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Mi sveglio tardi. Mangio un’arancia, un toast, un uovo in una tazzina. Non si faceva il buco sul fondo del guscio per impedire alle streghe di salpare in mare, come diceva Cordelia. È per evitare che si formi il vuoto tra il guscio e il portauovo, così si potrà estrarre il guscio quand’è vuoto. Perché ci ho messo quarant’anni a capirlo?

Indosso l’altra tuta, quella color ciliegia, e faccio qualche estemporaneo esercizio di stretching sul pavimento di Jon. È ancora il pavimento di Jon, non il mio. Mi sembra di averglielo restituito, insieme con quei frammenti della sua vita o della nostra vita comune che ho conservato finora. Ricordo quelle pitture medioevali, la mano alzata e aperta per mostrare che è disarmata: ‘Vai in pace’. Un congedo e una benedizione. Non l’ho fatto esattamente secondo il metodo dei santi, ma sembra aver avuto ugualmente successo. La pace riguardava anche chi la concedeva.

Scendo per prendere il giornale del mattino. Lo sfoglio senza leggere molto. Lo so, sto ammazzando il tempo. Ho quasi dimenticato cosa sono venuta qui a fare e sono impaziente di andarmene, di ritornare sulla costa occidentale, nel fuso orario dove trascorro la mia vita. Ma non posso, non ancora. Sono sospesa, come nella sala di un aeroporto o di un dentista, ad aspettare qualche altro interludio che sarà senza consistenza e senza desiderio, come un analgesico o come l’interno di un aeroplano. La penso così sulla serata che mi aspetta, sull’inaugurazione della mostra: qualcosa da superare evitando la catastrofe.

Dovrei andare alla galleria per vedere che tutto sia in ordine, dovrei compiere almeno quest’elementare atto di cortesia. E invece prendo la metropolitana, scendo nei pressi dell’ingresso principale del cimitero, vado senza meta a sud e poi a est, trascinando i piedi tra le foglie morte, scrutando nei canaletti di scolo, abbassando lo sguardo sul marciapiede in cerca di cartine argentate, di monetine, di cose portate dal vento. Credo ancora che queste cose esistano e che io potrei trovarle.

Con qualche lieve ritocco, scivolando al di sotto di una linea non ben definita, potrei passare per una barbona. L’istinto è lo stesso, quello di frugare nell’immondizia, di scavare tra i rifiuti alla ricerca di qualcosa che sia stato gettato via perché inutile, e che pure potrebbe essere ancora riesumato e riutilizzato. Una raccolta di brandelli di spazio, nel suo caso, e di tempo nel mio.

 

Questo è il mio vecchio tragitto, da scuola a casa. Camminavo lungo questo marciapiede, dietro o davanti alle altre. Tra l’uno e l’altro di questi lampioni la mia ombra si allungava sulla neve davanti a me, si sdoppiava, si riduceva di nuovo per scomparire tra i lampioni che vi gettavano intorno il loro alone, come la luna nella nebbia. Questo è il prato sul quale Cordelia si è lasciata cadere all’indietro per fare l’angelo di neve. È da qui che è scappata via.

Le case sono le stesse case, sebbene non siano più dipinte con la vernice bianca che si scrostava e ingrigiva in inverno, e non abbiano più quell’aria scalcagnata, post-bellica. Sono passati di qui i sabbiatori e gli operai che installano lucernari. All’interno hanno preso piede il ficus beniamino e i rampicanti tropicali, sostituendosi alle striminzite violette che un tempo venivano coltivate sul davanzale delle cucine. Posso attraversare queste case con lo sguardo fino a vederle come erano una volta; posso vedere i colori che coprivano le pareti, il rosa polveroso, il verde melmoso come quello dei funghi e le tendine di chintz che non esistono più. A quale tempo appartengono in realtà, al loro o al mio?

 

Cammino per la strada, in leggera salita, contro una corrente sparsa di ragazzini che ritornano a casa per il pranzo. Anche se le bambine indossano i jeans, un’espressione di libertà, non sono più rumorose come un tempo: non si odono più né canti né strepiti. Si trascinano avanti caparbiamente, o almeno così mi pare. Forse è perché non sono più al loro livello: sono più alta e perciò i rumori mi giungono filtrati. O forse è per me, per via della presenza in mezzo a loro di una persona che considerano adulta, dotata perciò di qualche potere.

Alcuni di loro mi guardano, molti altri no. Che cosa c’è da vedere? Una donna di mezza età con le mani nelle tasche del cappotto e con le gambe della tuta da jogging arrotolate sopra gli stivali, una persona non più stramba di tante altre e facile da dimenticare.

Su alcuni porticati, in attesa della serata pendono zucche scolpite con facce allegre, tristi o minacciose. E la vigilia d’Ognissanti, quando gli spiriti dei defunti ritornano tra i vivi, vestiti da ballerine o da bottiglie di Coca-Cola, da astronauti e da Topolino, e i vivi daranno loro caramelle perché non diventino cattivi. Di questa festa posso sentire ancora il sapore, l’aria pungente, la caramella in bocca, la speranza davanti alla porta, la fiducia in quel qualcosa in cambio di niente che tutti i bambini danno per scontato. Ma non riceveranno più né popcorn fatto in casa né mele: circolano molte voci sulle lame di rasoio e sui veleni. Anche al tempo delle mie figlie diffidavamo delle mele. È troppa, la malvagità diffusa che soffia nell’aria.

In Messico celebrano questa festa nel modo giusto, senza travestimenti. Vivaci teschi canditi, picnic familiari sulle tombe, un piatto per ogni invitato e una candela per l’anima. Tutti se ne vanno via felici, compresi i morti. Noi l’abbiamo respinto, questo facile fluire da una dimensione all’altra, vogliamo che i morti non vengano citati, rifiutiamo di farne il nome, di dare loro da mangiare. E di conseguenza i nostri morti sono più macilenti, più grigi, più difficili da udire e più affamati.