Mio fratello Stephen è morto cinque anni fa. Non dovrei dire che è morto: è stato ucciso. Mi sforzo di non pensarlo come un omicidio, sebbene lo sia stato, ma come una sorta di incidente, come una bomba su un treno. Oppure come una catastrofe naturale, una valanga. Quella che, ai fini dell’assicurazione, chiamano tragica fatalità.
È morto di occhio per occhio, o dell’idea che qualcuno si era fatto di questa cosa. È morto per eccesso di giustizia.
Era seduto in aereo, nel posto accanto al finestrino. Questo è quanto si sa.
Nella reticella di nylon del sedile davanti al suo era infilata una rivista della compagnia aerea contenente un articolo sui cammelli, che aveva letto, e un altro sul modo di migliorare il proprio guardaroba professionale, che non aveva letto. C’erano anche un paio di auricolari e un sacchetto nel quale vomitare.
Sotto il sedile davanti a lui, oltre i suoi piedi nudi (si era tolto scarpe e calze), aveva posato la valigetta con dentro un suo articolo sulla probabile composizione dell’universo. L’universo, pensava Stephen, può essere composto da infinitesimali cordicelle in trentadue diversi colori. Le cordicelle sono così piccole che parlare di ‘colori’ è un modo di dire. Aveva qualche dubbio: esistevano anche altre possibilità teoriche, due delle quali evidenziate nel suo scritto. L’universo è difficile da definire e quando lo guardi si trasforma, come se non volesse farsi riconoscere.
Avrebbe dovuto leggere in pubblico questo articolo l’altroieri, a Francoforte. Avrebbe sentito altri interventi, avrebbe imparato ancora.
Sotto il sedile, accanto alla valigetta, è infilata anche la giacca del suo abito, una delle tre che ora possiede. Ha le maniche della camicia arrotolate, ma non serve a molto: l’impianto dell’aria condizionata è bloccato e dentro l’aereo l’aria è surriscaldata. Ha anche un cattivo odore, perché almeno uno dei gabinetti è guasto; e poi sugli aerei la gente scoreggia di più, come mio fratello ha già avuto occasione di osservare, a causa di tutte le pastiglie per il mal d’aria che si prendono. A ciò si aggiunge ora il panico, che fa male alla digestione. Due posti più avanti, un uomo grasso e calvo russa con la bocca aperta, sprigionando un’invisibile nuvola di alito cattivo.
Le tendine del finestrino sono abbassate. Mio fratello sa che se le alzasse vedrebbe la pista di un aeroporto, scintillante nella calura, e più oltre un paesaggio grigiastro, sconosciuto come quello della luna, con un mare accecante sullo sfondo, e alcuni edifici marroni con i tetti piatti dai quali giungerà la salvezza, o forse no. Ha visto tutto ciò prima che venissero abbassate le tendine, ma non sa in quale paese si trovino questi edifici.
Fino dal mattino non ha più avuto niente da mangiare. Dall’esterno sono giunti panini imbottiti, uno strano pane granuloso con burro liquefatto e una pasta marroncina di carne dal vago sapore di ptomaina. E anche un pezzo di formaggio bianchiccio e trasudante, avvolto nella plastica. Ha mangiato il formaggio e il panino, e ora le sue mani hanno l’odore dei picnic di una volta, degli spuntini lungo la strada in tempo di guerra.
L’ultima razione di acqua è stata distribuita quattro ore prima. Ha con sé un pacchetto di caramelle alla menta, che si porta sempre in viaggio nell’eventualità di voli accidentati. Ne ha offerto uno alla signora di mezza età, con grossi occhiali e un abito scozzese con i pantaloni, seduta accanto a lui. È quasi sollevato che se ne sia andata. Il suo pianto senza voce, incolore, nasale e monotono, cominciava a innervosirlo. Le donne e i bambini hanno avuto il permesso di scendere, ma lui non è né una donna né un bambino. Tutte le persone rimaste sull’aereo sono uomini.
Sono stati distanziati a due a due, con un sedile vuoto tra una coppia e l’altra. I loro passaporti sono stati sequestrati. Gli uomini che li hanno raccolti pattugliano a intervalli i corridoi dell’aereo; sono in sei, tre con piccole mitragliatrici e tre con granate bene in vista. Portano tutti in testa una federa da cuscino dell’aereo, nella quale sono stati tagliati i buchi per gli occhi e per la bocca, che brillano nella luce fioca con bagliori bianchi e rosati. Al di sotto delle federe, che sono rosse, indossano abiti comuni: un completo sportivo, un paio di pantaloni grigi di flanella con una camicia bianca infilata dentro, i pantaloni di un severo completo blu marina.
Naturalmente sono saliti a bordo come tutti gli altri passeggeri, anche se non si sa come abbiano fatto a superare i controlli con le armi. Devono aver avuto qualche aiuto, qualcuno all’aeroporto, in modo da poter balzare in piedi tutt’a un tratto, sopra la Manica, gridando ordini e brandendo le armi da fuoco. Oppure quelle cose erano già a bordo, in nascondigli prestabiliti, perché di questi tempi niente di metallico può passare al controllo dei raggi X.
Altri due, forse tre uomini, sono nella cabina di pilotaggio: stanno negoziando via radio con la torre di controllo. Non hanno ancora detto chi sono né che cosa vogliono. Hanno detto soltanto, in un inglese dal forte accento straniero ma comprensibile, che tutte le persone a bordo vivranno oppure moriranno insieme. Tutto il resto è fatto di monosillabi e di cenni: «Tu, qui». È difficile capire quanti sono, per via di quelle federe tutte uguali. Sembrano quei personaggi dei fumetti che hanno due identità. Questi uomini sono stati colti nel mezzo di una trasformazione, hanno corpi normali ma teste dotate di potere, sovrannaturali, deformate in direzione dell’eroismo o della vigliaccheria.
Non so se è questo che pensava mio fratello, ma è questo che penso io adesso, in sua vece.
A differenza dell’uomo con la bocca aperta vicino a lui, mio fratello non riesce a dormire. E allora si tiene occupato con quesiti teorici: che cosa farebbe se fosse al loro posto, al posto di quegli uomini con la testa coperta dalla federa? La loro tensione, il loro nervosismo sul grilletto e la loro adrenalina repressa riempiono l’aereo, nonostante i corpi afflosciati dei passeggeri, la stanchezza e la rassegnazione.
Se fosse al loro posto sarebbe pronto a morire, naturalmente. Senza questo presupposto, questa operazione sarebbe insensata e inimmaginabile. Ma morire per che cosa? Sarà probabilmente per qualche motivo religioso, anche se in primo piano c’è qualcosa di più immediato: il denaro, la liberazione di altri loro compagni segregati in qualche buco per aver fatto più o meno la stessa cosa che stanno facendo ora questi uomini. Per aver fatto saltare qualcosa, per avere minacciato di farlo, oppure per aver sparato a qualcuno.
In un certo senso tutto ciò gli è familiare; è come se l’avesse già vissuto molto tempo fa, e nonostante la situazione spiacevole, irritante, nonostante l’insieme di noia e di paura, prova anche una certa sensazione di cameratismo. Si augura che questi uomini riescano a tenere la testa a posto e a realizzare il loro obiettivo, qualunque esso sia. Si augura che gli altri passeggeri non si mettano a piagnucolare e a bagnarsi i pantaloni, che nessuno impazzisca e cominci a gridare, innescando la scintilla di un forsennato massacro. Freddezza e fermezza, è questo che spera da parte loro.
Un uomo è entrato dalla parte anteriore dell’aeroplano e sta parlando con altri due. Sembra una discussione, accompagnata da gesti delle mani, da qualche parola più alta. Gli altri uomini in piedi si irrigidiscono, le teste rosse e squadrate scrutano i passeggeri come strani radar. Mio fratello sa che deve evitare il contatto degli sguardi e tiene la testa basta. Guarda la reticella di nylon davanti a sé, scartoccia furtivamente una Life Saver.
L’uomo appena entrato si avvia per il corridoio dell’aereo, voltando da una parte e dall’altra la testa oblunga con i tre buchi. Un altro uomo cammina dietro a lui. Surreale, esce dagli altoparlanti una musica su nastro, dolciastra, soporifera. L’uomo si ferma, la testa ingigantita si muove pesantemente a sinistra, come la testa di qualche mostro miope e ottuso. Tende un braccio, fa un gesto con la mano: «In piedi». È mio fratello che sta indicando.
Qui smetto di fare congetture. Ho parlato con i testimoni, i sopravvissuti, e perciò so che mio fratello si alza in piedi, si fa strada oltre l’uomo seduto sul sedile accanto al corridoio, dicendo: «Mi scusi». L’espressione del suo volto è di divertita curiosità: questi uomini sono insondabili, ma del resto lo è anche la maggioranza degli altri. Forse l’hanno scambiato per qualcun altro. Oppure vogliono magari che collabori alle trattative, perché stanno dirigendosi verso la parte anteriore dell’aereo, dove è in attesa un’altra testa di federa.
È questo che gli spalanca il portello, come un compito portiere d’albergo, facendo entrare tutta la luce del giorno. Dopo la penombra la luce è ferocemente abbagliante, e mio fratello si ferma sbattendo gli occhi, mentre l’immagine si schiarisce nella sabbia e nel mare, come una spensierata cartolina di vacanze. Poi cade, più rapido della velocità della luce.
È così che mio fratello entra nel passato.
Sono stata in aereo da un aeroporto all’altro, quindici ore, per arrivare qui. Poi ho visto quegli edifici, il mare, il tratto di pista, ma l’aereo non c’era più. Tutto quello che hanno ottenuto, alla fine, è stato un salvacondotto.
Non volevo identificare il cadavere né vederlo. Se non si vede il corpo, è più facile credere che nessuno sia morto. Ma volevo sapere se gli avevano sparato prima di gettarlo fuori o dopo. Preferivo che fosse avvenuto dopo, in modo che potesse aver avuto quel breve attimo di evasione, di luce del sole, di fittizia libertà.
Quella notte, durante il viaggio, non sono rimasta sveglia. Non volevo guardare le stelle.
Il corpo ha le sue difese, un suo modo di escludere le cose. Quelli del governo hanno detto che sono stata bravissima, intendendo con ciò che non ho dato fastidi. Non sono svenuta, non ho dato spettacolo. Ho parlato con i giornalisti, ho firmato i moduli, ho preso decisioni. Sono molte le cose che non ho visto né pensato fino a molto tempo dopo.
In quei momenti ho pensato a due gemelli, uno dei quali parte per un viaggio interplanetario e al suo ritorno, una settimana dopo, trova il fratello più vecchio di dieci anni.
Ora io invecchierò, ho pensato. E lui no.