Nell’angolo di un parcheggio, in mezzo a sontuose boutique, hanno ricostruito un ristorante degli anni Quaranta. Si chiama 4 D’s Diner; non è ristrutturato, è nuovo di zecca.
Non potevano abbattere queste cose così rapidamente, una volta.
L’interno sembra abbastanza autentico, solo che è troppo pulito, ed è meno anni Quaranta di quanto non sia primi Cinquanta. C’è un banco per le bevande analcoliche, con sgabelli ricoperti in verde limone e scomparti imbottiti in vinile, di una tonalità purpurea che ricorda le fodere di una vecchia decapottabile con pinne da squalo. E ci sono juke-box, attaccapanni cromati, e alle pareti fotografie sgranate in bianco e nero di veri ristoranti degli anni Quaranta. Le cameriere indossano uniformi bianche col bordo nero ma la tonalità del rossetto non è quella giusta, e inoltre avrebbero dovuto contornarlo sui bordi delle labbra. I camerieri portano quei berretti a bustina messi sulle ventitré e hanno un taglio di capelli perfetto, ben rasati sulla nuca. Il posto ha un successo strepitoso, soprattutto tra i ragazzini sui vent’anni.
In realtà è come il Sunnysides, trasformato in un museo. Potremmo esserci Cordelia e io, qui dentro, con le nostre maniche ad ala di pipistrello e i cinturoni imbottiti o di tela cerata, a bere i nostri frullati con l’aria più annoiata che si possa.
L’ultima volta che ho visto Cordelia stava varcando la porta della casa di riposo. Questa è stata l’ultima volta che le ho parlato, ma non l’ultima che lei ha parlato con me.
Non ci sono né avocado né tartine macrobiotiche, il caffè non è espresso, la torta è di crema di cocco, non peggiore di quanto fosse allora. Ed è questo che prendo, caffè e torta, seduta in uno di quegli scomparti rossi a osservare i ragazzi che fanno commenti ad alta voce su quelle che considerano le bizzarrie del passato.
Il passato non è bizzarro nel momento in cui lo si vive. Lo è soltanto a distanza, più tardi, quando lo si può vedere come décor e non come la forma in cui è stata compressa la propria vita.
Adesso fanno gli stampini per zucche a forma di Elvis Presley, che comprimono intorno al frutto quando è piccolo, così crescendo prende la forma della testa di Elvis Presley. È per questo che cantava, per diventare una zucca? I cibi vegetariani e la reincarnazione sono nell’aria, ma ci stanno portando troppo oltre. Per quel che mi riguarda preferirei reincarnarmi come un nasello o come un gamberetto da friggere, anche se penso che come prospettiva sia più piacevole che non andare all’inferno.
«L’avete sistemato bene» dico a una cameriera. «Certo, i prezzi sono sbagliati. A quei tempi un caffè costava dieci cents.»
«Davvero» dice la ragazza, ma non è una domanda. Mi rivolge un doveroso sorriso: ‘Vecchia barbona rompiballe’. Ha la metà dei miei anni e vive già una vita che non riesco a immaginare. Quali che siano le sue colpe, le sue avversioni, le sue paure, non sono le stesse nostre. Come se la cavano con l’aids, queste ragazze? Non possono rotolarsi nei fienili come facevamo noi. Esiste forse un rituale del corteggiamento, che comporta magari lo scambiarsi i numeri telefonici dei rispettivi medici? Quello che faceva paura a noi era di rimanere incinte, era questo lo spauracchio del sesso che poteva mettere fine a tutto quanto. Ora non più.
Pago il conto, lascio una lauta mancia, raccolgo i miei pacchetti: per le mie figlie una sciarpa italiana a testa, una penna stilografica per Ben. Le penne stilografiche stanno ritornando di moda. In qualche parte del limbo sono allineati tutti questi vecchi aggeggi, congegni e costumi, in attesa del loro turno per fare ritorno.
Cammino per la strada, su fino all’angolo. La strada successiva è quella di Josef. Conto le case: questa doveva essere la sua. La facciata è stata abbattuta e ricoperta in vetro, il prato pavimentato. Nella vetrina c’è un vecchio cavallo a dondolo per bambini, una logora coperta decorata, una bambola con la testa di legno e la faccia consunta. Sono rifiuti di un tempo, riciclati come denaro. Nessun cartellino col prezzo: sarebbe sfacciato, offensivo.
Mi domando che ne sia stato di Josef, alla fine. Se è ancora vivo deve avere sessantacinque anni, forse di più. Se allora era un vecchio sporcaccione, che cosa sarà adesso?
Ha fatto un film. Penso che fosse lui, in ogni caso il nome del regista era lo stesso. L’ho visto per caso, a un festival cinematografico. È stato molto tempo dopo, quando già vivevo a Vancouver.
Era un film su due donne con personalità nebulose e capelli vaporosi. Vagavano attraverso i campi, nel vento che spingeva i vestiti sottili contro le cosce, lo sguardo imperscrutabile. Una di loro fracassa una radio e ne getta i pezzi dentro un torrente, mangia una farfalla, taglia la gola a un gatto, è impazzita. L’altra si tagliuzza la pelle di una coscia, usando un vecchio rasoio che apparteneva a suo nonno. Verso la fine del film si butta giù da un cavalcavia ferroviario, in un fiume, col vestito che svolazza come una tendina al vento. Se non fosse per i colori dei capelli, sarebbe difficile distinguere le due donne.
Il protagonista del film era innamorato di ambedue e non era capace di decidersi: da ciò aveva origine la loro follia. È stato questo a convincermi che il film doveva essere di Josef: non gli sarebbe mai passato per la mente che le donne potessero avere motivi personali per impazzire, indipendentemente dagli uomini.
Il sangue, in questo film, non era sangue vero; le donne per Josef non erano vere, non più di quanto lui lo fosse per me. Ecco perché ho potuto comportarmi con tanto disprezzo e indifferenza di fronte alla sua sofferenza, perché non era vera. Il motivo per cui non l’ho mai sognato è che apparteneva già al mondo dei sogni; era discontinuo, irrazionale, ossessivo.
Sono stata ingiusta con lui, certo, ma come sarei finita se non lo fossi stata? Soggiogata, imbrigliata. Le donne giovani hanno bisogno di essere ingiuste, è una delle loro poche difese. Hanno bisogno di essere insensibili, inconsapevoli. Camminano nel buio, sul bordo di alte scogliere, canticchiando tra sé, pensando di essere invulnerabili
Non posso biasimare Josef per questo film. Era autorizzato a dare la sua versione, a evocare i fatti, così come lo posso fare io. Io posso essergli servita per i suoi fini, ma anche lui per i miei.
Ecco Disegno dal vero, per esempio, appeso proprio lì sulla parete della galleria: Josef conservato come carne in gelatina e altrettanto buono da mangiare. È sulla sinistra del quadro, tutto nudo ma voltato con una torsione rispetto agli occhi di chi guarda, e ciò che si vede è il deretano e il torso di profilo. Sulla destra c’è Jon, nella stessa posizione. I loro corpi sono piuttosto idealizzati: meno pelosi di quanto fossero in realtà, i muscoli meglio definiti, la pelle luminosa. Per rispetto a Toronto avevo pensato di mettere loro indosso un paio di boxer, ma poi ho deciso di no. Tutti e due avevano culi meravigliosi.
Stanno entrambi dipingendo un quadro, e ciascun quadro è su un cavalletto. Quello di Josef rappresenta una donna voluttuosa, non troppo grassa, seduta su uno sgabello con un lenzuolo drappeggiato tra le gambe, i seni nudi, il volto preraffaellita, assorto, consciamente misterioso. Il quadro di Jon consiste in una serie di budelli intestinali rosa acceso, rosso lampone increspato e ciliegia di Borgogna.
La modella è seduta su una sedia in mezzo a loro, vista di fronte e con i piedi nudi sul pavimento. È abbigliata con un lenzuolo bianco, che la avvolge fin sotto il seno. Le mani sono incrociate compostamente sul grembo. La testa è una sfera di vetro azzurrino.
Seduti a un tavolo del bar sulla terrazza del Park Plaza Hotel, io e Jon beviamo vino bianco allungato con acqua. Sono stata io a proporlo, volevo rivedere questo posto. Fuori, il profilo del cielo è cambiato: il Park Plaza non è più l’edificio più alto della zona ma un tozzo residuo del passato, rimpicciolito dalle slanciate torri di vetro che gli sorgono intorno. A sud c’è la torre CN, che si eleva come un enorme ghiacciolo rovesciato. È il tipo di architettura che un tempo si vedeva soltanto nei fumetti di fantascienza, e nel vederla incollata sullo sfondo del monotono lagocielo ho la sensazione di non essere andata avanti nel tempo, ma lateralmente, in un universo a due dimensioni.
All’interno però il bar non è molto cambiato: assomiglia ancora a un bordello d’alta classe in stile Reggenza. Anche i camerieri, con i loro capelli ben pettinati e quell’aria di infastidita discrezione, sembrano gli stessi e probabilmente lo sono. La direzione, una volta, teneva al guardaroba cravatte di scorta per i gentiluomini che se n’erano dimenticati. ‘Dimenticati’ era la parola giusta, perché di certo nessun vero gentiluomo avrebbe mai pensato di andarci senza cravatta. Era un avvenimento, quando questo posto veniva violato da qualche donna in abito completo con i pantaloni. L’aveva fatto un’elegante indossatrice nera, e la direzione non aveva potuto impedirle l’accesso perché lei li avrebbe subito accusati di razzismo. Anche questo ricordo è per me una data, come il lieve brivido di trionfo che lo accompagna: quale donna, oggi, potrebbe concepire un abito con i pantaloni come segno di liberazione?
Una volta non venivo qui con Jon. Avrebbe riso delle sedie imbottite in stile, dei tendaggi agganciati alle pareti, degli uomini e delle donne ritagliati da qualche pubblicità patinata di whisky. Era con Josef che venivo qui: Josef, al quale toccavo la mano sul tavolo. Non era la mano di Jon, come adesso.
Soltanto la punta delle dita, adesso, con leggerezza. Questa volta non parliamo molto, non ci sono le punzecchiature verbali che ci eravamo scambiati durante il pranzo. C’è un vocabolario comune, fatto di monosillabi e di silenzi: lo sappiamo perché siamo qui. Mentre scendo in ascensore mi guardo nello specchio affumicato sulla parete e vedo nel vetro scuro la mia faccia offuscata dal tempo come una vecchia pietra. Potrei avere qualsiasi età.
Prendiamo un taxi per ritornare allo studio, le mani posate una di fianco all’altra sul sedile. Saliamo le scale lentamente, in modo da non rimanere senza fiato: nessuno dei due vuole farsi sentire ansimare come una persona di mezza età. La mano di Jon è posata sulla mia vita. È un posto familiare, come quando si sa dov’è l’interruttore della luce di una casa in cui si abitava ma nella quale non si ritorna da anni. Quando arriviamo alla porta, prima di entrare lui mi dà un lieve colpo sulla spalla, un gesto d’incoraggiamento e anche di nostalgica rassegnazione.
«Non accendere la luce» gli dico.
Jon mi prende tra le braccia, la faccia tra il collo e la spalla. Non è tanto un gesto di desiderio, quanto di stanchezza.
Lo studio giace nel grigio purpureo del crepuscolo autunnale. Gli stampi di gesso di braccia e di gambe hanno una luce bianchiccia, come statue rotte, in rovina. l miei abiti sono sparpagliati nell’angolo e ci sono tazzine vuote sparse qua e là, sul banco di lavoro, accanto alla finestra: segnano i miei tragitti quotidiani, rivendicandone lo spazio. Questa stanza sembra mia, adesso, come se ci avessi sempre vissuto, indipendentemente da dove sia stata e da quali cose abbia fatto. È Jon che è stato lontano, e finalmente è ritornato.
Ci spogliamo a vicenda come facevamo una volta, ma più timidamente. Non voglio sembrare imbarazzata. Mi fa piacere che sia l’ora del crepuscolo: mi sento nervosa per la parte posteriore delle mie cosce, per l’arricciatura sopra le ginocchia, per la piega che attraversa lo stomaco, che non è proprio grasso ma una grinza. I peli sul suo petto sono inaspettatamente grigi. Evito di guardare la pancetta da birra che gli è cresciuta, però me ne accorgo, e così degli altri cambiamenti del suo corpo, come lui deve accorgersi dei miei.
Ci baciamo con una gravità che prima ci mancava. Prima eravamo avidi ed egoisti.
Facciamo l’amore per il conforto che ci dà. Lo riconosco, potrei riconoscerlo nel buio più completo. Ogni uomo ha un suo ritmo, che rimane sempre lo stesso. In ciò consiste il sollievo di ritrovarsi.
Non mi sento infedele a Ben, ma semplicemente fedele a qualcos’altro di precedente a lui, che con lui non ha niente a che fare. È un vecchio conto in sospeso.
So anche che è qualcosa che non farò mai più: è l’ultimo sguardo prima di voltare le spalle a qualche luogo strano, visitato una volta, al quale sappiamo che non si farà più ritorno. Una visione notturna, come delle cascate del Niagara.
Rimaniamo distesi sul piumino, abbracciati. È difficile ricordare i motivi dei nostri vecchi litigi. La collera d’un tempo è scomparsa, e con essa quel desiderio esasperato, esclusivo, che provavamo l’uno per l’altra. Ciò che rimane è affetto, e rimpianto anche. Un calando.
«Vieni all’inaugurazione?» gli chiedo. «Mi piacerebbe.»
«No» risponde. «Non ne ho voglia.»
«Perché no?»
«Mi sentirei male» risponde. «Non voglio vederti così.»
«Così come?» domando.
«Con tutta quella gente che ti sbava addosso.»
Ciò che intende dire è che non vuole essere semplicemente uno spettatore; lui non ha spazi per tutto ciò, e ha ragione. Non vuole essere soltanto il mio ex marito. Sarebbe espropriato di me e anche di sé. Capisco che nemmeno io lo voglio, in realtà non voglio che sia lì. Ho bisogno che ci sia, ma non lo voglio.
Mi volto, mi appoggio su un gomito, lo bacio ancora, questa volta sulla guancia. I capelli lunghi, che gli scendono dietro le orecchie, stanno già diventando bianchi. Ci penso: l’abbiamo fatto appena in tempo. Era quasi troppo tardi.