A Natale Carol mi regala una bottiglia di sali da bagno ‘Giardino dell’Amicizia’ e Grace un album da colorare di Virginia Mayo. I loro regali li apro prima di tutti gli altri.
Ricevo anche un album per le foto in corredo alla macchina fotografica. Le pagine e la copertina sono nere, legate insieme con qualcosa che sembra un grosso laccio nero da scarpe, e c’è anche un pacchetto di triangoli neri per incollare le fotografie. Finora ho scattato soltanto un rullino con la mia macchina fotografica. Mentre premo il bottone penso a come verrà la fotografia. Non voglio sprecarne nessuna. Quando ritornano le fotografie dallo sviluppo, mi arrivano anche i negativi, che guardo in contro- luce. Tutto ciò che è bianco nella stampa appare nero nel negativo: la neve, per esempio, è nera, e così le pupille e i denti della gente.
Incollo le fotografie sull’album con i triangolini neri. Alcune inquadrature ritraggono mio fratello che fa gesti minacciosi con delle palle di neve. Ce ne sono di Carol e altre di Grace. Di me c’è soltanto quella in cui sono in piedi davanti alla porta numero nove del motel, molto tempo fa, un mese fa. Quella ragazzina sembra già molto più giovane, più povera e lontana, una versione di me rimpicciolita e ignorante.
Un altro regalo che ricevo a Natale è una borsetta rossa di plastica, ovale, con una fibbia dorata e il manico. In casa è morbida e pieghevole ma fuori, al freddo, s’indurisce, e le cose che contiene fanno rumore. Ci tengo dentro i miei cinque cents di mancia settimanale.
Ora abbiamo un pavimento di legno nel soggiorno, che mia madre lucida in ginocchio e lava con uno spazzolone dal lungo manico; spingendolo avanti e indietro fa un rumore che sembra quello delle onde. Il soggiorno è stato dipinto, gli impianti elettrici installati, e sono stati aggiunti anche i battiscopa. Ci sono perfino le tendine; tendaggi, li chiamano. Le parti della casa esposte, visibili, sono state terminate per prime.
Le nostre camere da letto sono ancora in condizioni molto precarie. Alle finestre mancano le tendine e quando sono distesa a letto, di notte, posso vedere fuori dalla finestra la neve che cade, illuminata dalla luce che esce dalla camera di mio fratello, accanto alla mia.
È il periodo più buio dell’anno. Anche durante il giorno sembra buio e la notte, quando le luci sono accese, l’oscurità pervade tutto come una nebbia. Fuori si vedono soltanto alcuni lampioni illuminati, distanti l’uno dall’altro e non molto luminosi. Le luci nelle case della gente gettano un alone giallastro, non freddo e verdastro ma di un giallo burroso e fioco, con una sfumatura di marrone.
Dentro le case gli oggetti hanno qualcosa di buio nei loro colori, un marrone scuro, un beige fungo, un verde smorzato, un rosa polveroso. Questi colori hanno un che di sporco, come quelli della tavolozza quando ci si dimentica di sciacquare il pennello.
Abbiamo un divano imbottito con braccioli, un fondo di magazzino davanti al quale è disteso un tappeto in stile orientale marrone e rosso porpora. Abbiamo una lampada a stelo con tre luci.
Di sera, sotto la lampada l’aria si coagula come senape raggrumata, e sedimenti più pesanti di luce si depositano negli angoli del soggiorno. La notte le tende sono tirate, pieghe e pieghe di stoffa chiuse davanti all’inverno, che accumulano quel chiarore fioco e pesante, trattenendolo all’interno.
Sotto questa luce distendo il giornale della sera sul lucido pavimento di legno, e appoggiandomi sui gomiti e sulle ginocchia leggo i fumetti. In questi giornali a fumetti ci sono personaggi con buchi rotondi al posto degli occhi, altri che riescono a ipnotizzarti all’istante, altri con identità segrete, e altri ancora che possono far assumere qualsiasi forma alla loro faccia. Intorno a me sento odore di inchiostro da stampa e di cera per pavimenti; il cassetto dell’armadio ha l’odore delle mie calze che pizzicano, mescolato a quello delle ginocchia sporche, l’odore caldo e ruvido delle coperte di lana e quello delle mutande di cotone, che sanno della cesta del gatto. Dietro a me, in attesa del notiziario delle sei, la radio trasmette vecchia musica da ballo dei Maritimes, di Don Messer and His Islanders. La radio è di legno scuro verniciato, con un solo occhio verde che si muove sul quadrante quando viene spostata la manopola. Tra una stazione e l’altra l’occhio lancia suoni misteriosi provenienti dallo spazio. Sono onde radio, mi dice Stephen.
Ora Grace Smeath mi invita spesso da lei dopo la scuola, e senza invitare Carol. Dice a Carol che c’è un motivo per cui non la invita: è per via di sua madre, che è stanca, così che di migliori amiche quel giorno Grace ne può invitare soltanto una.
La madre di Grace è malata di cuore. Carol ne farebbe un segreto, Grace no. Lo dice tranquillamente, educatamente, come se chiedesse di pulirsi le scarpe sullo zerbino, ma è anche compiaciuta, quasi avesse qualcosa, un privilegio, una superiorità morale che noi due non abbiamo. È lo stesso atteggiamento che mostra per la pianta di ficus sul pianerottolo delle scale. È l’unica pianta in casa di Grace e non abbiamo il permesso di toccarla. È molto vecchia e dev’essere pulita col latte, foglia per foglia. Il cuore della signora Smeath è qualcosa di simile, ed è a causa sua che dobbiamo camminare in punta di piedi, in silenzio, soffocare le risate, fare quello che dice Grace. I cuori malati devono essere trattati in un certo modo, questo lo capisco anch’io.
Il pomeriggio la signora Smeath deve riposarsi. Si riposa non in camera da letto, ma sul divano in soggiorno, distesa senza scarpe sotto una coperta afgana. La troviamo sempre così quando andiamo a giocare a casa sua dopo la scuola. Entriamo dalla porta laterale, saliamo i gradini della cucina il più silenziosamente possibile ed entriamo nella sala da pranzo, fino alla doppia porta-finestra, dove scrutiamo attraverso i pannelli di vetro per riuscire a vedere se ha gli occhi aperti oppure chiusi. Non è mai addormentata ma c’è sempre la possibilità, messaci in testa da Grace con quel suo approccio realistico, che un giorno o l’altro sarà morta.
La signora Smeath non è come la signora Campbell. Per esempio non ha twin set, anzi, li considera con disprezzo. Lo so perché una volta, quando Carol si vantava dei twin set di sua madre, la signora Smeath ha detto: «Davvero?» e non certo per fare una domanda ma per far tacere Carol. Non si mette rossetto né cipria, nemmeno quando esce. Ha ossa grosse e denti quadrati, così distanziati che è possibile vederli tutti distintamente, e una pelle talmente ruvida che pare l’abbia strofinata con la spazzola per le patate. La faccia è rotonda, insipida, con la stessa pelle bianca di Grace ma senza lentiggini. Anche lei porta gli occhiali come Grace, ma i suoi hanno la montatura metallica e non quella marrone. I capelli, spartiti a metà, ingrigiscono sulle tempie, e dietro alla testa sono intrecciati e acciambellati in una corona piatta in cui sono infilate delle forcine.
Indossa abiti da casa a disegni stampati, non soltanto il mattino ma quasi sempre. Sopra mette grembiuli con la pettorina che sprofondano sotto il seno e danno l’impressione che non abbia due tette ma una soltanto, un unico seno che le occupa tutto il davanti e scende fino a unirsi alla cintola. Porta calze di cotone con la cucitura che le fanno sembrare le gambe impagliate e cucite dietro. Le scarpe sono Oxford marroni. A volte indossa calzini corti di cotone sopra i quali si elevano gambe bianche e cosparse di peluria, come quella dei baffi delle donne. Ha anche i baffi ma non molto folti, soltanto una spruzzata di peli agli angoli della bocca. Sorride spesso, con le labbra chiuse sui larghi denti, ma al pari di Grace non ride mai.
Ha grosse mani con nocche vistose e arrossate dall’acqua. Ha molte cose da lavare perché Grace ha due sorelle minori che ereditano le sue camicette e le sue gonne usate, e a volte anche le mutande. Sono queste le mutande, logore e ingrigite dall’uso, appese ad asciugare su un filo sopra la nostra testa quando andiamo in cantina da Grace per giocare alla scuola.
A scuola, prima del giorno di San Valentino, dobbiamo ritagliare cuoricini di carta rossa e decorarli con pezzi di carta merlettata per appenderli sulle finestre alte e strette della scuola. Mentre ritaglio i miei cuori, penso al cuore malato della signora Smeath. Che cos’ha, esattamente? Me lo immagino nascosto sotto la coperta afgana e sotto la prominenza della pettorina del grembiule, mentre pompa nel buio carnoso dentro al suo corpo come qualcosa di proibito, di troppo intimo. Dovrebbe essere rosso, ma ha una chiazza rossastra più scura, come la parte marcia o ammaccata di una mela. Mi fa male, quando ci penso. Mi attraversa un brivido di dolore, come è successo quando ho visto mio fratello tagliarsi un dito con un pezzo di vetro. Ma un cuore malato è anche qualcosa di affascinante, una cosa diversa, deforme. Un tesoro terribile.
Giorno dopo giorno, premo il naso contro il vetro della portafinestra per vedere se la signora Smeath è ancora viva. È così che la vedrò per sempre: distesa immobile, come qualcosa in un museo, con la testa posata sulla capezziera del bracciolo del divano e un cuscino sotto il collo, la pianta del ficus sul pianerottolo che si vede alle sue spalle, lei che volge il capo per guardarci con quella faccia ruvida, senza occhiali, bianca e stranamente luminosa nella penombra, un fungo fosforescente. Ha dieci anni meno di quanti ne abbia io adesso. Perché la odio tanto? E perché mi interessa, in ogni caso, ciò che le passava per la testa?