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Ora Charna si affretta verso di me, vestita in pelle color malva, tintinnante di falso oro. Mi spinge nell’ufficio sul retro, non vuole che mi aggiri per la galleria deserta, che rimanga lì impacciata mentre iniziano ad affluire i primi invitati, non vuole che io appaia troppo dimessa o impaziente. Farà poi il suo ingresso con me, quando il rumore delle voci sarà abbastanza alto.

«Puoi rilassarti qui» mi dice, il che è improbabile. Nel suo ufficio bevo un secondo bicchiere, camminando nello spazio vuoto. È come alle feste di compleanno, con le stelle filanti e i palloncini già pronti, i panini imbottiti che attendono in cucina: e se non viene nessuno? Cos’è peggio? Che vengano o che non vengano? Tra poco la porta si aprirà, affollando l’interno di un’orda di ragazze maliziose e subdole, che sussurrano e indicano; io sarò lì, umile e grata.

Le mani mi cominciano a sudare. Penso a un altro bicchiere di vino: potrebbe calmarmi, e questo è un brutto segno. Andrò qui fuori a civettare, tanto per fare qualcosa, per vedere se interesso ancora a qualcuno. Ma può darsi che qui non ci sia nessuno con cui civettare. Nel qual caso mi ubriacherò. Magari andrò a vomitare in gabinetto, con o senza eccesso di alcol.

Negli altri posti non mi sento così male. Non sarei dovuta ritornare qui, in questa città che ce l’ha con me. Pensavo che avrei potuto guardarla dall’alto. E invece conserva ancora il suo potere, come uno specchio che mostra soltanto la metà deturpata del tuo volto.

Penso di scappare via dall’uscita posteriore. Più tardi potrei mandare un telegramma, adducendo qualche malattia. Questo darebbe lo spunto a un bel po’ di voci, per esempio su una persistente e invisibile malattia, il che mi escluderebbe per sempre da cose di questo genere.

Ma Charna ricompare in tempo sulla porta, rossa di eccitazione. «È già arrivato un mucchio di gente» annuncia, «e muoiono tutti dalla voglia di conoscerti. Siamo tutti molto orgogliosi di te.» È quello che potrebbe dire uno della famiglia, una madre o una zia, tanto che sono presa alla sprovvista. Chi è questo parente e di chi è la famiglia? Sono stata incastrata come un bambino recalcitrante prima dell’esibizione al pianoforte, o più propriamente, come un eroe di guerra coperto di cicatrici, un veterano di vecchie e quasi dimenticate battaglie che sta per ricevere una patacca d’oro, una stretta di mano e un coro di sentiti ringraziamenti. Mi avvolge un alone confuso di inchiostro azzurro.

D’improvviso Charna mi si avvicina e mi dà un breve abbraccio metallico. Può darsi che il suo calore sia sincero; forse dovrei vergognarmi dei miei pensieri cupi, cinici. Può darsi che mi voglia davvero bene, che mi auguri davvero ogni fortuna.

Sono in piedi nella galleria, nera dal collo ai piedi, con il mio terzo bicchiere di vino rosso in mano. Charna si è allontanata, adesso, ricercando tra la gente le persone che muoiono dalla voglia di conoscermi. Sono a sua disposizione. Allungo il collo, scrutando in mezzo alla folla che ha cancellato i quadri, dove sono visibili soltanto alcune cime di teste, qualche cielo, qualche sfondo con nuvole. Continuo ad aspettare, o a temere, che compaia qualcuno che dovrei conoscere, che ho conosciuto, qualcuno che riconosco solo vagamente. Si faranno avanti con le braccia tese, ragazze delle scuole superiori gonfiate o rimpicciolite, la pelle raggrinzita, una permanente espressione accigliata; qualche amichetto di trent’anni fa con la pelle liscia, diventato calvo, con i baffi o raggrinzito. «Elaine! Guarda un po’! Che bello rivederti!» Hanno un vantaggio su di me, la mia faccia è sul manifesto. Il mio sorriso sarà di benvenuto, la mia mente in preda al panico mentre frugo nel passato, nel tentativo di ricordare i nomi.

In realtà è Cordelia che aspetto, è Cordelia che voglio vedere. Ci sono cose che ho bisogno di chiederle. Non quello che è successo allora, nel tempo che ho perduto, perché questo ora lo so. Ho bisogno di chiederle perché.

Sempre che lei si ricordi. Forse le ha dimenticate le cose brutte, quello che mi ha detto, quello che ha fatto. Oppure lo ricorda ma di sfuggita, come si ricorda un gioco o uno scherzo, qualche banale segreto che le ragazze si raccontano e poi dimenticano.

Lei avrà la sua versione. Io non sono al centro della sua storia, perché lì c’è lei. Però potrei darle qualcosa che non si può avere, se non da un’altra persona: il proprio aspetto visto dall’esterno. Un riflesso. Questa è la parte di lei che potrei restituirle.

Siamo come le gemelle delle vecchie fiabe: ognuna ha avuto una metà della chiave.

 

Cordelia camminerà verso di me attraverso la folla che si apre, una donna dall’età incerta, vestita con un tweed irlandese di un verde tenue, orecchini di madreperla con montatura d’oro, belle scarpe, elegante; alla moda, come si usava dire. Si prende cura di sé, proprio come faccio io. I suoi capelli saranno lievemente argentati, il suo sorriso enigmatico. Non capirò chi è.

 

Sono presenti molte altre donne in questa galleria, parecchie pittrici e alcune donne ricche. Perlopiù sono persone ricche, quelle che Charna ha trascinato qui. Stringo le loro mani, guardo muoversi le loro labbra. Altrove ho maggiore capacità di resistenza in queste situazioni, in questi momenti di esibizione; potrei affrontarli con più sicumera. Ma qui mi sento denudata.

In un varco apertosi tra questi ricchi, si fa strada una ragazza. È una pittrice, inutile a dirsi, ma lo dice ugualmente. È in minigonna, con gambali aderenti, scarpe nere e basse con la suola grossa e le stringhe, i capelli rasati sulla nuca come quelli di mio fratello, nel taglio tipico dei ragazzi verso la fine degli anni Quaranta. È una ragazza post tutto, è quello che verrà dopo il post. È quello che verrà dopo di me.

«Mi sono piaciuti molto i suoi primi lavori» mi dice. «Donne cadute, mi è piaciuto molto. Cioè, era un modo di riassumere un’epoca, non è così?» Non intende essere cattiva, non sa di avermi appena relegata sotto un mucchio di polvere, insieme con i telefoni a manovella e i busti con le stecche di balena. In altri tempi avrei detto qualcosa per distruggerla, qualche commento urticante, rovente, ma qui su due piedi non mi viene in mente nessuna battuta. Sono fuori allenamento, sto perdendo la prontezza di spirito. A che cosa servirebbe, in ogni caso? La sua ammirazione al passato è sincera, dovrei essere garbata. Rimango lì, con un sorriso diventato di pietra, istituzionalizzato. L’autorevolezza mi striscia su per le gambe come una cancrena.

«Mi fa piacere» riesco a dire. Quando si è in dubbio, si deve mentire spudoratamente. E io sono fortunata ad avere ancora la spudoratezza necessaria per mentire.

 

Sono appoggiata alla parete e ho un altro bicchiere pieno di vino. Allungo il collo, scrutando tra la folla sopra le teste ben ordinate: è il momento che compaia Cordelia, ma non l’ho ancora vista. La delusione sta crescendo dentro di me, l’impazienza e poi l’ansia. Dev’essere già uscita per venire qui, forse le è successo qualcosa strada facendo.

Tutto ciò continua mentre stringo altre mani e dico altre cose, e la galleria a poco a poco si svuota.

«È andata davvero bene» dice Charna con un sospiro: di sollievo, immagino. «Sei stata meravigliosa.» È felice perché non ho morso nessuno, non ho versato il vino sulle gambe di nessuno, né ho esibito altri comportamenti da artista. «Che ne diresti di venire a cena con tutte noi?»

«No» rispondo. «No, grazie. Sono stanca nelle ossa. Penso che ritornerò a casa.» Mi guardo intorno ancora una volta. Cordelia non è arrivata.

‘Stanca nelle ossa’, una vecchia espressione di mia madre. Anche se le ossa, in quanto tali, non si stancano. Sono forti, hanno una fibra robusta, possono resistere anni e anni dopo che il resto del corpo ha ceduto.

Sono destinata a un futuro in cui siederò accasciata su una sedia a rotelle, con i capelli scarmigliati e la bava alla bocca, e intanto qualche giovane sconosciuta m’imbocca di poltiglie, e io me ne sto lì nella neve sotto il ponte, sempre lì. Intanto Cordelia scompare, scompare.

Esco fuori nel crepuscolo, sul marciapiede davanti alla galleria. Vorrei prendere un taxi, ma non riesco quasi a sollevare la mano.

Ero preparata quasi a tutto tranne che all’assenza, tranne che al silenzio.