Un sabato portiamo con noi all’istituto Carol Campbell. Mentre stiamo entrando lei domanda, arricciando il naso: «È qui che lavora tuo padre?». Quando le mostriamo i serpenti e le tartarughe, fa un verso che suona ‘Ihi!’ e dice che non li toccherebbe mai. Questo mi sorprende, perché nel mio caso reazioni simili sono state così a lungo scoraggiate che ora non ne ho più, e nemmeno Stephen. Non sono molte le cose che non toccheremmo, se ce ne fosse l’occasione.
Ho l’impressione che Carol Campbell sia una schifiltosa, ma al contempo mi accorgo di essere un po’ orgogliosa, di queste sue arie raffinate. Mio fratello la guarda in modo strano: con disprezzo, in verità, e se io dicessi qualcosa del genere mi prenderebbe in giro. Però c’è anche una sfumatura, come un tacito assenso, quasi si fosse verificato qualcosa che lui sospettava.
Normalmente la ignorerebbe dopo un simile episodio, ma la mette ancora alla prova con le bottiglie delle lucertole e degli occhi di bue. «Ihi!» strilla di nuovo lei. «E se te ne mettessero una nella schiena?» Mio fratello, come masticando e leccandosi i baffi, le domanda se le piacerebbe mangiarne una a cena.
«Ihi!» strilla Carol, facendo una smorfia e contorcendosi tutta. Non posso far finta anch’io di essere disgustata: mio fratello non ci crederebbe. Ma non posso nemmeno unirmi a questo gioco di inventare cibi rivoltanti, come panini imbottiti con rospi o chewing gum di sanguisughe, anche se non ci penserei un attimo se fossimo soli o in compagnia di altri ragazzi. E così non dico niente.
Quando usciamo dall’istituto, vado di nuovo in casa di Carol. Mi chiede se voglio vedere il nuovo ‘twin set’ di sua madre. Non so che cosa sia, ma mi sembra interessante e allora acconsento. Mi porta furtivamente nella camera da letto di sua madre, dicendomi che se ci beccano se la passerà brutta, e mi mostra il twin set, piegato su un ripiano. Il twin set consiste semplicemente di due golf dello stesso colore, uno con i bottoni davanti, l’altro senza. Ho già visto la signora Campbell portare un altro twin set color beige, i seni prominenti e il golfino con i bottoni buttato sulle spalle come uno scialle. Tutto qui, allora, un twin set. Sono un po’ delusa perché mi aspettavo qualcosa che avesse a che fare con dei veri gemelli.
Il padre e la madre di Carol non dormono insieme in un grande letto, come i miei genitori, ma in due lettini esattamente uguali, con copriletti uguali di ciniglia rosa e tavolini da notte uguali. Sono chiamati letti gemelli. Però è strano immaginare il signore e la signora Campbell distesi in quei letti la notte, con le loro teste diverse, lui con i baffi, lei senza, ma nondimeno gemelli, identici sotto le lenzuola e le coperte. A darmi questa impressione sono le coppie di coperte da letto, di tavolini da notte, di lampade, di cassettoni, l’accoppiamento di tutto ciò che è nella loro stanza. La camera dei miei genitori è meno simmetrica, e anche meno ordinata.
Carol dice che sua madre, quando lava i piatti, si mette i guanti di gomma. Mi mostra i guanti di gomma e una cosa che crea un getto d’acqua, attaccata al rubinetto del lavandino. Apre il rubinetto, spruzza dentro e per sbaglio un po’ anche sul pavimento, finché arriva la signora Campbell, con indosso il twin set color beige, fa una smorfia e dice che è meglio se andiamo a giocare di sopra. Forse non sta facendo una smorfia. Ha la bocca inclinata leggermente in giù, anche quando sorride, e perciò è difficile sapere quando è contenta e quando no. Ha i capelli dello stesso colore di quelli di Carol, ma ondulati su tutta la testa. È Carol a farmi notare che sono ondulati. Questa ondulazione non ha niente a che vedere con l’acqua, è come quella dei capelli delle bambole, molto ordinata e regolare, quasi ce l’avessero cucita.
Più rimango sconcertata, più Carol è compiaciuta. «Davvero non sapevi che cos’è la permanente?» mi domanda divertita. È ansiosa di spiegarmi le cose, di dar loro un nome, di mostrarmele. Mi fa vedere la casa come se fosse un museo, come se fosse stata lei personalmente a raccogliere tutto ciò che vi è dentro. Nell’ingresso al piano di sotto, dove c’è un attaccapanni, mi domanda: «Non hai mai visto un attaccapanni?» e mi dice che sono la sua migliore amica.
Carol ha un’altra amica, che qualche volta è la sua migliore amica e altre volte no. Si chiama Grace Smeath, e Carol me la mostra sul bus, come mi ha mostrato il twin set e l’attaccapanni: un oggetto da ammirare.
Grace Smeath ha un anno più di noi e frequenta una classe più avanti. A scuola gioca con le altre della sua classe, ma dopo la scuola e al sabato gioca con Carol. Non ci sono ragazze nella sua classe che abitino dalla nostra parte della scarpata.
Grace vive in una casa a due piani di mattoni rossi, simile a una scatola di scarpe con un porticato sul davanti, sorretto da due grosse colonne rotonde e bianche. È più alta di Carol, ha capelli scuri e folti che finiscono in due trecce e una carnagione molto chiara, come sotto il costume da bagno; è coperta di lentiggini. Porta gli occhiali e di solito indossa una gonna grigia con le bretelle e un golfino rosso con palline di lana. I suoi abiti trattengono vagamente l’odore di casa Smeath, un miscuglio di polvere diffusa, di rape bollite e di biancheria un po’ ammuffita, di terra sotto il porticato. La trovo molto bella.
Al sabato non vado più all’istituto ma gioco con Carol e con Grace. È inverno, e giochiamo quasi sempre in casa. Giocare con le bambine è diverso e all’inizio mi dà una strana sensazione d’imbarazzo, come se facessi soltanto l’imitazione di una bambina. Ma ben presto mi ci abituo.
I nostri giochi sono perlopiù idee di Grace, perché se vogliamo fare qualche gioco che non le piace, lei dice che ha mal di testa e ritorna a casa, oppare ci dice di andare noi a casa nostra. Non alza mai la voce, non s’arrabbia, non piange: usa un tono pacato di rimprovero, come se il mal di testa fosse colpa nostra. Siccome siamo noi che vogliamo giocare con lei più di quanto lei con noi, ad averla vinta è sempre lei.
Coloriamo gli album di attrici di Grace che mostrano le dive in diversi abbigliamenti, intente a fare cose diverse: portare a spasso il cane, andare in barca vestite alla marinara, danzare in abito da sera ai ricevimenti. L’attrice preferita di Grace è Esther Williams. Io non ho un’attrice preferita perché non ho mai visto un film, ma dico che è Veronica Lake perché mi piace il nome. L’album di Veronica Lake è fatto di figure da ritagliare: Veronica Lake in costume da bagno e decine di vestiti che le si possono attaccare addosso con linguette che vanno piegate intorno al collo. Grace non ci permette di ritagliare i vestiti, anche se possiamo metterli e toglierli dopo che li ha tagliati lei, però ci lascia usare i suoi album da colorare, purché si stia dentro le linee. Le piace vedere questi album tutti colorati; ci dice lei quali colori usare e per quali parti. So bene cosa farebbe mio fratello: pelle verde per Esther, antenne da insetto e otto gambe pelose a Veronica. Io però, evito. E comunque i vestiti mi piacciono.
Giochiamo anche alla scuola. In cantina Grace ha un paio di sedie, un tavolo di legno e una piccola lavagna col gesso. Tutto ciò si trova sotto le corde per stendere gli abiti ad asciugare, che gli Smeath usano quando piove o quando nevica. La cantina non è ancora terminata: il pavimento è di cemento, i pilastri che sorreggono la casa di mattoni, le condutture dell’acqua e i fili volanti, e l’aria sa di polvere di carbone perché il bidone del carbone è proprio dietro la lavagna.
Grace fa sempre la maestra, Carol e io le allieve. Dobbiamo fare esercizi di pronuncia e di aritmetica: è come la scuola vera, anzi peggio, perché qui non disegniamo mai, e nemmeno possiamo fingere di essere cattive perché a Grace il disordine non piace.
Oppure andiamo a sedere sul pavimento della camera di Grace con mucchi di vecchi ‘Cataloghi Eaton’. Ne ho già visti molti, di questi cataloghi, perché su nel nord erano appesi nei gabinetti, con la funzione di carta igienica. I ‘Cataloghi Eaton’ mi ricordano la puzza di quei gabinetti, il ronzio delle mosche nel buco di sotto, la scatola della calcina e il bastone di legno per spingere giù la calcina sui mucchi di vecchi e recenti escrementi, in ogni forma e tonalità di marrone. Ma qui li usiamo con rispetto, questi cataloghi; ritagliamo le figurine colorate e le incolliamo sui nostri album. Ritagliamo anche altre figure, cose di cucina, mobili, e le incolliamo intorno alle persone. Queste persone sono sempre donne, che chiamiamo ‘la mia signora’. «La mia signora prenderà questo frigorifero» diciamo. «La mia signora comprerà questo tappeto», «questo è l’ombrello della mia signora.»
Grace e Carol guardano le pagine dell’album dell’altra e si dicono: «Oh, il tuo è così bello. Il mio non è così bello, il mio fa schifo» e lo dicono ogni volta che facciamo questo gioco. Hanno voci affettate, false, e si capisce che non lo dicono sul serio perché ognuna è convinta che la propria signora incollata sulle pagine sia la migliore. Ma è questo che si deve dire, e comincio a dirlo anch’io.
Lo trovo stancante, questo gioco: è il peso, l’accumulo di tutte queste cose, di questi averi cui bisogna badare, che devono essere imballati, caricati sull’auto e poi sballati. Io me ne intendo di traslochi, mentre Carol e Grace non ne hanno mai fatti. Le loro signore abitano ognuna a casa propria e hanno sempre vissuto lì. Possono aggiungere sempre qualcosa, riempire le pagine del loro album di ritagli con sale da pranzo, letti, mucchi di asciugamani, servizi di piatti uno dopo l’altro; possono non darsene pensiero.
Inizio a desiderare cose che non ho mai desiderato prima: le trecce, una vestaglia, una borsetta. Qualcosa si sta aprendo davanti a me, una rivelazione. Vedo che esiste tutto un mondo di ragazze e di loro cose che non conoscevo, del quale posso far parte senza alcuno sforzo. Non devo più tenere testa a qualcun altro, correre altrettanto velocemente, saper mirare come lui, fare rumori di esplosioni, decifrare messaggi, fingere di morire a un cenno. Non devo più preoccuparmi se le ho fatte bene, queste cose, bene come un maschio. Non devo far altro che sedermi sul pavimento, ritagliare con le forbici le padelle del ‘Catalogo Eaton’ e dire che l’ho fatto male. Anche questo è un sollievo.