La casa in costruzione, il prato di fango e la montagnola di terra lì accanto si allontanano alle nostre spalle; li guardo dal finestrino posteriore dell’auto, dove sono seduta in mezzo a scatole di viveri, sacchi a pelo e impermeabili. Ho indosso un pullover a strisce azzurre, di mio fratello, e un paio di logori pantaloni di velluto. Grace e Carol, con la gonna, sono sotto gli alberi di melo, agitano la mano, scompaiono. Loro devono andare ancora a scuola, io no. Le invidio. Già mi sento avvolgere dall’odore di catrame e di gomma del viaggio, ma non mi fa piacere. Mi stanno strappando via dalla mia nuova vita, una vita da ragazze.
Mi siedo davanti a un panorama familiare: le nuche, le orecchie e più avanti la mezzeria bianca della strada. Viaggiamo in mezzo ai campi erbosi delle fattorie con i silos, gli olmi e l’odore di fieno tagliato. Le latifoglie diventano più piccole; ora sono più numerose le conifere, l’aria si raffredda, il cielo si fa di un azzurro più gelido: ci stiamo allontanando dalla primavera. Incontriamo le prime catene montuose di granito, i primi laghi, la neve tra le ombre. Sono seduta in avanti, le braccia appoggiate sul dorso del sedile anteriore. Mi sento come un cane, le orecchie tese e le narici dilatate.
Il nord ha un odore diverso da quello della città: è più nitido, più sottile. Si riesce a vedere più lontano. Una segheria, un mucchio di segatura, la forma a tenda di un inceneritore di segatura, i fumaioli delle fonderie di rame, le rocce tutt’intorno, spoglie di alberi come se fossero state bruciate, i mucchi di scorie annerite: tutte cose che durante l’inverno avevo dimenticato ma ora ritrovo, e quando le vedo le ricordo, le riconosco, le accolgo come se fossero casa mia.
La gente se ne sta agli angoli delle strade, davanti ai magazzini generali, alle piccole banche, alle birrerie con le pareti coperte da lastre di asfalto grigio. Gli uomini affondano le mani nelle tasche delle giacche a vento; alcuni hanno facce scure da indiani, altri sono soltanto abbronzati. Camminano diversamente da quelli del Sud; sono più lenti, più ponderati; parlano poco e le loro parole sono scandite. Mentre parla con loro, mio padre fa tintinnare in tasca chiavi e monete. Parlano del livello dell’acqua, della siccità della foresta, del pesce che abbocca, che «morde», come dice lui. Ritorna in auto con una busta di carta piena di viveri e la sistema dietro ai miei piedi.
Mio fratello e io siamo in fondo alla sgangherata banchina di un lungo lago azzurro e frastagliato. È sera: il tramonto ha un colore da melone, le strolaghe chiamano in lontananza, una nota trascinata in crescendo che assomiglia a quella dei lupi. Stiamo pescando. Ci sono zanzare ma ormai sono abituata, e quasi non mi curo di scacciarle. Peschiamo senza parlare: il lancio, il lieve tonfo dell’esca, il rumore del mulinello. Teniamo d’occhio l’esca per vedere se qualcosa la sta seguendo. Se è un pesce faremo del nostro meglio per metterlo in rete, per poi tenerlo fermo con i piedi, colpirlo sulla testa con un bastone, infilargli un coltello dietro agli occhi. Sono io che lo tengo fermo con i piedi; mio fratello ha il compito di bastonarlo e di finirlo con il coltello. Sebbene rimanga in silenzio è teso, attento, gli angoli della bocca tirati. Mi domando se i miei occhi scintillano come i suoi, come quelli di qualche animale nel colore rosato del crepuscolo.
Viviamo in un accampamento abbandonato di taglialegna. Dormiamo sui nostri materassini gonfiabili, dentro ai sacchi a pelo, sulle cuccette di legno in cui dormivano i taglialegna. Questo accampamento ha già un’aria molto vecchia, anche se è stato abbandonato soltanto due anni fa. Alcuni taglialegna hanno lasciato delle scritte, i loro nomi, le iniziali, cuori intrecciati, parolacce e immagini volgari di donne, incise o disegnate a matita sul legno delle pareti di assi. Trovo una vecchia lattina di sciroppo d’acero con il coperchio arrugginito ancora chiuso, ma quando Stephen e io la apriamo lo sciroppo risulta ammuffito. Questa lattina di sciroppo mi appare come un antico manufatto, qualcosa portato alla luce da una tomba.
Ci aggiriamo tra gli alberi in cerca di ossa, di cumuli di terriccio che possano rivelare scavi, perimetri di costruzioni, e rovesciamo ceppi d’albero e rocce per vedere che cosa c’è sotto. Ci piacerebbe scoprire una civiltà scomparsa. Troviamo un maggiolino, molte radici piccole, gialle e bianche, un rospo. Di umano niente.
Mio padre si è tolto gli abiti da città; è ritornato se stesso. Indossa ancora la vecchia giacca, i calzoni sformati, il cappello di feltro schiacciato con su infilate le mosche per la pesca. Cammina tra i boschi col passo pesante dei suoi stivali, allacciati e unti col lardo, l’ascia dentro una guaina di pelle e noi nella scia. C’è stata un’infestazione di bruchi delle foreste, la più grande da anni, ed è questo che lo eccita, che fa scintillare i suoi occhi di gnomo come punti grigiozzurri. Nei boschi i bruchi sono ovunque, rigati e setolosi: penzolano dai rami appesi a fili di seta, formando una cortina sospesa che si deve spazzar via, scorrono sul terreno come un tappeto vivente, attraversano le strade trasformandosi in viscida poltiglia sotto i pneumatici dei camion dei taglialegna. Tutt’intorno gli alberi sono spogli, come se fossero stati bruciati, il tronco rivestito di tela.
«Ricordatevelo» dice nostro padre. «Questa è una classica infestazione. Ci vorrà un bel po’ prima che ne vediate un’altra del genere.» È così che ho sentito parlare degli incendi, delle foreste o della guerra: con rispetto e stupore, mescolati a un senso di catastrofe.
Mio fratello rimane fermo, lascia che i bruchi gli salgano sui piedi e scendano dall’altra parte, come un’onda. «Quand’eri bambino ti ho sorpreso che cercavi di mangiarteli» ricorda la mamma. «Ne avevi una mano piena e li spiaccicavi tutt’intorno. Ti ho fermato che stavi per cacciarteli in bocca.»
«Sotto certi aspetti, si tratta come di un unico animale» dice mio padre. Seduto a un tavolo di assi lasciato lì dai taglialegna, sta mangiando carne in scatola e patate fritte. Per tutto il pasto continua a parlare dei bruchi: del loro numero, della loro ingegnosità, dei vari metodi per sconfiggerli. È uno sbaglio irrorarli con DDT e altri insetticidi; ci spiega che serve soltanto ad avvelenare gli uccelli, loro nemici naturali, mentre i bruchi, che sono insetti e quindi sono ingegnosi, più ingegnosi degli uomini in realtà, svilupperanno una capacità di resistenza a queste sostanze, così non si otterrà altro che uno sterminio di uccelli e un numero ancora maggiore di bruchi. Lui sta studiando qualcos’altro: un ormone della crescita che sconvolgerà il loro metabolismo e li farà diventare crisalidi prima del tempo, provocando un invecchiamento prematuro. Ma alla fine, se lui fosse uno scommettitore i soldi li punterebbe sugli insetti, perché sono più vecchi degli uomini, hanno maggiore esperienza a sopravvivere, e sono molto più numerosi di noi. In ogni caso noi, considerando la bomba atomica e il modo in cui vanno le cose, probabilmente salteremo tutti in aria prima della fine del secolo. Il futuro appartiene agli insetti.
«Scarafaggi» dice mio padre, «ecco cosa rimarrà, quando l’avranno finita.» Lo dice allegramente, infilzando una patata.
Io me ne sto lì seduta a mangiare carne in scatola e a bere latte in polvere. Quello che mi piace di più sono i grumi che galleggiano in superficie. Sto pensando a Carol e a Grace, le mie migliori amiche. Ma nello stesso tempo non riesco a ricordare che faccia hanno. Sono davvero mai stata seduta sul pavimento della camera da letto di Grace, sul tappetino intrecciato accanto al suo letto a ritagliare fotografie di padelle e di lavatrici dal ‘Catalogo Eaton’ per incollarle poi su un album di ritagli? Già mi sembra improbabile, eppure so che lo facevo.
Dietro all’accampamento c’è un enorme campo dove gli alberi sono stati tagliati. Rimangono soltanto le radici e i ceppi in mezzo a una distesa di sabbia. Sono cresciuti i cespugli di more, come dopo un incendio: prima i rovi, poi le more. Raccogliamo le more dentro lattine che nostra madre ci paga un cent l’una. Prepara budini di more, marmellata di more, more sottovetro, facendole bollire in un pentolone su un fuoco all’aperto.
Il sole ora picchia, la calura sale a ondate dalla sabbia. Ho in testa un fazzoletto di cotone, piegato a triangolo e legato dietro alle orecchie, che sul davanti è madido di sudore. Intorno a noi si ode il ronzio deg!i insetti ma io mi sforzo di ascoltare oltre, i rumori degli orsi. Non so bene che rumore facciano gli orsi, ma so che amano le more e che sono imprevedibili. Possono scappare via oppure inseguirci. In questo caso, ci si deve distendere a terra e fingere morti, così dice mio fratello. Può darsi che se ne vadano, spiega, oppure che ci mangino le viscere. Ho già visto le viscere dei pesci e posso immaginarmelo. Mio fratello ha trovato una cacca d’orso, blu e maculata, simile a quella umana, e la tocca con un bastone per vedere se è fresca.
Di pomeriggio, quando fa troppo caldo per raccogliere more, andiamo a nuotare nel lago, nella stessa acqua da cui escono i pesci. Non ho il permesso di arrivare dove non tocco con i piedi. L’acqua è gelida, limacciosa, e dove finisce la sabbia ed è più profonda si trovano vecchie rocce coperte di alghe, ceppi di legno affondati, granchi, sanguisughe, enormi lucci con mandibole irte di denti. Stephen dice che i pesci sanno fiutare, sentono il nostro odore e si tengono alla larga.
Siamo seduti sulla riva, sulle rocce che affiorano nella piccola spiaggia, e gettiamo pezzi di pane in acqua per vedere cosa riusciamo ad attirare: pesciolini, qualche piccolo persico. Cerchiamo ciottoli piatti e li facciamo rimbalzare sull’acqua, oppure ci esercitiamo a ruttare a volontà, appoggiamo la bocca all’interno del gomito e soffiamo per fare rumore di scoregge, oppure ci riempiamo la bocca d’acqua e vediamo chi riesce a sputare più lontano. In queste gare non sono mai io che vinco, più che altro faccio da pubblico, ma mio fratello non si vanta, e probabilmente farebbe le stesse cose da solo anche se io non ci fossi.
Talvolta scrive con la pipì sulla sottile striscia di sabbia oppure sulla superficie dell’acqua. Lo fa con metodo, come se farlo bene fosse importante, e la pipì s’inarca delicatamente davanti ai calzoncini da bagno, uscendo dalla sua mano con un dito in più in una scrittura angolare, simile alla sua vera grafia, che termina sempre con un punto. Non scrive né il suo nome né parolacce, come fanno altri ragazzi e come vedo scritto sui mucchi di neve. Scrive invece ‘Marte’, oppure, se se la sente, qualcosa di più lungo come ‘Venere’. Alla fine dell’estate, con la pipì ha scritto tre volte tutto il sistema solare.
È la metà di settembre; le foglie stanno già diventando rosso scuro, giallo acceso. La notte, quando vado al gabinetto di fuori, al buio e senza lampada perché così riesco a vedere meglio, le stelle sono nitide e cristalline e l’alito mi precede. Vedo i miei genitori attraverso la finestra, seduti accanto alla lampada a cherosene, che mi appaiono come un remoto ritratto in una cornice di nero. È inquietante guardarli attraverso la finestra e sapere che non sanno che io posso vederli. È come se non esistessi, o come se non esistessero loro.
Quando ritorniamo dal nord è come scendere da una montagna. Attraverso strati di limpidezza, di fresco, di luce incontrastata, oltrepassiamo gli ultimi spuntoni di granito, l’ultimo laghetto frastagliato, giù nell’aria più densa, nell’umidità, nella calura pesante, tra il rumore dei grilli e l’odore d’erba dei prati del sud.
Arriviamo a casa nostra nel pomeriggio. Mi sembra strana, diversa, come incantata. Tutt’intorno sono cresciuti dal fango cardi e verghe d’oro, una specie di siepe spinosa. L’enorme buca e la collinetta di terra accanto a casa sono scomparse e al loro posto è sorta una nuova casa. Come è accaduto? Non mi aspettavo questi cambiamenti.
Grace e Carol sono lì tra gli alberi di melo, proprio dove le avevo lasciate. Ma non sembrano le stesse, non assomigliano affatto al ritratto che mi sono portata in testa negli ultimi quattro mesi, mutevoli immagini di cui affiorano soltanto alcuni tratti. Innanzi tutto sono più grandi, e poi hanno indosso vestiti diversi.
Non mi corrono incontro, ma interrompono ciò che stanno facendo e rimangono a guardare come se fossimo gente nuova, come se io qui non avessi mai vissuto. C’è con loro una terza bambina. La guardo senza alcuna premonizione. Non l’ho mai vista prima.