Ci mandano a una scuola piuttosto distante, al di là di un cimitero e di una scarpata, lungo un’ampia strada tortuosa sulla quale sono allineate vecchie case. Si chiama Scuola Privata Queen Mary. Al mattino, attraversando il fango ghiacciato con le nostre nuove soprascarpe invernali e con i sacchetti di carta della colazione, arriviamo attraverso i resti di un orto alla più vicina strada asfaltata, dove attendiamo che giunga il traballante bus della scuola che si inerpica su per la collina, evitando le buche della strada. Indosso la mia nuova tuta da neve, con la gonna avvolta intorno alle gambe e infilata dentro i pantaloni rigonfi della tuta, che si strofinano quando cammino. A scuola coi pantaloni non si può andare, è obbligatoria la gonna. Non sono abituata a questo e neppure a stare seduta ferma al banco.
Pranziamo nel gelido e buio scantinato della scuola, dove sediamo in fila, sorvegliate, su lunghe e logore panche di legno, sotto una ragnatela di tubazioni per il riscaldamento. La maggior parte dei ragazzi torna a casa per l’ora di pranzo; sono soltanto quelli che vengono col bus che devono rimanere. Ci vengono distribuite bottigliette di latte, che beviamo con la cannuccia attraverso un buco nel coperchio di cartone. È la prima volta che bevo con la cannuccia, e la cosa mi stupisce.
L’edificio della scuola è vecchio e alto, fatto di mattoni color marroncino, con alti soffitti, lunghi e lugubri corridoi dal pavimento di legno e termosifoni accesi al massimo oppure spenti del tutto: così o si rabbrividisce di freddo oppure fa troppo caldo. Le finestre alte e strette, con molte lastre di vetro, sono decorate con ritagli di carta, e ora che è inverno con fiocchi di neve. L’ingresso principale non viene mai usato dai ragazzi. Sul retro dell’edificio ci sono due imponenti entrate decorate con sculture e con elaborate insegne sopra la porta, dove è scritto con solenni caratteri gotici MASCHI e FEMMINE. Quando l’insegnante fa suonare la sua campanella d’ottone in cortile, ogni classe deve mettersi in fila per due, le ragazze da una parte e i ragazzi dall’altra, e sfilare attraverso una delle due porte. Le ragazze si tengono per mano, i ragazzi no. Se si entra dalla porta sbagliata si viene puniti con la frusta, o almeno così dicono.
Mi incuriosisce molto la porta dei ragazzi. Che effetto farà a un ragazzo entrare attraverso una porta diversa? E che cosa c’è lì dentro da far meritare le frustate solo per il fatto di averlo visto? Mio fratello dice che non c’è niente di speciale nelle scale all’interno, sono semplici scale come tutte le altre. I ragazzi non hanno classi diverse, sono insieme a noi. Entrano dall’ingresso MASCHI per poi finire nel nostro stesso posto. Capisco che i ragazzi abbiano i loro gabinetti, perché fanno pipì in modo diverso, e anche il loro cortile, perché fanno sempre a pugni e a calci. Ma è la porta che non capisco. Mi piacerebbe molto dare un’occhiata all’interno.
Come gli ingressi dei ragazzi e delle ragazze, anche le parti del cortile della scuola sono separate. Sul davanti, di fronte all’ingresso degli insegnanti, c’è un campo di terra battuta coperto di cenere, il campo giochi dei ragazzi. Sul lato della scuola di fronte alla strada c’è una collinetta con gradini di legno e rigagnoli erosi dall’acqua lungo un fianco, oltre a qualche rachitico sempreverde in cima. Per tradizione questo posto è riservato alle ragazze, e le più grandi stanno lì intorno in gruppetti di tre o quattro, confabulando tra loro a capo chino, ma talvolta i ragazzi si lanciano all’attacco della collina, gridando e agitando le braccia. Lo spiazzo di cemento davanti a MASCHI e FEMMINE è territorio comune, poiché per raggiungere la loro porta i ragazzi devono per forza attraversarlo.
Il momento in cui ci mettiamo in fila è l’unico in cui vedo mio fratello a scuola. A casa ci siamo attrezzati con un walkie-talkie ricavato da due lattine e da un pezzo di spago, che corre tra le due finestre delle nostre camere da letto ma non funziona molto bene. Ci lasciamo messaggi sotto la porta, scritti nel linguaggio criptico degli alieni, pieno di X e di Z, che deve essere decodificato. Ci diamo gomitate e calci sotto la tavola, mantenendoci impassibili sopra la tovaglia; talvolta ci leghiamo insieme i lacci delle scarpe per lanciarci dei segnali. Queste sono le principali vie di comunicazione con mio fratello, adesso: parole gracchianti trasmesse attraverso le lattine, frasi senza vocali, l’alfabeto Morse dei piedi.
Durante il giorno, però, lo perdo di vista non appena usciamo di casa. Lui corre avanti, lancia palle di neve e sull’autobus rimane indietro, in mezzo a una chiassosa compagnia di ragazzi più grandi. Dopo la scuola, e dopo le zuffe che sono d’obbligo per tutti i ragazzi nuovi in qualsiasi scuola, prende parte alla guerra contro i ragazzi della vicina scuola cattolica. Si chiama Nostra Signora del Perpetuo Soccorso, ma i ragazzi della nostra scuola l’hanno ribattezzata Nostra Signora del Perpetuo Inferno. Si dice che i ragazzi di questa scuola cattolica siano dei veri duri e che nascondano pietre dentro le palle di neve.
So bene che non è il caso di parlare con mio fratello in questi momenti, né di richiamare l’attenzione sua o di altri ragazzi. I ragazzi vengono presi in giro quando hanno sorelle minori, una sorella qualsiasi o una madre; è come indossare un abito nuovo. Quando si mette qualcosa di nuovo, mio fratello si sporca non appena possibile per evitare di farsi notare, e se deve andare in qualche posto con me e con mia madre cammina davanti a noi, oppure sull’altro lato della strada. Se lo prendono in giro per causa mia, dovrà ficcarsi in qualche altra zuffa. Sarebbe sleale se gli parlassi o se anche lo chiamassi per nome; lo so bene, e cerco di fare del mio meglio.
Quindi devo rimanere con le bambine, bambine vere finalmente, in carne e ossa. Ma a loro non sono abituata, non ne conosco le usanze. Con loro mi sento imbarazzata, non so cosa dire. Conosco le tacite regole dei ragazzi, ma con le ragazze ho sempre la sensazione di stare per compiere qualche imprevedibile e fatale errore.
Una bambina che si chiama Carol Campbell fa amicizia con me. In un certo senso vi è costretta, perché sul bus è l’unica ragazza della mia classe. I ragazzi che vanno a scuola col bus, che mangiano la colazione nello scantinato anziché ritornare a casa, sono considerati quasi come stranieri e quando squilla la campanella e arriva il momento di mettersi in fila corrono il rischio di trovarsi senza compagni. E così Carol siede accanto a me sul bus della scuola, mi tiene per mano quando siamo in fila, mi parla nell’orecchio, fa colazione accanto a me sulla panca di legno nello scantinato.
Carol abita in una delle vecchie case al di là dell’orto abbandonato, più vicino alla scuola, una casa di mattoni gialli a due piani con imposte verdi alle finestre. È una bambina tozza; ride frequentemente. Mi dice che i suoi capelli sono color miele, che il suo taglio di capelli è chiamato alla paggetto, che deve andare dal parrucchiere ogni due mesi per farseli accorciare. Io non ho mai saputo che esistessero parrucchieri e pettinature alla paggetto. Mia madre non va mai dal parrucchiere. Porta i capelli lunghi, puntati sulle tempie, come le donne nei manifesti del tempo di guerra, e anche i miei capelli non sono stati mai tagliati.
Carol e la sorella minore si vestono uguali, la domenica: cappotti di tweed marrone col bavero di velluto, cappelli rotondi di velluto marrone con l’elastico sotto il mento per tenerli fermi, guanti marroni e piccole borsette marroni. È lei che mi racconta tutto questo. Sono anglicani. Mi chiede quale chiesa frequento, e le rispondo che non lo so. In realtà noi non andiamo mai in chiesa.
Dopo la scuola, Carol e io ritorniamo insieme a casa, ma non per la strada che fa il bus il mattino; ne facciamo una diversa, attraverso sentieri e poi lungo un malandato ponte di legno sopra la scarpata. Ci hanno detto di non farla da sole questa strada, e di non scendere mai sole nella scarpata perché li, come mi spiega Carol, potrebbero esserci degli uomini. Non sono uomini come tutti gli altri; sono uomini diversi, sconosciuti, senza nome, che fanno delle cose alle bambine. Sorride e abbassa la voce, quando dice ‘uomini’, come se si trattasse di una battuta particolare, emozionante. Attraversiamo il ponte con passo leggero, evitando le assi marce e guardandoci intorno per vedere se ci sono degli uomini.
Carol mi invita a casa sua, dopo la scuola, e mi mostra l’armadio con tutti i suoi vestiti appesi. Ha un mucchio di abiti e di gonne, e perfino una vestaglia con pantofole di pelo dello stesso colore. Non ho mai visto tanti abiti da bambina in uno stesso posto.
Mi fa guardare il soggiorno di casa sua dalla porta, perché non abbiamo il permesso di entrare. Nemmeno lei può entrarci, se non quando si esercita al piano. Nel soggiorno ci sono un divano e due poltrone, con tende dello stesso colore, di una stoffa a fiori rosa e marrone che Carol dice essere chintz. Pronuncia questa parola con riverenza, come se fosse il nome di qualcosa di sacro, e io lo ripeto silenziosamente tra me: ‘chintz’. Sembra il nome di un tipo di gambero, oppure di qualche alieno del lontano pianeta di mio fratello.
Carol mi racconta che il suo insegnante di piano, se fa qualche nota sbagliata, le dà delle bacchettate sulle dita, e che sua madre la sculaccia col dorso di una spazzola oppure con una ciabatta. Quando se le merita davvero, deve aspettare che ritorni a casa suo padre, il quale la picchia con la cintura dei pantaloni sul culo nudo. Tutte queste cose devono rimanere segrete. Dice che sua madre canta in un programma radiofonico sotto falso nome, e in effetti ascoltiamo di nascosto la madre che si esercita a fare scale nel soggiorno, voce forte ma tremante. Dice anche che suo padre si toglie i denti la notte e li mette in un bicchiere d’acqua accanto al letto. Mi mostra il bicchiere, anche se dentro non ci sono i denti. Sembra che non ci sia niente che non racconti.
Mi racconta quali ragazzi a scuola sono innamorati di lei, facendomi promettere di non parlarne. Mi chiede quali sono innamorati di me. Non ci ho mai pensato, ma capisco che si aspetta una risposta. Le dico che non ne sono sicura.
Quando viene a casa mia, Carol nota tutto: le pareti non dipinte, i fili che pendono dal soffitto, i pavimenti ancora da finire, le brandine militari, e con un sorriso incredulo mi domanda: «È qui che dormi?» «Mangi davvero qui? Questi sono i tuoi vestiti?». I miei vestiti, che non sono molti, sono perlopiù calzoncini e magliette di jersey. Ho due vestiti, uno per l’estate e uno per l’inverno, una tunichetta e una gonna di lana per la scuola. Comincio a sospettare che forse ne siano necessari altri.
Carol racconta a tutti, a scuola, che la nostra famiglia dorme per terra, dando l’impressione che lo facciamo di proposito perché veniamo da fuori città, che questa è una nostra abitudine. Rimane delusa quando dal magazzino arrivano i nostri letti veri, con quattro gambe e i materassi come tutti gli altri. Racconta in giro che io non so in quale chiesa vado e che mangiamo su un tavolino da gioco. Non racconta queste storie con aria sprezzante, ma come se si trattasse di bizzarria esotica. Dopo tutto sono la sua compagna di fila, e vuole che gli altri si stupiscano di me. Più precisamente, vuole che gli altri si stupiscano di lei perché racconta queste cose fantastiche. È come se raccontasse le stravaganti tradizioni di qualche tribù primitiva: cose vere, ma incredibili.