Non so chi mi abbia fatto quella fotografia. Dev’essere stato mio fratello perché mia madre è dentro la villetta, dietro la porta bianca, con un paio di pantaloni grigi e una camicia scozzese blu scuro, intenta a impacchettare i viveri nelle scatole di cartone e gli abiti nelle valigie. Ha un suo sistema, quando fa le valigie: parla tra sé per ricordarsi tutti i particolari, e in questi momenti preferisce che le stiamo alla larga.
Subito dopo la fotografia inizia a nevicare, grossi fiocchi asciutti che cadono a uno a uno dal cupo e nordico cielo di novembre. Quella prima neve ha qualcosa di silenzioso e di pigro, mentre la luce s’affievolisce e le ultime foglie d’acero penzolano dai rami come alghe. Prima che iniziasse a nevicare eravamo sonnolenti; ora siamo in preda all’euforia.
Corriamo fuori dal motel con le nostre logore scarpe estive, le mani nude tese verso i fiocchi che cadono, le teste rovesciate all’indietro e la bocca aperta per mangiare la neve. Se ne cadesse una spessa coltre, ci rotoleremmo come cani nella polvere, provando quello stesso senso di beatitudine. La mamma, invece, guarda fuori dalla finestra, ci vede nella neve e ci fa rientrare in casa per asciugarci i piedi con gli asciugamani striminziti. Non abbiamo stivali invernali adatti. Siamo in casa, e la neve diventa fanghiglia.
Mio padre cammina avanti e indietro, facendo tintinnare le chiavi in tasca. Spera sempre che le cose accadano con anticipo e ora vorrebbe partire subito, ma mia madre dice che deve avere pazienza. Usciamo e lo aiutiamo a scrostare il ghiaccio dai finestrini dell’auto, poi trasportiamo i bagagli e infine ci stringiamo anche noi dentro l’auto, partendo verso sud. So che andiamo a sud perché è la direzione del sole, che ora sta facendo debolmente capolino tra le nuvole, sfavilla sugli alberi gelati e risplende sulle chiazze di ghiaccio ai bordi della strada, rendendo difficoltoso vedere.
I nostri genitori hanno detto che stiamo andando nella nostra nuova casa. Questa volta la casa sarà davvero nostra, non in affitto. È in una città che si chiama Toronto. Il nome non mi dice niente. Penso alla casa nel mio libro di lettura, bianca, con la palizzata, il prato e le tendine alle finestre. Sono impaziente di vedere come sarà la mia camera da letto.
Quando arriviamo alla casa è già pomeriggio inoltrato. Dapprima penso che debba esserci un errore, e invece la casa è proprio questa, perché mio padre sta già aprendo la porta con una chiave. Non è affatto lungo una strada, ma piuttosto in un campo. È una specie di bungalow quadrato di mattoni gialli, assediato dal fango. Da una parte c’è un’enorme buca nel terreno, circondata da grossi mucchi di fango. Anche la strada di fronte è fangosa, sterrata e piena di buche. Nel fango sono stati posati alcuni blocchi di cemento che servono da gradini, così possiamo arrivare alla porta.
All’interno la situazione è ancor più deprimente. È vero, ci sono porte, finestre, pareti, il riscaldamento funziona. Nel soggiorno c’è una finestra panoramica, ma la vista che offre è quella di una vasta distesa di fango ondulato. Lo scarico del gabinetto funziona, ma all’interno della tazza si vede un anello giallastro e parecchi mozziconi di sigarette che galleggiano nell’acqua; quando apro il rubinetto dell’acqua calda esce un fiotto rossastro e tiepido. I pavimenti, che non sono di legno lucido né di linoleum, sono coperti da larghe assi grezze e incrinate, grigie di calcinacci e macchiate di chiazze bianche simili a escrementi di uccelli. Solo qualche stanza ha l’impianto della luce; le altre un filo che pende in mezzo al soffitto. In cucina non esistono mobili e nemmeno il fornello a gas, ma soltanto il lavello. Niente è stato pitturato e c’è polvere ovunque, sulle finestre, sui davanzali, sugli infissi, sul pavimento. Tutt’intorno sono sparse mosche morte.
«Dovremo rimboccarci tutti le maniche» dichiara mia madre, e vuole dire che non sono ammesse lamentele. Dovremo fare tutto il possibile, soggiunge, per sistemare la casa con le nostre mani, perché l’uomo che doveva farlo è andato in bancarotta. «Se l’è squagliata» ecco l’espressione che usa. Papà non la prende così allegramente. Cammina avanti e indietro per la casa, scrutando e tastando, brontolando tra sé con suoni sommessi e sibilanti. «Figlio d’un cane, figlio d’un cane» continua a ripetere.
Dalle profondità dell’auto mia madre disseppellisce un fornelletto a gas e, non essendoci un tavolo, lo posa sul pavimento della cucina, poi inizia a scaldare un po’ di zuppa di piselli. Mio fratello esce di casa, e so che sta andando a scalare la montagna di fango lì fuori o a studiare le possibilità che offre quella grande buca nel terreno, ma io non ho il coraggio di seguirlo.
Mi lavo le mani con l’acqua rossastra del bagno. Nel lavandino c’è una crepa, che in questo momento sembra un disastro più grave di tutti gli altri. Mi guardo la faccia nello specchio coperto di polvere. La lampadina sopra alla testa non ha paralume e fa sembrare ancora più pallida e malaticcia la mia faccia segnata dalle occhiaie. Mi strofino gli occhi, so che non devo farmi vedere piangere. Per quanto sia in condizioni pietose, la casa sembra troppo calda, forse perché ho ancora indosso gli abiti pesanti. Mi sento in trappola. Vorrei ritornare nel motel, sulla strada, in quella mia vita d’un tempo, senza radici, transitoria e sicura.
Le prime notti dormiamo sul pavimento, dentro i sacchi a pelo sistemati sui materassini. Poi compaiono alcune brandine, residuati dell’esercito, teli tesi su una struttura metallica più stretta in fondo che alla testa, così che rotolando nel sonno capita di cadere per terra sotto la brandina rovesciata. Notte dopo notte mi risveglio sul ruvido pavimento polveroso, domandandomi dove sono, e mio fratello non è lì a ridere di me o a ordinarmi di stare zitta perché ora sono sola nella camera. Sulle prime avevo trovato eccitante l’idea di avere una stanza tutta per me, uno spazio vuoto del quale disporre come volevo, senza Stephen, senza i suoi abiti sparsi tutt’intorno e i suoi fucili di legno; ma ora mi sento sola. Non sono mai stata sola di notte in una stanza.
Ogni giorno, mentre siamo a scuola, compare in casa qualcosa di nuovo; una stufa, un frigorifero, un tavolino con quattro sedie, così possiamo mangiare normalmente, seduti a un tavolo e non a gambe incrociate su un telo davanti al camino. Il camino funziona; questa è l’unica parte della casa che è stata terminata, e qui bruciamo pezzi di legno avanzati durante la costruzione della casa.
Nel tempo libero, mio padre se ne sta in casa a martellare. I pavimenti vengono a poco a poco coperti con assicelle di legno nel soggiorno e con piastrelle di cemento nelle camere da letto, dove avanzano una fila dopo l’altra. La casa inizia a somigliare maggiormente a una casa, ma ci vuole molto più tempo di quanto vorrei: siamo ancora ben lontani dalle palizzate e dalle tendine bianche alle finestre, in questa nostra laguna di fango postbellico.