Con Jon è come cadere dalle scale. Finora c’è stato soltanto qualche inciampo preliminare, poi riprese, appigli cui aggrapparsi. Ma ora abbiamo perduto completamente l’equilibrio e precipitiamo tutti e due a capofitto, rumorosamente, senza grazia, aumentando nella caduta la velocità e i lividi.
Vado a dormire rabbiosa, con la paura del risveglio, e quando mi sveglio mi trovo distesa a fianco del corpo addormentato di Jon, nel nostro letto, e ascolto il ritmo del suo respiro, risentita per l’oblio di cui lui è ancora capace.
Da settimane ormai è più taciturno del solito, e sta sempre meno a casa. O meglio, sta meno a casa quando ci sono io. Quando sono al lavoro lui è sempre qui, anche quando Sarah è all’asilo. Ho iniziato a scoprire segnali, minuscoli indizi lasciati sulla mia strada come briciole di pane fatte cadere su un sentiero: una sigaretta con tracce di rossetto, due bicchieri usati nel lavandino, una forcina per capelli non mia sotto il mio cuscino. Pulisco tutto e non dico niente, tenendo in serbo queste cose per quando saranno più necessarie.
«Ti ha telefonato una certa Monica» gli dico.
È mattina, e c’è un’intera giornata da passare. Una giornata di parole evasive, di collere represse, di finta calma. Abbiamo ormai superato la fase in cui ci buttavamo cose addosso.
Lui sta leggendo il giornale. «Sì?» risponde. «Che cosa voleva?»
«Ha detto di dire che ha telefonato Monica.»
La sera torna tardi; io sono già a letto e fingo di dormire, con la testa in subbuglio. Penso a vari sotterfugi: annusare tracce di profumo sulle sue camicie, pedinarlo per strada, nascondermi in gabinetto e saltare fuori all’improvviso, incandescente per la scoperta. Penso anche ad altre cose che potrei fare. Potrei fare fagotto, andare in qualche luogo imprecisato con Sarah. Oppure potrei chiedergli di parlare insieme della situazione. Oppure far finta di niente, continuare la nostra vita come al solito. Questo sarebbe stato il consiglio di una rivista femminile d’una decina d’anni fa: aspettare.
Vedo tutto ciò come una serie di scene da recitare e poi da buttare, magari contemporaneamente. Nessuna di esse esclude le altre.
Nella vita reale le giornate trascorrono come sempre rabbuiandosi nell’inverno, grevi di cose non dette.
«Hai avuto una storia con zio Joe, vero?» chiede Jon, come per caso. È un sabato e stiamo facendo un tentativo di normalizzazione portando Sarah al Grange Park a giocare con la neve.
«Chi?» gli dico.
«Lo sai bene. Josef come-si-chiama. Quel vecchio scemo.»
«Ah, lui» rispondo. Sarah è sull’altalena insieme ad altri bambini, noi seduti su una panchina che abbiamo liberato dalla neve. Penso che dovrei fare un pupazzo di neve o qualcos’altro del genere, come fanno le brave madri. Ma sono troppo stanca.
«Ce l’hai avuta questa storia, vero?» insiste Jon. «E intanto stavi con me.»
«Come ti è venuta questa idea?» gli chiedo. Capisco quando sono sotto accusa. Passo in rassegna le mie munizioni: la forcina, il rossetto, le telefonate, i bicchieri nel lavandino.
«Non sono mica ritardato, sai? L’ho immaginato.»
Allora anche lui ha le sue gelosie, le sue ferite da leccare.
Cose che io gli ho inflitto. Dovrei mentire, negare tutto, ma non voglio. Josef, in questo momento, mi fa sentire orgogliosa.
«È stato anni fa» rispondo. «Migliaia di anni fa. Non era una cosa importante.»
«Col cazzo» dice lui. Un tempo pensavo che se avesse saputo di Josef avrebbe riso di me. Il fatto sorprendente è che la prenda sul serio.
Quella sera facciamo l’amore, se ancora così si può chiamare. Dell’amore non ha la forma né il colore; è qualcosa di aspro, di bellicoso, di metallico. Le cose devono esser verificate. Oppure ripudiate.
Il mattino dopo domanda: «Chi altro c’è stato?». Così, d’improvviso. «Come faccio a sapere che non ti ficcavi a letto con tutti i vecchi scoreggioni che ti ronzavano intorno?»
Sospiro. «Jon» gli dico, «cerca di crescere.»
«E il signor Fagiolino?» insiste.
«Ma dài» rispondo. «E tu non eri certo un angelo. Casa tua pullulava di tutte quelle ragazzine pelle e ossa. Eri tu che non volevi legami, ricordi?»
Sarah è ancora addormentata nel suo lettino. Siamo al sicuro, possiamo andare fino in fondo a dirci queste cattive verità che non sono del tutto vere. Una volta iniziato, è difficile smettere. C’è anche un certo piacere.
«Quanto meno, lo facevo apertamente» dice. «Non mi nascondevo. Non facevo finta di essere maledettamente casto e puro, tu invece sì.»
«Può darsi che ti amassi» gli dico. Mi accorgo di avere usato il passato. Se ne accorge anche lui.
«Non avresti saputo cos’era l’amore nemmeno se ci fossi cascata dentro» osserva.
«Non come Monica, eh?» ribatto. «Non sei molto aperto adesso. Ho trovato una forcina nel letto, sai? Potresti avere almeno la decenza di farlo in qualche altro posto.»
«E tu?» replica. «Tu sei sempre fuori, in giro.»
«Io?» ribatto. «Io non ne ho il tempo. Non ho tempo per pensare, non ho tempo per dipingere, ho appena tempo per cacare. Sono troppo occupata a pagare quel maledetto affitto.»
Ho detto la cosa peggiore. Sono andata troppo in là. «È così» dice Jon. «Sei sempre tu quella che contribuisce, quella che sistema tutto. Io non c’entro mai.» Va alla ricerca della giacca, si avvia verso la porta.
«Vai a trovare Monica?» gli chiedo, con tutto il veleno che riesco a tirar fuori. Li odio, questi bisticci da scolaretti. Ho bisogno di abbracci, di lacrime, di perdono. Voglio che arrivino da soli, senza alcuno sforzo da parte mia, come un arcobaleno.
«Piantala» dice. «Monica è soltanto un’amica.»
È inverno. Il caldo va e viene, come vuole. Sarah ha il raffreddore. Di notte tossisce e io mi alzo per darle cucchiaiate di sciroppo, per portarle un bicchiere d’acqua. Di giorno siamo tutte e due esauste.
Anch’io mi ammalo spesso, quest’inverno. Mi prendo i raffreddori di Sarah. Il mattino dei giorni di festa rimango a letto, guardando il soffitto con la testa offuscata, ovattata. Vorrei un bicchiere di ginger ale, una spremuta d’arancio, vorrei sentire il suono di radio lontane. Ma queste cose sono finite per sempre, non mi arriva niente su un vassoio. Se voglio un ginger ale, devo andare a prendermelo in un negozio o in cucina, comprarlo o versarmelo da sola. Nella stanza più grande, Sarah sta guardando i cartoni animati.
Non dipingo più, non riesco a pensare di dipingere. Sebbene abbia ottenuto una borsa di studio da un programma governativo per aiutare i giovani artisti, non riesco a organizzarmi nemmeno per prendere il pennello in mano. Mi spingo di volta in volta al lavoro, in banca per prendere i soldi, al supermercato per comperare da mangiare. Di giorno, a volte guardo polpettoni televisivi nei quali ricorrono crisi più frequenti e compaiono abiti più belli che nella vita reale. Mi prendo cura di Sarah.
Non faccio nient’altro. Non vado più alle riunioni delle donne, perché mi fanno sentire peggio. Jody mi telefona e dice che dovremmo uscire insieme, ma io rimando. Mi pungolerebbe, mi darebbe confortanti e positivi consigli che so di non poter seguire. E allora mi sentirei ancora più fallita.
Non voglio vedere nessuno. Me ne sto distesa a letto con le tende abbassate e il nulla che mi sommerge come un’onda pigra. Qualsiasi cosa mi stia succedendo, è colpa mia. Ho fatto qualcosa di male, qualcosa di così enorme che non riesco nemmeno a vederlo, qualcosa che mi sta annegando. Sono insufficiente, stupida, senza valore. Tanto varrebbe che fossi morta.
Una notte Jon non ritorna a casa. Una cosa strana, che non risponde al nostro tacito accordo: anche quando rimane fuori fino a tardi, entro mezzanotte è sempre di ritorno. Non abbiamo litigato, oggi, non ci siamo quasi parlati. Non ha nemmeno telefonato per dirmi dov’è. La sua intenzione è evidente: mi ha lasciata dietro di sé, al freddo.
Sono rannicchiata in camera da letto, al buio, avvolta nel vecchio sacco a pelo di Jon, e ascolto il respiro sibilante di Sarah e il sussurro del nevischio alla finestra. L’amore annebbia la vista, ma quando si dirada si può vedere più chiaro che mai. È come la marea che si ritira, rivelando tutto ciò che è stato trascinato e sommerso: bottiglie rotte, vecchi guanti, barattoli arrugginiti, lische di pesce, ossa. Sono queste le cose che si vedono quando si sta al buio con gli occhi aperti, senza conoscere il futuro. Le rovine che ci si è lasciati alle spalle.
Il mio corpo è inerte, privo di volontà. Penso che dovrei continuare a muovermi, a far circolare il sangue come si dovrebbe fare in una bufera di neve per non morire assiderati. Mi sforzo di alzarmi in piedi. Andrò in cucina a farmi un tè.
Fuori di casa un’auto scivola via in mezzo alla poltiglia di neve, a velocità attutita. La stanza più grande è buia, tranne che per la luce dei lampioni stradali che entra dalla finestra. Le cose sul tavolo da lavoro di Jon scintillano in questa penombra: la lama piatta di uno scalpello, la testa di un martello. Posso sentire su di me la forza d’attrazione della terra, la buia curva di gravità che mi trascina, gli spazi vuoti tra gli atomi, in mezzo ai quali sarebbe così facile precipitare.
Ed è allora che sento la voce, non dentro la mia testa ma nella stanza, nitidamente: «Fallo. Su, fallo». Questa voce non mi lascia scelta, ha la perentorietà di un ordine. È la differenza tra saltare ed essere spinti.
Per fare il taglio, uso il coltello multilame. Non fa nemmeno male; subito dopo ecco un sussurro, lo spazio si chiude e cado sul pavimento. È così che mi trova Jon. Al buio il sangue è nero, non riverbera, così lo vede solo quando accende la luce.
A quelli del pronto soccorso dico che è stato un incidente. Spiego che sono una pittrice, stavo tagliando una tela e mi è scivolata la mano. Il polso è quello sinistro, perciò la cosa è plausibile. Sono spaventata e voglio nascondere la verità: non ho nessuna intenzione di essere internata al 999 di Queen Street, né ora né mai.
«Nel mezzo della notte?» chiede il medico.
«Lavoro spesso di notte» rispondo.
Jon conferma. È spaventato quanto me. Mi ha legato il polso con un tovagliolo e mi ha portata in ospedale. Il sangue, attraverso il tovagliolo, è colato sul sedile dell’auto.
«Sarah» ho detto, ricordandomi di lei.
«È al piano di sotto» ha risposto Jon. Al piano di sotto abita la padrona di casa, una vedova italiana di mezza età.
«Che cosa le hai detto?» ho chiesto.
«Che avevi l’appendicite» ha risposto Jon. Ho riso un po’. «Che diavolo ti ha preso?»
«Non lo so» ho risposto. «Dovrai far pulire l’auto.» Mi sentivo bianca, dissanguata, curata, purificata. In pace.
«È sicura di non voler parlare con qualcuno?» domanda il medico del pronto soccorso.
«Adesso sto bene» rispondo. L’ultima cosa che voglio fare è parlare. So che cosa vuol dire quel ‘qualcuno’: uno strizzacervelli, uno che mi dirà che sono matta. Lo so quali sono le persone che sentono le voci: quelle che bevono troppo, che si friggono il cervello con le droghe, che escono dai binari. Mi sento assolutamente stabile, non sono nemmeno più ansiosa. Ho già deciso che cosa farò dopo, domani. Mi metterò il braccio al collo e dirò che mi sono rotta il polso. E così non dovrò parlare di quella voce né a Jon né a nessun altro.
So che in realtà non c’era nessuna voce. E so anche che l’ho udita.
La voce, in sé, non faceva paura. Non era minacciosa ma eccitata, come se avesse proposto una scappatella, uno scherzo, una festicciola. Qualcosa da tenere in serbo, in segreto. Era la voce di una bambina di nove anni.