Mi sento la testa leggera, come se fossi in convalescenza. Ho dormito arrotolata nel piumino, nel mio abito nero che non ho avuto la forza di togliermi. Mi sono svegliata a mezzogiorno con il cranio pesante, ovattato, pulsante di emicrania, e ho scoperto di aver perduto l’aereo. È da molto tempo che non bevo più così. Come per molte altre cose, dovrei stare più attenta.
Ora è pomeriggio avanzato. Il cielo è soffice e grigio, basso, umido e offuscato come una carta assorbente bagnata. La giornata sembra vuota, come se tutti se ne fossero andati, come se nient’altro dovesse succedere.
Cammino lungo il marciapiede, allontanandomi dalla scuola demolita. È il mio tragitto d’un tempo, potrei farlo a occhi chiusi. Come sempre, in queste strade sento attorno una certa ostilità.
Sotto di me c’è il ponte. Visto da qui sembra un ponte qualsiasi. Rimango in cima alla collina, tiro un respiro. Poi inizio a scendere.
È sorprendente che così poco sia cambiato. Le case da una parte e dall’altra sono le stesse ma il sentiero fangoso è scomparso, al suo posto c’è una bella ringhiera e un lindo viottolo di cemento. Si sente ancora l’odore delle foglie cadute, l’odore di bruciato della lenta putrefazione, ma le piante di belladonna sono state estirpate, e così i loro fiori purpurei e le bacche color rosso-sangue, gli sterpi e i vari detriti. È tutto sfrondato e in ordine.
Si sentono dei fruscii però, un odore rancido di gatti, i loro agguati e le zampate furtive che ancora si sentono dietro questo ingannevole ordine. Un altro paesaggio, più selvaggio e più intricato, sta crescendo sotto la superficie di questo.
Ricordiamo attraverso gli odori, come fanno i cani.
I salici piangenti sul sentiero sono gli stessi. Sono cresciuti, però, e anch’io sono cresciuta, così la distanza tra noi rimane immutata. Il ponte è diverso, naturalmente: è fatto di cemento e di notte è illuminato, non è più di quel legno che va in pezzi e sa di marcio. Però è lo stesso ponte.
Il barattolo luminoso di Stephen è sepolto laggiù, da qualche parte.
In questo periodo dell’anno il buio scende presto. C’è silenzio, non si odono voci di bambini ma soltanto il monotono gracchiare di un corvo, e sullo sfondo il rumore di mare del traffico lontano. Poso le braccia sul parapetto di cemento e guardo giù attraverso i rami spogli che sembrano coralli. Una volta pensavo che se fossi saltata giù non sarebbe stato come cadere ma come tuffarsi, che se fossi morta in quel modo sarebbe stato morbido, come annegare. Ma più sotto, sul terreno, si vede una zucca sfracellata che qualcuno ha buttato giù: lo sgradevole aspetto di una testa.
La scarpata è più fitta di cespugli e di alberi di quanto non fosse un tempo. In mezzo scorre il ruscello con le sue acque limpide, che è meglio non bere. Hanno sgombrato i detriti, i rottami arrugginiti delle auto, i pneumatici gettati sotto; ora non è più una discarica abusiva di rifiuti ma un percorso per chi fa jogging. Il sentiero coperto ordinatamente di ghiaia porta su per la collina fino alla strada lontana e al cimitero, dove i morti attendono, decomponendosi atomo dopo atomo, sciogliendosi come ghiaccioli, scorrendo giù per la collina nel ruscello.
Lì ero caduta in acqua, quella è la riva sulla quale mi ero arrampicata. Ero lì, in quel punto, sotto la neve che cadeva, incapace di trovare la volontà per muovermi. È lì che ho udito la voce.
Non c’è stata nessuna voce. Nell’aria, giù dal ponte, non è sceso nessuno, nessuna signora col mantello scuro si è chinata sopra di me. Anche se ora ritorna accanto a me con assoluta chiarezza, nitida in ogni dettaglio, profilandosi con la sua sagoma incappucciata contro le luci del ponte, mostrando il rosso del suo cuore all’interno del mantello, so che tutto ciò non è avvenuto. C’era soltanto buio e silenzio. Niente e nessuno
Odo un rumore, una scarpa contro una pietra.
È tempo di ritornare. Mi allontano dal parapetto di cemento, e il cielo si muove da una parte.
So che se mi volto in questo momento, se guardo davanti a me lungo il sentiero, ci sarà qualcuno lì in piedi. Dapprima penso che sarò io, con la mia vecchia giacca, con il mio berretto azzurro di maglia. Ma poi vedo che è Cordelia. È là, a metà della collina, e si volta a guardare indietro. Ha indosso il suo giubbetto grigio da neve ma il cappuccio è calato, la testa scoperta. Ha le stesse calze verdi di lana alte fino alle ginocchia, che le scivolano sulle caviglie, quegli scarponcini marroni per la scuola, consunti sulle punte, una stringa rotta e annodata, i capelli castano chiaro con la frangia che le cade sugli occhi, gli occhi grigioverdi.
È freddo, più freddo. Posso udire il fruscio del nevischio, l’acqua che scorre sotto il ghiaccio.
So che mi sta guardando, la bocca che sorride un po’ di sbieco, il volto chiuso in segno di sfida. Sento la stessa vergogna, un senso di malessere nel corpo, la stessa consapevolezza del mio torto, della mia goffaggine e della mia debolezza, lo stesso desiderio di essere amata, la stessa solitudine, la stessa paura. Ma queste non sono più le mie emozioni. Sono quelle di Cordelia, come è sempre stato.
Sono io la più vecchia, adesso, sono io la più forte. Se rimane lì ancora a lungo morirà assiderata, rimarrà indietro in un tempo sbagliato. È quasi troppo tardi.
Le tendo le braccia, mi chino con le mani aperte per mostrare che non porto armi. «È tutto a posto» le dico. «Puoi andare a casa, adesso.»
La neve nei miei occhi si dirada come fumo.
Quando mi volto, infine, Cordelia non c’è più. C’è soltanto una donna di mezza età, le guance arrossate e il capo scoperto, che scende la collina verso di me, con i jeans, un pesante maglione bianco e un cane tenuto a un guinzaglio verde, un terrier. Passa davanti a me con un sorriso garbato, neutro.
Non ho più niente da vedere. Il ponte è soltanto un ponte, il ruscello un ruscello, il cielo un cielo. Il paesaggio è deserto, adesso, un posto per maratoneti domenicali. Oppure non è deserto: è pieno di tutto ciò che lo compone quando è da solo, quando io non guardo.