Eravamo abituati a vedere nostro padre in giacca a vento, con i suoi malconci cappelli grigi di feltro, le camicie di flanella con i polsini abbottonati per impedire agli insetti di camminargli sulle braccia, i pantaloni pesanti infilati dentro i calzerotti di lana. A parte i cappelli di feltro, l’abbigliamento della mamma non era molto diverso.
Ora invece il papà indossa giacca, cravatta, camicia bianca e un cappotto di tweed con la sciarpa. Porta galosce che gli proteggono le scarpe, anziché quegli stivali di pelle impermeabilizzati col grasso di maiale. Sono comparse le gambe della mamma, avvolte in calze di nylon con la cucitura dietro. Si mette il rossetto, quando esce di casa; ha un cappotto col collo di pelo grigio e un cappellino con la piuma che le fa sembrare troppo lungo il naso. Ogni volta che si mette questo cappellino si guarda allo specchio e dice: «Assomiglio alla strega di Biancaneve».
Nostro padre ha cambiato lavoro, il che spiega tutto. Non è più addetto a cercare insetti nelle foreste: ora fa il professore universitario. Le odorose ampolle e bottigliette per collezione che una volta erano ovunque sono diminuite. Ci sono invece, sparsi per la casa, mucchi di disegni che fanno i suoi studenti con matite colorate, tutti disegni di insetti. Sono cavallette, larve degli abeti, bruchi delle foreste, tarli, tutti grandi come una pagina e definiti accuratamente nelle varie parti: mandibole, palpi, antenne, torace, addome. Alcuni insetti sono disegnati in sezione, cioè sono tagliati per mostrare cosa c’è dentro: canali, ramificazioni, bulbi e delicati filamenti. Questi disegni sono quelli che preferisco.
La sera, mio padre siede su una poltrona con un’asse tra i braccioli, dove posa i disegni che corregge con una matita rossa. Talvolta ridacchia tra sé o scrolla la testa, oppure sibila tra i denti. «Idiota» commenta, oppure «testone». Io sto dietro alla poltrona e guardo i disegni, mentre lui spiega che questo studente ha messo la bocca nel posto sbagliato, quest’altro non ha lasciato posto per il cuore, quell’altro ancora non sa distinguere il maschio dalla femmina. Non è così che io giudico i disegni; a me sembrano più o meno belli a seconda dei colori usati.
Il sabato andiamo con lui, in auto, nel posto dove lavora. Si chiama Istituto di Zoologia, ma noi non lo chiamiamo così. Per noi è soltanto l’istituto.
L’istituto è enorme. Quando ci andiamo è quasi sempre deserto perché è sabato, e ciò lo fa apparire ancora più grande. È fatto di mattoni scuri segnati dalle intemperie e dà l’impressione di essere munito di torrette, anche se non ne ha. È coperto di edera che adesso, in inverno, è senza foglie, e lo ricopre con le sue venature scheletriche. All’interno si trovano lunghi corridoi con pavimenti di legno, macchiati e consunti da generazioni di studenti con i loro fangosi stivali invernali, ma sempre tirati a lucido. Vi sono scale, anch’esse di legno, che quando si sale scricchiolano, ringhiere sulle quali non dobbiamo scivolare e termosifoni di ferro che fanno rumori come se scoppiassero, gelidi oppure roventi.
Al secondo piano si trovano corridoi che portano in altri corridoi nei quali sono allineati scaffali che contengono bottiglie, con dentro lucertole morte o bulbi oculari di buoi sotto alcol. In una sala sono esposte gabbie di vetro in cui sono chiusi dei serpenti, serpenti più grossi di tutti quelli che abbia mai visto. Uno di questi è un boa constrictor addomesticato e il custode, quando è presente, lo tira fuori e se lo avvolge intorno al braccio per mostrarci come soffoca le sue vittime prima di mangiarle. Abbiamo il permesso di accarezzarlo. Ha una pelle fredda e asciutta. Altre gabbie contengono serpenti a sonagli, e il custode ci mostra come estrae il veleno dai loro denti. Per farlo si infila un guanto di pelle. I denti sono ricurvi e vuoti, e il veleno che ne esce a gocce è giallo.
Nella stessa sala si trova una vasca di cemento piena d’acqua verdastra e densa, nella quale stanno grandi tartarughe che occhieggiano immobili oppure camminano pesantemente fin sulle rocce messe lì apposta, ma se ci avviciniamo troppo emettono un sibilo. Questa sala è più calda e più umida delle altre perché è di questo che hanno bisogno serpenti e tartarughe; c’è odore di muschio. In un’altra sala ancora si trova una gabbia piena di gigantesche blatte africane di colore bianco, così velenose che il custode deve addormentarle col gas ogni volta che apre la gabbia per dar loro da mangiare o per prenderne una.
In cantina si trovano numerose gabbie piene di topi bianchi e neri, topi speciali, addomesticati. Mangiano palline di cibo versate da una piccola tramoggia e bevono da bottigliette fornite di contagocce. l loro nidi di carta masticata sono pieni di topolini rossi e implumi. Si rincorrono l’un l’altro, dormono ammucchiati e si annusano con i loro nasi frementi. Il custode dice che se nella gabbia viene messo un topo sconosciuto gli altri lo uccidono a morsi.
La cantina ha un forte odore di escrementi di topo, un odore che si diffonde in tutto l’edificio affievolendosi più in alto, dove si mescola con quello del detersivo verde usato per pulire i pavimenti e con altri odori, quelli della cera per pavimenti e per mobili, della formaldeide e dei serpenti.
Niente di ciò che si trova nell’istituto ci sembra ripugnante. La visione generale, se non il dettaglio, ci è familiare, anche se non abbiamo mai visto prima tanti topi in un solo posto e siamo un po’ disturbati dal loro numero e dall’odore. Ci piacerebbe prendere le tartarughe della vasca e giocare con loro, ma sono tartarughe che mordono, aggressive, potrebbero staccarci un dito, quindi sappiamo che non si deve tentare. Mio fratello vorrebbe uno degli occhi di bue delle bottigliette: è una di quelle cose che agli altri ragazzi farebbero impressione.
Alcune sale ai piani superiori sono laboratori con ampi soffitti e lavagne sulle pareti. Contengono file e file di grandi banchi scuri, più simili a tavoli che a scrivanie, con alti sgabelli per sedere. Ogni banco ha due lampade con schermi verdi di vetro e due microscopi, vecchi microscopi con tubicini e una pesante intelaiatura di ottone.
Di microscopi ne abbiamo già visti, ma mai così tanti, e passa un sacco di tempo prima che ci stanchiamo. A volte ci danno qualche vetrino da vedere: sono ali di farfalle, sezioni di vermi, planarie tinte di rosa e di rosso per poterne vedere le diverse parti. Altre volte mettiamo le dita sotto le lenti per osservarci le unghie, le lunette più chiare e curve come colline sullo sfondo di un cielo roseo più scuro, e la pelle tutt’intorno granulosa e frastagliata come l’orizzonte di un deserto. Oppure strappiamo un capello per esaminarlo, duro e lucente come i peli che crescono sulla pelle chitinosa degli insetti, con le radici simili a minuscoli bulbi di cipolla.
Ci piace osservare le croste. Ce le togliamo (sotto il microscopio non c’è spazio sufficiente per tutto un braccio o una gamba) e portiamo al massimo l’ingrandimento. Le croste assomigliano a rocce irregolari coperte da una patina lucida simile a silice, oppure a qualche sorta di fungo. Se riusciamo a toglierci una crosta da un dito, lo mettiamo sotto il microscopio e osserviamo il punto dove esce il sangue, un tondino rosso vivo simile a una bacca. Poi ci lecchiamo il sangue. Osserviamo il cerume delle orecchie, il muco del naso e lo sporco tra le dita dei piedi dopo esserci assicurati che nessuno ci veda perché sappiamo, senza averlo chiesto, che queste cose non sarebbero approvate. La nostra curiosità deve avere un limite, che pure non è mai stato definito precisamente.
È questo che facciamo il sabato mattina, mentre nostro padre sbriga qualche lavoro in ufficio e la mamma va a fare spese. Dice che così le stiamo lontano dai piedi.
L’edificio si affaccia su University Avenue, dove si vedono dei prati e alcune statue di uomini a cavallo color verderame. Oltre la strada c’è il palazzo del Parlamento dell’Ontario, anch’esso antico e austero. Penso che debba essere un palazzo come quello di zoologia, pieno di lunghi corridoi scricchiolanti e di ripiani con lucertole e occhi di bue sotto spirito.
È dall’istituto che vediamo la nostra prima sfilata di Babbo Natale. Non ne avevamo mai viste, di sfilate. Si può ascoltare la cronaca di questa sfilata alla radio, ma per vederla è necessario infagottarsi negli abiti invernali e attendere sul marciapiede, battendo i piedi e fregandosi le mani per riscaldarle. Alcuni salgono sulle statue equestri per vedere meglio. Ma per noi non è necessario, perché possiamo affacciarci sul davanzale delle finestre di uno dei laboratori dell’istituto, protetti da un pannello di vetro polveroso, con le vampate di calore dei termosifoni che ci salgono su per le gambe.
Da qui vediamo sfilare le persone vestite da fiocchi di neve, da folletti, da conigli, da fate dei boschi, stranamente appiattite perché le osserviamo dall’alto. Sfilano bande di zampognari in kilt e strane cose simili a grandi torte su ruote, sulle quali sono sedute persone che salutano con la mano. Ha iniziato a piovigginare, laggiù, e tutti sembrano infreddoliti.
Babbo Natale compare alla fine, più piccolo di quanto pensassi. La sua voce e il suono dei campanellini, trasmessi dall’altoparlante, sono attutiti dal vetro polveroso. Dondola avanti e indietro sulla slitta legata a una renna meccanica, bagnato fradicio, e manda baci alla folla.
So che non è il vero Babbo Natale, ma qualcuno vestito come lui. Eppure la mia idea di Babbo Natale è cambiata, ha acquistato una nuova dimensione. Da allora mi è diventato difficile immaginarlo senza pensare anche ai serpenti, alle tartarughe, agli occhi sotto spirito, alle lucertole che galleggiano nelle loro bottigliette gialle e a quell’odore diffuso, suggestivo, aromatico, antico e perduto ma anche rassicurante, di legno vecchio, di lucido per mobili, di formaldeide e di topi lontani.