Finché non ci siamo trasferiti a Toronto sono stata felice. Prima non avevamo praticamente abitato in nessun posto, anzi, avevamo abitato in così tanti posti che era difficile ricordarli tutti. Un bel po’ di tempo lo passavamo in auto, sulla nostra lenta Studebaker grande come una barca, lungo stradine di campagna o sulle strade a due corsie su nel nord, un lago dopo l’altro, una collina dopo l’altra, con la striscia bianca che avanzava in mezzo alla strada e i pali del telefono ai lati, certi alti e certi più bassi, e i fili che sembravano salire e scendere.
Sono seduta da sola sul sedile posteriore, tra valigie e scatole di cartone piene di viveri e di indumenti, e l’odore gassoso, di lavasecco, che sale dall’imbottitura dell’auto. Mio fratello Stephen è seduto davanti, accanto al finestrino mezzo abbassato. Sa di caramelle col buco alla menta, ma sotto ha il suo solito odore di matite di legno di cedro e di sabbia bagnata. A volte vomita in sacchetti di carta oppure, se mio padre fa in tempo a fermarsi, sul ciglio della strada. Soffre di mal d’auto e io no, e per questo motivo ci sta lui seduto davanti. È l’unica sua debolezza che conosca.
Dal mio ristretto punto d’osservazione, lì dietro, ho una buona visione delle orecchie dei miei familiari. Quelle di mio padre sbucano da sotto alla tesa del vecchio cappello di feltro, che tiene sempre in testa per non farsi cadere tra i capelli ramoscelli, cortecce d’alberi e insetti: sono grandi e hanno un aspetto morbido, con lunghi lobi; sembrano le orecchie degli gnomi o di quei personaggi minori, simili ai cani, dei fumetti di Topolino. Mia madre tiene i capelli puntati indietro con le forcine, così che da dietro si possono vedere le orecchie. Sono strette, con i bordi superiori fragili; somigliano a manici di tazzine di porcellana, sebbene lei non sia una donna fragile. Le orecchie di mio fratello sono rotonde; sembrano albicocche secche, oppure le orecchie di quei marziani verdastri dalla testa ovale che disegna con le sue matite colorate. Tutt’intorno alle orecchie rotonde e giù sulla nuca i capelli castani gli scendono in folti riccioli. Si rifiuta di farseli tagliare.
Mi è difficile sussurrare nelle orecchie rotonde di mio fratello, quando siamo in auto. In ogni caso, lui non può voltarsi a rispondermi perché deve guardare l’orizzonte davanti a sé, oppure le righe bianche della strada che fluttuano verso di noi, come una successione di onde che corrono lentamente, una dopo l’altra.
Le strade sono quasi deserte perché c’è la guerra, anche se di quando in quando incontriamo un autocarro carico di tronchi o di legname, che si trascina dietro una scia odorosa di segatura. All’ora di pranzo ci fermiamo sul bordo della strada e stendiamo una tovaglia di tela cerata tra i semprevivi bianchi come la carta e gli sterpi rossastri, per mangiare ciò che ci prepara la mamma: pane e sardine, oppure pane e formaggio o melassa o, se non c’è altro, pane e marmellata. Carne e formaggio scarseggiano perché sono razionati. Ciò significa che ti danno un tesserino con dei bollini colorati.
Papà accende un piccolo fuoco per far bollire in un pentolino l’acqua per il tè. Dopo mangiato ci eclissiamo dietro i cespugli, uno dopo l’altro, con un pezzo di carta igienica in tasca. Qualche volta troviamo altri pezzi di carta igienica che si sbriciolano tra le felci e le foglie morte, ma il più delle volte non ce ne sono. Mi accovaccio con l’orecchio teso per sentire se arriva un orso alle mie spalle, tra le ruvide foglie di aster che mi graffiano le gambe; poi seppellisco la carta igienica sotto rami, cortecce e felci secche. Papà dice che deve sembrare come se non fossimo mai passati di qui.
Papà si addentra poi nella foresta portando con sé un’ascia, uno zaino e una grossa cesta di legno con una cinghia di pelle per appenderla alla spalla. Alza lo sguardo da un albero all’altro, riflettendo. Poi stende un’incerata per terra, sotto l’albero prescelto, e la avvolge intorno al tronco. Apre la cesta di legno, che è piena di bottigliette, poi colpisce il tronco dell’albero con il dorso dell’ascia. L’albero trema e piovono foglie, ramoscelli e bruchi che rimbalzano sul suo cappello di feltro e cadono sull’incerata. Stephen e io ci accovacciamo a raccogliere i bruchi, che sono a strisce azzurre, vellutati e freddi come i musi dei cani, e li mettiamo dentro le bottigliette, piene di alcol chiaro. Li osserviamo mentre si dibattono e affondano.
Mio padre osserva i bruchi raccolti come se li avesse allevati lui, poi esamina le foglie mangiucchiate. «Una bella infestazione» commenta. È allegro, più giovane di quanto sia io adesso. Sulle dita sento l’odore dell’alcol, freddo e distante, penetrante come un ago d’acciaio. Ha l’odore dei lavandini bianchi smaltati. Alzo lo sguardo verso le stelle della notte, fredde, bianche, vivide e penso che devono avere un odore simile.
Quando si avvicina la fine della giornata ci fermiamo di nuovo e montiamo la tenda, un pesante telo sorretto da pali di legno. I nostri sacchi a pelo sono color cachi, pesanti e grumosi, sempre un po’ umidi. Sotto distendiamo i tappetini e i materassini, che quando li gonfio mi danno un senso di vertigine, riempiendomi il naso e la bocca di un sapore di vecchi stivali di gomma o di pneumatici ammucchiati in un garage. Mangiamo intorno al fuoco, che si fa ancora più vivido quando le ombre si allungano dagli alberi come rami più scuri. Entriamo carponi nella tenda e ci spogliamo dentro i sacchi a pelo; mentre la torcia elettrica disegna sulla tela un cerchio, un cerchio luminoso che ne racchiude uno più scuro, come un bersaglio. La tenda puzza di catrame e di kapok, di carta unta di formaggio, di erba schiacciata. Al mattino, lì fuori, gli sterpi sono spruzzati di rugiada.
Qualche volta dormiamo in un motel, ma soltanto quando è troppo tardi per trovare un posto dove montare la tenda. l motel sono sempre isolati e si profilano contro la parete scura di una foresta, con luci scintillanti nel buio uniforme della notte, come quelle di navi o di oasi. Fuori ci sono le pompe della benzina, alte come un uomo, sormontate da dischi rotondi e illuminati come pallide lune o come aureole prive della testa. Su ogni disco è disegnata una conchiglia, una stella, una foglia d’acero o una rosa bianca. Spesso i motel e le pompe di benzina sono vuoti o chiusi perché la benzina è razionata, e così la gente, a meno che non vi sia costretta, non viaggia molto.
A volte dormiamo in baracche di proprietà di altre persone o del governo, in accampamenti abbandonati di taglialegna, e qualche volta montiamo due tende, una per dormire e l’altra per le vettovaglie. In inverno rimaniamo nelle città e nei paesi del nord, nel Soo o a North Bay o a Sudbury, dove alloggiamo in appartamenti che in realtà sono le soffitte delle case di altre persone, e perciò dobbiamo stare attenti a non fare rumore camminando sui pavimenti di legno. I mobili sono quelli depositati in soffitta. Sono sempre gli stessi, ma ogni volta sembrano sconosciuti.
In queste case abbiamo anche cessi con lo sciacquone, bianchi e vagamente minacciosi, dove le cose scompaiono in un attimo con uno scroscio d’acqua. Quando arriviamo in queste città mio fratello e io andiamo spesso in bagno e buttiamo in queste tazze qualcosa, ad esempio gli avanzi della pastasciutta, per vederli scomparire. Quando sentiamo le sirene dell’allarme aereo tiriamo le tendine e spegniamo le luci, anche se la mamma dice che qui la guerra non arriverà mai. La guerra filtra fino a noi attraverso la radio, distante e gracchiante, con le voci da Londra che si affievoliscono tra le scariche elettriche. I nostri genitori ascoltano inquieti, la bocca serrata: forse stiamo perdendo.
Mio fratello non lo pensa: è convinto che noi stiamo dalla parte giusta e perciò vinceremo. Fa collezione di cartine di sigarette con disegni di aeroplani e ne conosce tutti i nomi.
Con un martello, qualche pezzo di legno e il temperino, mio fratello tagliuzza e inchioda per costruirsi un fucile. Inchioda due pezzi di legno ad angolo retto e usa un altro chiodo per il grilletto. Ne ha parecchi, di questi fucili di legno, e anche sciabole, e poi spade con le lame insanguinate a matita rossa. Qualche volta, quando ha terminato le matite rosse, il sangue è color arancione. Canta una canzone:
Con un’ala sola e una preghiera,
Con un’ala sola e una preghiera,
Anche se funziona un solo motore,
Continueremo a volare,
Con un’ala sola e una preghiera.
La canta allegramente, ma a me sembra una canzone triste perché, sebbene abbia visto i disegni degli aeroplani sui pacchetti di sigarette, non so come fanno a volare. Penso che siano come uccelli, e un uccello con un’ala sola non può volare. È quel che dice anche mio padre nelle sere d’inverno, prima di cena, sollevando il bicchiere quando ci sono altre persone a tavola: «Non si può volare con un’ala sola». E perciò quella preghiera nella canzone è inutile.
Stephen mi dà un fucile e un coltello e poi giochiamo alla guerra, che è il suo gioco preferito. Mentre i nostri genitori montano la tenda, accendono il fuoco o preparano da mangiare, noi ci nascondiamo tra gli alberi e i cespugli, prendendo la mira tra le foglie. Io sono la fanteria, il che significa che devo fare quello che dice lui. Mi fa cenno di andare avanti, di fermarmi, mi ordina di tenere bassa la testa per non farmi colpire dal nemico.
«Sei morta» mi dice.
«No, non è vero.»
«Sì, sei morta. Ti hanno beccata. Buttati giù.»
Discutere non serve, perché lui vede il nemico e io no. Devo distendermi sul terreno umido, appoggiata a un tronco d’albero in modo da non bagnarmi troppo, finché non arriverà il momento di resuscitare.
Qualche volta, invece di giocare alla guerra andiamo a caccia nella foresta, sollevando tronchi d’albero e sassi per vedere cosa c’è sotto. Troviamo formiche, larve e insetti, rane e rospi, bisce, perfino salamandre quando siamo fortunati. Non ne facciamo niente di queste prede. Sappiamo che se le mettiamo in bottiglia e le lasciamo per sbaglio al sole davanti al vetro posteriore dell’auto, muoiono; è già capitato. E allora le guardiamo soltanto, guardiamo le formiche che come impazzite nascondono le loro uova simili a pillole, le bisce che si immergono nel buio. Poi rimettiamo i tronchi d’albero dov’erano, a meno che ci serva qualcosa per pescare.
Qualche volta ci azzuffiamo. Non sono mai io a vincere, perché Stephen è più grosso e più cattivo, e io ho più voglia di giocare con lui di quanta ne abbia lui di giocare con me. Litighiamo sotto voce e di nascosto, perché se ci sorprendono a farlo veniamo puniti tutti e due. È per questo che non ci facciamo la spia. Sappiamo bene, in base all’esperienza, che il piacere del tradimento non ne vale il prezzo.
Proprio perché sono segreti, questi litigi hanno un loro particolare fascino. È il fascino delle parolacce che non dovremmo dire, parole come ‘culo’; c’è il fascino della congiura, della complicità. Ci pestiamo i piedi e ci diamo dei pizzicotti, attenti a non gridare per il dolore: siamo leali anche nelle atrocità.
Per quanto tempo abbiamo vissuto in questo modo, come nomadi ai margini della guerra?
Oggi abbiamo viaggiato a lungo e siamo in ritardo a montare la tenda. Siamo vicini alla strada, nei pressi di un anonimo laghetto dal profilo irrequieto. Gli alberi sulla riva si specchiano nell’acqua, nell’autunno le foglie dei pioppi ingialliscono. Il sole cala in un lungo, gelido, prolungato tramonto rosa fenicottero, poi salmone, infine ecco l’inverosimile rosso acceso del mercurocromo. Il tono di rosa rimane tremulo in superficie, poi si affievolisce e scompare. È una notte chiara, senza luna, piena di asettiche stelle. Si vede la Via lattea, chiara come mai, a preannunciare cattivo tempo.
A tutto ciò non prestiamo attenzione perché Stephen mi sta insegnando a vedere nel buio come fanno i commandos. Non si può mai sapere, dice; potrebbe essercene bisogno. Non si può usare la torcia elettrica; si deve rimanere immobili al buio, in attesa che gli occhi si abituino alla mancanza di luce. Poi le forme delle cose iniziano a profilarsi, grigiastre, baluginanti, prive di sostanza, come se si condensassero nell’aria. Stephen mi dice di muovere i piedi lentamente, bilanciandomi bene prima su uno e poi sull’altro, facendo attenzione a non calpestare i ramoscelli. Mi dice di respirare senza far rumore. «Se ti sentono, ti prendono» sussurra.
Si accovaccia accanto a me, profilandosi sullo sfondo del lago come una chiazza d’acqua più scura. Gli scorgo un lampo negli occhi, che poi scompare. È uno dei suoi trucchi.
So che sta scivolando verso il fuoco, verso i miei genitori, ombre guizzanti dai visi indistinti. Ora sono sola, col battito del mio cuore e il respiro troppo sonori. Però ha ragione: adesso riesco a vedere nel buio.
Queste sono le mie immagini dei morti.