3

 

Sono distesa sul pavimento sopra un futon, coperta da un piumino. Futon, piumino: ecco a che punto siamo arrivati. Mi domando se Stephen ha mai saputo che cosa siano un futon e un piumino. Molto probabilmente no. Molto probabilmente, se qualcuno gli avesse detto la parola futon, lui lo avrebbe guardato come se fosse sordo, o l’altro cerebroleso. Lui non esisteva nella dimensione del futon.

Quando non c’erano né futon né piumini, il prezzo di un cono gelato era cinque cents. Ora costano un dollaro, se ti va bene, e non li fanno più così grossi. Questa è la differenza di fondo tra allora e adesso: novantacinque cents.

 

Questo è il punto di mezzo della mia vita. Lo vedo come un luogo, come la metà di un fiume, la metà di un ponte, un pezzo di qua e uno dall’altra parte. Dovrei aver accumulato qualcosa, a quest’ora: averi, responsabilità, risultati, esperienza e saggezza. Dovrei essere una persona solida.

Ma da quando sono ritornata qui non mi sento appesantita. Anzi, mi sento più leggera, come se mi fossi spogliata di qualcosa, come avessi perso delle molecole, del calcio dalle ossa, dei globuli dal sangue, come se stessi rimpicciolendo, come se stessi riempiendomi di aria fredda o di neve che scende dolcemente.

Nonostante questa leggerezza non salgo, anzi, scendo. O meglio, vengo trascinata giù attraverso gli strati di questo posto, come in una fanghiglia liquefatta.

 

II fatto è che questa città la odio. La odio da così tanto tempo che non riesco a ricordare di avere avuto altri sentimenti nei suoi confronti. Una volta era di moda dire che era noiosa. Primo premio: una settimana a Toronto; secondo premio: due settimane a Toronto; Toronto la Bella, Toronto l’Azzurra; Toronto, dove non si poteva bere vino la domenica. Tutti quelli che vivevano qui dicevano le stesse cose: è provinciale, compiaciuta, noiosa. Chi diceva così dimostrava di riconoscere queste qualità pur non essendone partecipe.

Ora si dovrebbe osservare quanto sia cambiata. Parlare di ‘una città di statura mondiale’, secondo l’espressione che usano adesso i giornali, è davvero esagerato. Tutti quei ristoranti etnici, i teatri, le boutique. New York senza la sporcizia e le rapine, questo dovrebbe essere. Prima gli abitanti di Toronto nel weekend andavano a Buffalo, gli uomini a guardare lo spogliarello e a bere birra dopo l’orario di chiusura, le donne a fare compere, poi ritornavano tutti baldanzosi e sbronzi, con indosso diversi strati di abiti da contrabbandare alla dogana. Ora il traffico del weekend va in senso inverso.

Non ho mai creduto né all’una né all’altra versione, né a quella della noia né a quella della statura mondiale. Toronto non mi è mai sembrata noiosa; ‘noiosa’ è la parola meno adatta a definire questo squallore e questo fascino.

Né riesco a credere che sia cambiata. Ieri, arrivando in taxi dall’aeroporto, mentre passavo davanti alle linde e piatte fabbriche e ai magazzini che un tempo erano linde e piatte fattorie, un chilometro dopo l’altro di prudenza e di utilitarismo, poi attraverso il centro della città con le sue luci, i tendoni dei negozi in stile europeo e le strade pavimentate con lastre di pietra, ho potuto vedere che è sempre la stessa. Sotto gli orpelli e l’ostentazione c’è la vecchia città con le strade una dopo l’altra, fatte di solide case di mattoni rossi, con i pilastri sul porticato, simili ai gambi bianchicci dei funghi a ombrello e con le finestre, sempre attente e calcolatrici. Maligna, invidiosa, vendicativa, implacabile.

Nei miei sogni in questa città, mi sento sempre sperduta.

 

A parte tutto ciò, ho naturalmente una mia vita reale. Talvolta stento a crederci, perché non mi sembra né il tipo di vita con il quale cavarsela, né quella che io mi possa meritare. Quest’idea va di pari passo con un’altra mia sensazione: che tutti quelli della mia età sono adulti e io invece sono semplicemente camuffata.

Abito in una casa con le tendine alle finestre e il prato, nella Columbia britannica. È il posto più lontano da Toronto nel quale sia riuscita ad arrivare senza per questo sentirmi affogare. L’irrealtà del paesaggio mi rincuora: le montagne da cartolina, tipo tramonto e tanti saluti, le villette che sembrano costruite dai sette nani negli anni Trenta, i lumaconi giganti, ancora più grandi di quanto dovrebbe esserlo un lumacone. Anche la pioggia è esagerata e non riesco a prenderla sul serio. Immagino che per la gente cresciuta lì tutto ciò sia reale e opprimente quanto lo è per me questo posto. Ma nei giorni buoni provo ancora la sensazione di essere in vacanza, in fuga. In quelli brutti non mi accorgo né di questo né di altro.

Ho un marito, non il primo, che si chiama Ben. Non è un artista in nessun senso, e gliene sono grata. Dirige un’agenzia di viaggi specializzata nel Messico. Tra le sue principali qualità vanta biglietti ridotti per lo Yucatan. È per via dell’agenzia che non mi ha accompagnato in questo viaggio: nel campo del turismo i mesi prima di Natale sono frenetici.

Ho anche due figlie ormai cresciute. Si chiamano Sarah e Anne, nomi buoni, sensati. Una è quasi medico, l’altra è commercialista. Scelte sensate. Io credo nelle scelte sensate, così diverse da molte delle mie. E anche nel dare nomi sensati ai bambini: guardate un po’ cosa è successo a Cordelia.

Nella mia vita reale c’è un mestiere, anche se non lo si può definire propriamente reale. Sono pittrice e l’ho anche fatto scrivere sul passaporto in un momento di spavalderia, perché l’unica altra definizione possibile era ‘casalinga’. È una cosa così improbabile, per me, che certi giorni mi fa ancora rabbrividire. Le persone rispettabili non diventano pittori; lo diventano soltanto quelle pretenziose, i presuntuosi, gli esibizionisti. La parola ‘artista’ mi imbarazza; preferisco ‘pittrice’ perché ricorda di più un lavoro vero e proprio. Un artista è qualcosa di sfacciato, di pigro: ve lo confermerà la maggior parte della gente, in questo paese. Se qualcuno dice che è un pittore verrà squadrato da sguardi strani, a meno che, naturalmente, dipinga animali o guadagni un mucchio di quattrini. Ma io ne ricavo soltanto quanto basta da fare invidia agli altri pittori, e da poter dire a tutti gli altri che ne ho abbastanza.

Nell’insieme però sono soddisfattissima, perché penso di avercela fatta per un pelo.

È a causa del mio mestiere che sono qui, sopra questo futon, sotto questo piumino. Fanno la mia prima mostra retrospettiva. La galleria si chiama Sub-Versions, uno di quei giochi di parole che una volta, prima che diventassero così di moda, mi divertivano molto. Dovrei essere soddisfatta anche di questa retrospettiva, e invece ho sensazioni contrastanti. Non mi piace dover riconoscere che sono così vecchia e affermata da fare una cosa simile, anche se è in una galleria alternativa, gestita da un gruppo di donne. Mi sembra inverosimile, e anche di cattivo auspicio: prima la retrospettiva, poi la camera ardente. Però sono anche stufa, perché l’Art Gallery of Ontario non la farebbe mai. Le loro preferenze vanno agli uomini, morti e stranieri.

 

Il piumino si trova in uno studio che appartiene a Jon, il mio primo marito. Mi incuriosisce che ne abbia uno qui, perché lui abita altrove. Finora mi sono trattenuta dal curiosare nel suo armadietto dei medicinali in cerca di forcine per capelli e deodoranti femminili, come invece avrei fatto una volta. Non sono più affari miei: ora posso lasciare che sia quel macigno di sua moglie a occuparsi delle forcine.

Forse è stata una sciocchezza farsi ospitare, una cosa troppo retrospettiva. Ma siamo rimasti sempre in contatto per via di Sarah, che è anche figlia sua, e dopo tante scenate e piatti rotti abbiamo deciso in qualche modo di rimanere amici a distanza, il che è sempre più facile che da vicino. Quando ha saputo della retrospettiva, si è offerto lui: a Toronto, ha detto, il prezzo degli alberghi, anche di quelli da poco, sta diventando scandaloso. La Sub-Versions mi avrebbe trovato un posto dove stare, ma non ne ho parlato. Non mi piace la pulizia degli alberghi, le vasche da bagno lucide come specchi. Non mi piace sentire l’eco della mia voce lì dentro, specialmente di notte. Preferisco la confusione, il disordine e la sporcizia personale di quelli come me e come Jon. Gente di passaggio, nomadi.

Lo studio di Jon è in King Street, vicino al lungolago. King Street era uno di quei posti dove non si andava mai, una strada di squallidi magazzini, di camion rumorosi, di vicoli equivoci. Ora è diventata di moda; gli artisti l’hanno infestata. In realtà la prima ondata di artisti è arrivata e se n’è andata quasi completamente, rimpiazzata da targhe d’ottone, tubature per il riscaldamento color rosso fuoco e studi legali. Lo studio di Jon, al quinto e ultimo piano di uno di questi magazzini, non avrà lunga vita così com’è. l soffitti si riempiono di faretti, i piani inferiori sono stati spogliati del precedente linoleum e sanno di deodorante al pino mescolato a un oscuro sottofondo che ricorda il vomito e l’urina, mentre le larghe assi sottostanti sono state sabbiate. Tutto questo lo so perché devo salire a piedi cinque piani; l’ascensore non l’hanno ancora messo.

Jon mi ha lasciato la chiave in una busta sotto lo zerbino e un biglietto con su scritto ‘Auguri’, che sta a dimostrare quanto sia ammorbidito o maturato. ‘Auguri’ non era il suo vecchio stile. Per un po’ sarà a Los Angeles, dove sta allestendo la scena per un qualche omicidio con sega circolare, ma ritornerà prima dell’inaugurazione.

L’ultima volta l’ho visto per la laurea di Sarah, quattro anni fa. Ha preso un aereo per la costa, per fortuna senza la moglie, alla quale non sono molto simpatica. Anche se non ci siamo mai incontrate, so che non le sono simpatica. Durante la cerimonia, dopo il rituale chiacchiericcio, il tè e i pasticcini abbiamo agito da genitori adulti, responsabili. Abbiamo portato a cena tutte e due le ragazze e ci siamo comportati bene. Ci siamo perfino vestiti come sapevamo che voleva Sarah io avevo un vestito con scarpe intonate e tutto il resto, Jon giacca e cravatta. Gli ho detto che sembrava un impresario di pompe funebri.

Ma il giorno dopo ce la siamo squagliata insieme a pranzo, da soli, e abbiamo preso la sbornia. Questa parola, ‘sbornia’, sull’orlo dell’oblio, mi serve per ricordare di cosa si è trattato. È stata una retrospettiva. E la ricordo ancora come una cosa furtiva, anche se naturalmente Ben ne era al corrente. Lui però non sarebbe mai andato a pranzo con la sua prima moglie.

«Mi hai sempre detto che è stato un disastro» mi ha detto Ben, un po’ perplesso.

«Proprio così» ho confermato. «È stato orribile.»

«E allora perché hai voluto andare a pranzo con lui?»

«È difficile da spiegare» ho risposto, anche se forse non era così. Quello che abbiamo in comune Jon e io somiglia molto a un incidente d’auto. Siamo superstiti l’uno dell’altra. Ci siamo trattati da pescecani, ma anche da salvagente. E questo vuol dire qualcosa.

Una volta Jon faceva composizioni. Le faceva con pezzi di legno e di cuoio che raccoglieva tra i rifiuti, oppure spaccava qualcosa, un violino o un bicchiere, poi incollava i pezzi nella posizione in cui si erano rotti; allineamenti di frammenti, li chiamava. Una volta ha avvolto fogli di carta colorata intorno a tronchi d’albero e li ha fotografati, un’altra ha fatto una copia di una forma di pane coperta di muffa che respirava con l’aiuto di un motorino elettrico. La muffa era composta con i capelli suoi e di suoi amici, e penso che ce ne fossero anche di miei, su quella forma di pane, perché l’avevo sorpreso a strapparli dalla mia spazzola.

Adesso fa effetti speciali per il cinema, e così finanzia le sue velleità artistiche. Lo studio pullula delle sue creazioni incompiute: sul tavolo di lavoro dove tiene colori, colle, coltelli e pinze ci sono una mano e un braccio in vetroresina, con le arterie che si snodano come vermi da un’estremità, e cinghie per mettersi addosso tutta la faccenda. Sul pavimento ci sono stampi vuoti di gambe e di piedi, simili a portaombrelli a zampa d’elefante, e dentro uno di questi aggeggi c’è un ombrello. C’è anche un pezzo di faccia con la pelle annerita e sbiancata, fatta in modo da ricalcare la faccia dell’attore. Un mostro deformato da qualcuno e assetato di vendetta.

Jon dice che non è sicuro che questo lavoraccio, costruire parti del corpo, sia proprio la cosa migliore che uno possa fare. È troppo brutale, non contribuisce alla bontà del genere umano. Col passare degli anni Jon è arrivato a credere nella bontà del genere umano, e questo costituisce sicuramente un cambiamento. Ho scoperto perfino alcune tisane, nel suo armadietto. Afferma che preferirebbe costruire graziosi animaletti per bambini, ma si deve pur mangiare, dice, e c’è maggiore richiesta di arti recisi.

Vorrei che fosse qui, o lui o Ben, o un qualsiasi altro uomo che conosco. Mi sta passando, la voglia degli sconosciuti. Una volta rivolgevo l’attenzione alle cose emozionanti, avventurose;, ora sono diventate soltanto confusione, fastidi. Spogliarsi con grazia, che è sempre impossibile; escogitare che cosa dire dopo, senza sentirtelo rimbombare in testa. Peggio ancora è l’incontro con una serie di nuovi particolari: le unghie dei piedi, i buchi delle orecchie, i peli del naso. Forse a quest’età si ritorna al pudore dell’infanzia.

 

Mi tolgo da sotto il piumino con la sensazione di non aver dormito. Frugo tra le bustine delle tisane nel cucinino: Nebbia di limone, Tuono del mattino, e le scarto a favore di un bel caffè forte ed elettrizzante come veleno. Mi trovo d’un tratto in mezzo alla stanza principale, senza sapere esattamente come vi sono arrivata dal cucinino. Un piccolo sfasamento temporale, qualche scarica elettrica sullo schermo, probabilmente il cambio di fuso orario: in piedi fino a tardi la notte, catatonica al mattino. L’inizio del morbo di Alzheimer.

Vado a sedere alla finestra, bevo il caffè mordicchiandomi le unghie e guardo giù dal quinto piano. Da questa altezza i pedoni appaiono schiacciati verso il basso, come bambini deformi. Tutt’intorno vedo magazzini col tetto piatto che sembrano scatole e al di là la pianura attraversata dalla ferrovia dove passavano avanti e indietro i treni, che qui un tempo erano l’unico divertimento domenicale. Ancora più oltre si distende il lago Ontario, uno zero all’inizio e uno zero alla fine, grigio come ardesia e madido di veleni. Di lì anche la pioggia è cancerogena.

Mi lavo nel bagno minuscolo e unto di Jon, resistendo alla tentazione dell’armadietto dei medicinali. Il bagno, imbrattato di impronte digitali, è dipinto di un bianco sporco, in una luce che non è certo la più esaltante. Jon non si sentirebbe un artista senza una certa quantità di sporcizia intorno. Socchiudo gli occhi davanti allo specchio, preparando l’espressione del viso: con le lenti a contatto sono troppo vicina, e senza sono troppo distante. Ho imparato a fare questi esercizi allo specchio con una lente in bocca, vitrea e sottile come una caramella al limone succhiata. Potrei inghiottirla per errore: sarebbe un modo poco dignitoso di morire. Dovrei usare occhiali bifocali, ma allora sembrerei davvero una vecchia gallina.

 

Mi infilo la tuta grigiazzurra, il mio travestimento da non-artista, e scendo le quattro rampe di scale cercando di darmi un’aria da persona attiva e determinata. Potrei essere una donna d’affari che va a fare jogging, oppure una dirigente di banca in vacanza. Punto verso nord, poi a est lungo Queen Street, un altro di quei posti che non frequentavamo mai. Si diceva che fosse un ritrovo di vagabondi ubriaconi, balordi li chiamavano, che bevevano alcol denaturato, dormivano nelle cabine telefoniche e in tram vomitavano sui piedi della gente. Ora invece è una strada di gallerie d’arte e di librerie, di boutique piene di abiti neri e di calzature bizzarre, la serie B della moda.

Decido che andrò a dare un’occhiata alla galleria; non l’ho mai vista perché tutto è stato organizzato per telefono e per posta. Non ho intenzione di entrare e di farmi riconoscere, non ancora. Voglio dare soltanto un’occhiata da fuori. Passerò lì davanti e getterò uno sguardo distratto, come una casalinga, una turista, una persona che guarda le vetrine. Le gallerie sono posti che fanno paura, dove si viene valutati e giudicati. Devo prepararmi ad affrontarle.

Ma prima di arrivare alla galleria passo davanti a un muro di assi, di quelli che nascondono lavori di demolizione. Ci hanno scritto su con una bomboletta spray, quasi a sfidare l’immacolata Toronto: ‘Scegli Bacon o scegli me, bambina’. E sotto: ‘Che cos’è questo Bacon e dove posso trovarne?’. Lì accanto è appiccicato un manifesto, ma più che un manifesto è un volantino di un colore rosso acceso, con sfumature verdi e una scritta in nero: Risley. Una retrospettiva; soltanto il cognome, potrebbe essere un ragazzo. Il nome è il mio e così anche la faccia; più o meno. È la foto che ho mandato alla galleria, solo che adesso ho un paio di baffi.

Sapeva ciò che faceva, quello che ha disegnato quei baffi; o quella, non lo si può escludere. Sono baffi fluenti e arricciati, come quelli di un cavaliere, accompagnati da un grazioso pizzetto intonato ai miei capelli.

Penso che dovrei preoccuparmi di quei baffi. È soltanto uno scarabocchio o è un gesto politico, un atto di aggressione? Vuol dire: ‘Zorro ha colpito ancora’, oppure ‘Vaffanculo’? Ricordo di averne disegnati anch’io di baffi come questi, e ricordo il gusto della provocazione che li accompagnava, il proposito di ridicolizzare, di sgonfiare il senso di potenza. Era come cancellare la faccia di qualcuno, come eliminarla. Se fossi più giovane mi sentirei offesa.

In ogni caso, guardo quei baffi e penso: ‘In fondo non sono male’. I baffi sono come un costume. Li osservo da diverse angolazioni, quasi considerando l’idea di farmeli crescere. Gettano una luce diversa. Penso ai peli sulla faccia degli uomini, alle possibilità di camuffarsi che hanno sempre a loro disposizione. Penso agli uomini con i baffi e a come devono sentirsi nudi quando se li tagliano, a come devono sentirsi diminuiti. Un sacco di gente starebbe meglio con i baffi.

E poi, improvvisamente, mi accorgo con stupore che ho finalmente una faccia sulla quale possono essere disegnati i baffi, una faccia che li richiama. Una faccia pubblica, che merita di essere deturpata. Questo è già un risultato. Finalmente ho fatto qualcosa di me stessa, in un senso o nell’altro.

Mi domando se Cordelia vedrà mai questo manifesto. Mi domando se nonostante i baffi mi riconoscerà. Può anche darsi che venga all’inaugurazione. Entrerà nella galleria e io mi volterò, vestita di nero come si addice alle pittrici, con l’aria della donna di successo, un bicchiere di vino abbastanza cattivo in mano. Non ne rovescerò nemmeno un goccio.