pugni, il mento ingrassato le trema, gli occhi sono rosa e acquosi come quelli dei conigli da laboratorio. È una lacrima? Sono atterrita e anche profondamente soddisfatta. Grace sta dando spettacolo di sé, finalmente, e io sono padrona della situazione.
Poi guardo di nuovo, più attentamente: quella donna non è Grace. Non le assomiglia nemmeno. Grace ha la mia età, non sarebbe così vecchia. È una vaga somiglianza, nient’altro. Questa donna è una sconosciuta.
«Dovresti vergognarti» dice la donna che non è Grace. I suoi occhi si socchiudono dietro gli occhiali. Solleva il pugno, io lascio cadere il bicchiere di vino. Il rosso schizza sulla parete e sul pavimento.
Quella che stringe nella mano chiusa è una bottiglietta d’inchiostro. Con un movimento tremante svita il tappo, e io trattengo il fiato con paura ma anche con curiosità: la butterà contro di me? Chiaramente, ha intenzione di gettarla da qualche parte. Intorno a noi, alcuni rimangono a bocca aperta; tutto sta avvenendo rapidamente, mentre Carolyn e Jody si spingono avanti.
La donna che non è Grace scaglia l’inchiostro, bottiglietta e tutto, contro il Dono bianco. La bottiglietta carambola e rimbalza sul tappeto, l’inchiostro si rovescia sopra la linea del cielo, velando la signora Smeath di un azzurro lavabile Parker. La donna mi rivolge un sorriso trionfante e si volta, allontanandosi, non più a passo di marcia, ma di corsa, verso la porta.
Ho portato le mani alla bocca, come per gridare. Carolyn mi stringe a sé. Ha l’odore di una madre. «Chiamo la polizia» dice.
«No» rispondo. «Andrà via.» E probabilmente sarà così, perché Dono bianco è dipinto in vernice su legno. Forse non rimarrà nemmeno una scalfittura.
Alcune donne si raccolgono intorno a me, tubando nel fruscio delle loro piume. Vengo rincuorata e consolata, accarezzata, vezzeggiata come se avessi subito un trauma. Forse fanno sul serio, forse mi vogliono davvero bene, dopo tutto. Mi è così difficile capire, con le donne.
«Chi era?» mi domandano.
«Una fanatica religiosa» risponde Jody. «Una reazionaria.»
Sarò guardata con rispetto, adesso: un dipinto che può essere bersagliato da bottiglie d’inchiostro, che può destare una tale reazione di indignata violenza, tanto scalpore e scandalo, deve avere qualche strambo potere rivoluzionario. Apparirò audace e coraggiosa. Mi è stata conferita una dimensione eroica.
‘Volano piume nella rissa femminista’ scrive il giornale. La fotografia mi mostra rattrappita di paura, le mani sulla bocca, la signora Smeath sullo sfondo, nuda e gocciolante d’inchiostro. E così scopro che le battaglie delle donne fanno notizia. C’è qualcosa di solleticante in tutto ciò, qualcosa di rovesciato e di comico, come un uomo vestito con una gonna lunga e tacchi alti. ‘Battaglia di galline’ la chiamano.
La mostra, in quanto tale, attira malevoli aggettivi: viene definita ‘abrasiva’, ‘aggressiva’, ‘stridula’. Sono perlopiù le statue di Jody e le coperte di Carolyn che richiamano questi giudizi. l ‘lintscapes’ di Zillah sono ‘soggettivi’, ‘introversi’, ‘fragili’. Rispetto alle altre, me la cavo abbastanza bene: ‘ingenuo surrealismo con un tocco di acidità femminista’.
Carolyn fa uno striscione giallo sgargiante con le parole ‘abrasiva’, ‘aggressiva’, ‘stridula’, scritte in rosso, e lo appende fuori dalla porta. Arrivano molte persone.