Ci sono giorni in cui quasi non ce la faccio ad alzarmi dal letto. Fatico persino a parlare. Misuro un passo dopo l’altro, anche fino al gabinetto, e questi passi sono grandi imprese. Devo concentrarmi per togliere il tappo del dentifricio, per sollevare lo spazzolino fino alla bocca; faccio fatica ad alzare il braccio anche per compiere questo gesto. Mi sembra di non valere niente, di non fare niente che abbia qualche valore, tanto meno per me stessa.
«Che cos’hai da dire a tua discolpa?» domandava Cordelia. «Niente» rispondevo. Era una parola che ho finito per associare a me stessa, come se io non fossi niente, come se intorno non ci fosse niente.
La notte scorsa ho sentito l’avvicinarsi del niente. Non proprio vicino ma per strada, come un frullio d’ali, come il raffreddamento del vento, come quel lieve strappo iniziale del risucchio di un’onda. Avevo voglia di parlare con Ben. Gli ho telefonato a casa ma era fuori, la segreteria telefonica era in funzione. Era la mia voce quella che ho sentito, allegra e sicura di sé: «Salve. Ben e io non possiamo rispondere al telefono, ma lasciate un messaggio e vi richiameremo appena possibile». Poi un bip.
Una voce disincarnata, angelica, che si librava nell’aria. Se fossi morta in quel momento, avrebbe continuato a parlare, placida e sollecita come un aldilà elettronico. Nel sentirla mi è venuta voglia di piangere.
«Bacioni» ho detto nel vuoto. Ho chiuso gli occhi, pensando alle montagne sulla costa. Quella è casa mia, mi sono detta, è li che vivo. In mezzo a quello scenario cinematografico, troppo bello, come lo sfondo di cartone nella scena di un film. Non è reale, non è abbastanza volgare, non è né piatto né banale quanto basta. Però stanno facendo qualcosa. A pochi chilometri da lì, a pochi chilometri da quella vista dalla finestra panoramica si arriva nella landa degli alberi tagliati.
Vancouver è la capitale dei suicidi. Si continua ad andare verso occidente, finché non si hanno più forze. Si arriva al bordo, poi si cade.
Mi trascino fuori dal piumone. Sono molto impegnata, in teoria. Ci sono cose da fare, anche se non ce n’è una che abbia voglia di fare. Ispeziono il frigorifero nel cucinino, tiro fuori un uovo e lo faccio bollire, lo metto in una tazzina da tè e lo rompo. Non la guardo nemmeno, quella tisana. Vado subito al caffè vero, comune. Lo verso nervosamente in una tazzina. È una sensazione di piacere, sapere che presto sarò più tesa.
Cammino tra braccia tagliate e piedi vuoti, e intanto bevo quella roba nera. Mi piace questo studio, potrei lavorarci. Per me ha la giusta quantità di disordine e d’improvvisazione. Le cose che vanno in pezzi mi stimolano: comunque sia, io sono più in forma di loro.
Oggi siamo in sospeso. È una scadenza disgraziata.
Mi infilo nei vestiti, porgendo gambe e braccia come se appartenessero a qualcun altro, una persona non molto grande né in gran forma. Oggi tocca ancora alla tuta grigiazzurra, non porto mai con me molti indumenti. Non mi piace fare le valigie, preferisco infilare tutto sotto il sedile dell’aereo. Ho inconsciamente l’idea che se dovesse succedere qualcosa, lassù in cielo, potrò sempre prendere la mia borsa sotto al sedile e saltare fuori dal finestrino, con eleganza, senza lasciare dietro nessuna delle mie cose.
Metto la testa fuori e m’incammino rapidamente per strada, la bocca lievemente dischiusa, ripetendo mentalmente il ritornello: ‘State allegri con l’Allegra Banda’. Una volta facevo jogging, ma fa male alle ginocchia. Troppo carotene fa diventare arancioni, troppo calcio fa venire i calcoli. La salute uccide.
Toronto non è più deserta, anzi, ora è piena come un uovo. Toronto sta gonfiandosi mortalmente, questo è chiaro. Il traffico è stupefacente, le auto strombazzano e arrancano, arrivano in mezzo agli incroci e quando cambia il semaforo rimangono lì ferme. Sono contenta di essere a piedi. Tutti gli edifici davanti ai quali passo tra i magazzini sembrano gridare: ‘Restauratemi!’. La prima volta che nella rubrica degli annunci immobiliari ho letto la parola ‘restauri’ ho pensato che si riferisse a dei mobili antichi. Il linguaggio mi sta tagliando fuori.
Arrivo all’angolo tra King e Spadina, in direzione nord. Era questo il posto in cui si andava un tempo per i saldi d’abbigliamento, e lo è ancora, ma le vecchie botteghe ebraiche stanno scomparendo, sostituite da empori cinesi che vendono mobili di vimini, tovaglie ricamate, zufoli di bambù. Certe targhette con il nome della strada hanno i sottotitoli in cinese, come impone questa multicultura; altre portano la scritta ‘Quartiere della moda’ sotto il nome. Tutto è diventato ‘quartiere’, adesso; un tempo non ce n’era nemmeno uno.
Mi viene in mente che ho bisogno di un abito nuovo per l’inaugurazione della mostra. Ne ho portato uno con me, naturalmente, e l’ho già stirato col ferro da viaggio, sgombrando un angolo del tavolo da lavoro di Jon per usarlo come asse da stiro e stendendoci sopra un panno. Questo vestito è nero, perché il nero è il colore migliore per queste occasioni: un semplice e sobrio abito nero, come quello delle violoncelliste nelle orchestre sinfoniche. È controproducente essere più eleganti dei clienti.
Ma ora il pensiero di questo abito mi deprime. II nero attira la polvere, e ho dimenticato la spazzola per i vestiti. Ricordo le pubblicità dei rotoli di carta adesiva Scotch, negli anni Quaranta: mummificatevi la mano con la carta biadesiva Scotch, vi toglierete la peluria dai vestiti. Mi immagino lì, nella galleria, circondata da modelli unici di boutique e da perle vere, con quell’abito vedovile e impolverato sul quale non è passato il nastro della Scotch. Esistono altri colori: il rosa per esempio, che dovrebbe addolcire i nemici, accattivarseli, ed è per questo che viene usato dalle bambine. È strano che i militari non abbiano adottato questo espediente: elmetti rosa pallido, con roselline, un intero battaglione vestito in rosa che sbarca, che conquista la cima di una montagna. È arrivato il momento di cambiare: un po’ di rosa potrei mettermelo fin d’ora.
Passo davanti alle vetrine dei saldi. Sono come altari, ognuno illuminato dall’interno con la sua divinità in mostra, la mano sull’anca o una gamba protesa in avanti, le facce rosee e impenetrabili. Gli abiti da sera sono ritornati di moda, con nastri e balze, scollature e crinoline, maniche a sbuffo come fiori di stoffa: tutte cose che pensavo abbandonate per sempre. E anche le minigonne, brutte come sempre, ma queste le ho già eliminate. Non mi piacevano nemmeno allora: mostravano troppo le mutande. Non riesco a portare cose arruffate, che mi fanno sembrare un cavolfiore, e nemmeno quelle scollate, con il mio collo lungo e magro e i gomiti ossuti. Mi ci vuole qualcosa di verticale, magari con qualche piega.
Mi attira un’insegna con la scritta SALDI. Il negozio si chiama The Sleek Boutique, anche se in realtà non si tratta di una boutique: è zeppa di capi di fine stagione e le novità scarseggiano. Il negozio è affollato, il che mi piace. Le commesse dei negozi mi intimidiscono, non mi piace essere guardata quando faccio compere. Frugo furtivamente tra gli abiti in saldo scartando lustrini, rose d’angora, fili dorati, sudici pellami bianchi, e intanto cerco qualcosa. Quello che vorrei è trasformarmi, ma la cosa diventa sempre meno fattibile. Camuffarsi è più facile da giovani.
Porto tre cose nel camerino di prova: una color salmone con pallini bianchi grandi come una moneta, una blu elettrico con aggiunte di raso e, per maggior sicurezza, qualcosa di nero, nel caso che il resto non vada bene. Il capo color salmone mi piace proprio, ma come mi andranno i pallini? Me lo infilo, chiudo la cerniera e lo aggancio, mi volto da questa e da quella parte davanti allo specchio, che come al solito è male illuminato. Se lo gestissi io, un negozio come questo, farei dipingere di rosa tutti i camerini e investirei un po’ di soldi negli specchi: qualsiasi cosa voglia vedere una donna non è se stessa, non nella luce sbagliata comunque.
Allungo il collo nel tentativo di vedermi da dietro. Potrebbe andare, con scarpe diverse o con altri orecchini? Il cartellino del prezzo penzola giù, indicando il mio fondoschiena. I pallini si allargano su una vasta distesa. È strano come, visto da dietro, uno sembri sempre più grande. Forse perché i diversivi che interrompono la vasta monotonia di colline e pianure sono ormai pochi.
Quando mi volto vedo la mia borsetta sul pavimento, dove l’ho posata; dopo tanti anni dovrei essere più furba. La borsetta è aperta. La parete del camerino è a un palmo da terra, e in questo varco si sta ritirando silenziosamente un braccio con una mano che stringe il mio portafoglio. Le unghie sono dipinte di un verde fluorescente.
Calo pesantemente il mio piede scalzo su quel polso. Sento un gridolino, poi più voci che ridacchiano: sono ragazze in cerca di avventure, studentesse a caccia di refurtiva. Il portafoglio cade per terra, la mano si ritira come un tentacolo.
Apro di scatto la porta. ‘Maledizione a te, Cordelia’ penso.
Ma Cordelia è scomparsa da un pezzo.