Compio otto anni in un motel. Mi regalano una macchina fotografica Brownie, nera e oblunga, con sopra una maniglia e dietro un buco rotondo per inquadrare.
La prima è una fotografia di me appoggiata all’uscio di una stanza di motel. La porta alle mie spalle è bianca e chiusa, con su un numero metallico, il nove. Indosso un paio di pantaloni sformati sulle ginocchia e una giacca con le maniche troppo corte. Sotto la giacca, anche se non si vede, so che ho una maglia a strisce gialle e marroni ereditata da mio fratello. Molti dei miei abiti prima erano suoi. La mia pelle sembra bianchissima a causa della pellicola sovraesposta, la testa è piegata da una parte, le mani senza guanti, penzoloni. Sembra la vecchia foto di un’emigrante. Sembra che mi abbiano messo davanti alla porta ordinandomi di non muovermi.
Com’ero, che cosa volevo? Difficile ricordarlo. Volevo una macchina fotografica per il mio compleanno? Probabilmente no, anche se ero felice di averla ricevuta.
Vorrei altre cartoline delle scatole di biscotti di segale Nabisco, quelle cartoline grigie che si possono colorare, ritagliare e piegare per fare le case di una città. Vorrei anche qualche nettapipa. Abbiamo un libro intitolato Giochi per i giorni di pioggia, che insegna come fare un telefono con due lattine e un pezzo di spago, oppure una barchetta che si muove versandoci dentro olio lubrificante da un buco; oppure, come fare un cassettone per la bambola con una scatola di fiammiferi o ancora, come fare diversi animali – un cane, una pecora, un cammello – con i nettapipa. La barca e il cassettone non mi interessano, i nettapipa sì. Non ho mai visto un nettapipa.
Voglio la carta argentata dei pacchetti di sigarette. Ne ho già parecchi fogli ma ne voglio ancora. I miei genitori non fumano, perciò devo raccogliere questa carta dove capita, ai bordi delle stazioni di rifornimento, tra l’erba intorno ai motel. Ho preso l’abitudine di esplorare il terreno. Quando trovo uno di questi fogli lo pulisco e lo appiattisco, poi lo ripongo tra le pagine del mio libro di lettura. Non so bene cosa ne farò quando ne avrò un numero sufficiente, ma sarà certo qualcosa di strabiliante.
Voglio un palloncino. Si cominciano a rivedere, i palloncini, ora che la guerra è finita. In inverno, quando ero ammalata di orecchioni, mia madre ne ha trovato uno in fondo al baule; doveva averlo messo lì prima della guerra, pensando forse che non se ne sarebbero più visti per un po’ di tempo. Me l’ha gonfiato: era azzurro, trasparente, rotondo come una luna tutta mia. La gomma era vecchia e logora e il palloncino è scoppiato quasi subito, lasciandomi molto triste. Ma ora voglio un altro palloncino, un palloncino che non si rompa.
Voglio avere amicizie, amicizie di ragazze. Ragazze mie amiche. So che esistono perché l’ho letto sui libri, ma non ho mai avuto nessuna amica perché non mi sono mai fermata abbastanza in un posto.
Il tempo è spesso brutto; il cielo è quello coperto, basso e plumbeo del tardo autunno, oppure piove e dobbiamo rimanere dentro il motel, che è di quelli soliti: una fila di fragili villette, unite tra loro da festoni di lampioncini natalizi gialli, blu e verdi. Le chiamano ‘villette familiari’, il che significa che sono fornite di una stufa, di una pentola o due, di una teiera e di un tavolo coperto da tela cerata. Il pavimento di questa ‘villetta familiare’ è di linoleum, con un disegno sbiadito di quadrati floreali. Gli asciugamani sono striminziti, le lenzuola lise nel mezzo, consumate dai corpi degli altri. Appesa al muro, una stampa in cornice con boschi in inverno e un’altra di anatre in volo. Alcuni motel hanno il bagno fuori, ma questo ha una vera tazza del water, anche se maleodorante, e una vasca da bagno.
Alloggiamo in questo motel da qualche settimana, il che è insolito, perché non rimaniamo mai nello stesso posto per più di una notte. Mangiamo zuppa di piselli Habitant in scatola, riscaldata sulla stufa a due fuochi in una pentola ammaccata, fette di pane spalmate di melassa e pezzi di formaggio. Il formaggio è più abbondante, ora che è finita la guerra. In casa indossiamo gli abiti pesanti e di notte ci mettiamo le calze, perché queste villette con le loro pareti sottili sono pensate per i turisti in estate. L’acqua calda è soltanto tiepida e per farci fare il bagno mia madre deve riscaldarla nel bollitore e versarla nella vasca, «tanto per togliere le croste di dosso» dice.
Al mattino facciamo colazione avviluppati nelle coperte. A volte ci vediamo il fiato anche dentro la villetta. Tutto ciò è insolito e dà una vaga impressione di vacanza. Non è che non andiamo a scuola, ma non abbiamo mai frequentato più di tre o quattro mesi per volta. L’ultima volta sono andata a scuola otto mesi fa, e mi è rimasta soltanto un’idea vaga e frammentaria di cosa fosse.
Al mattino facciamo i compiti sui nostri libri di scuola, e la mamma ci dice quali pagine studiare. Poi leggiamo i nostri libri di lettura. Il mio parla di due bambini che abitano in una casa bianca con le tendine, un prato davanti e una palizzata. Il padre va a lavorare, la madre indossa un abito e un grembiule, i bambini giocano a palla nel prato con un cane e un gatto. In queste storie non c’è niente che assomigli alla mia vita. Non ci sono tende, autostrade, pisciate nei boschi né laghi o motel. Non c’è nemmeno la guerra. I bambini sono sempre puliti e la bambina, che si chiama Jane, indossa graziosi vestitini e scarpette di vernice con le stringhe.
Questi libri hanno per me un fascino esotico. Quando Stephen e io disegniamo con le matite colorate, lui disegna scene di guerra, guerre comuni e guerre spaziali. Le sue matite rosse, gialle e arancioni sono ormai ridotte a mozziconi a causa di tutte le esplosioni che disegna, e anche quelle d’oro e d’argento sono state consumate sulle lucenti corazze metalliche dei carri armati e delle navicelle spaziali, sugli elmetti e sulle complicate armi da fuoco. Io invece disegno bambine. Le disegno in abbigliamenti antiquati, con lunghe sottane, grembiulini e maniche a sbuffo, oppure con abiti come quelli di Jane e grandi nastri tra i capelli. È in questo modo elegante e delicato che mi immagino le altre bambine. Non penso a cosa potrei dire loro, se ne incontrassi qualcuna. Non sono ancora arrivata a tanto.
Alla sera dovremmo lavare i piatti, ‘tirarli via’ come dice la mamma. Litighiamo sottovoce, a monosillabi, per decidere a chi tocca lavarli: asciugarli con un tovagliolo umidiccio non è bello come lavarli, che ti scalda anche le mani. Facciamo galleggiare piatti e bicchieri nell’acqua del lavello e li bombardiamo con cucchiai e coltelli bisbigliando: «Bomba sganciata» e tentando di mirare il più vicino possibile ma senza colpirli. I piatti non sono nostri. Questo gioco dà sui nervi alla mamma. Quando le dà troppo sui nervi, i piatti se li lava da sola, il che è da intendersi come una sorta di castigo.
La notte dormiamo nella brandina estraibile, la testa dell’uno contro i piedi dell’altro, cosa che dovrebbe farci dormire prima, e ci scalciamo silenziosamente sotto le coperte; oppure vediamo fin dove riusciamo a infilare i piedi nella gamba del pigiama dell’altro. Di quando in quando, la finestra è illuminata dai fari di un’auto di passaggio, che vediamo scorrere prima su una parete, poi sull’altra, e infine scomparire. Si ode il rumore di un motore, poi lo sfrigolio dei pneumatici sulla strada bagnata. Poi il silenzio.