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Prendo un taxi per ritornare allo studio, salgo le quattro rampe di scale fiocamente illuminate nella notte, sostando a ogni pianerottolo. Ascolto il mio cuore che si fa attutito e veloce, sotto gli strati di indumenti. Un cuore incrinato, in declino. Non avrei dovuto bere tutto quel vino. Qui fa freddo, fanno economie col riscaldamento. Il rumore del mio respiro mi giunge come un ansito disincarnato, come il respiro di qualcun altro.

Cordelia ha una tendenza a esistere.

Infilo a fatica la chiave nella serratura, cerco a tentoni l’interruttore. Potrei cavarmela meglio senza tutti quei finti pezzi anatomici sparsi in giro. Mi faccio strada verso il cucinino trascinando un po’ i piedi, con il cappotto indosso perché fa freddo.

Ho bisogno di un caffè. Lo preparo, prendo la tazza calda con ambedue le mani, la porto sul banco di lavoro, sgombrandolo un po’ per appoggiare i gomiti tra i fili e gli strumenti acuminati. Domani sarò lontana da questa città, non un momento di più. Sono troppi, qui, i vecchi tempi.

Allora, Cordelia, ti ho ritrovata.

Non pregare per ottenere giustizia, potrebbe arrivarti.

Bevo il caffè, tenendo ferma la tazzina tremante, e il liquido caldo mi cola giù per il mento. È una fortuna che non sia al ristorante. Non è elegante, per una donna, essere ubriaca. Gli uomini ubriachi sono più giustificabili, più facili da assolvere, chissà perché. Forse si pensa che abbiano motivi più validi.

Con la manica del cappotto mi asciugo la faccia, che è bagnata perché sto piangendo. Sono queste le cose da cui dovrei guardarmi: piangere senza motivo, dare spettacolo. Ho la sensazione che sia uno spettacolo, anche se non c’è nessuno a guardare.

Sei morta, Cordelia.

No, non è vero.

Sì, è vero. Sei morta.

Distenditi a terra.