Cammino per Queen Street, oltre le bancarelle dei fumetti usati, davanti alle vetrine piene di uova di cristallo, di conchiglie, di tanti funerei abiti neri. Vorrei essere ancora a Vancouver, davanti al caminetto con Ben a guardare sul porto, mentre i lumaconi giganti masticano il verde del nostro giardino sul retro. Caminetti, giardini: non li immaginavo nemmeno, una volta, quando venivo qui a far visita a Jon, sopra il magazzino all’ingrosso di valigie. Oltre l’angolo c’era la Taverna della Foglia d’acero e lì nell’oscurità bevevo birra alla spina, a due semafori di distanza dalla scuola d’arte in cui disegnavo donne nude e mi consumavo il cuore. I tram sferragliavano sotto le finestre. Ce ne sono ancora.
«Non ho voglia di andare» ho detto a Ben.
«Non è necessario che tu vada» mi ha risposto. «Disdici. Vieni giù in Messico.»
«Ma hanno fatto tutta questa fatica» ho ribattuto. «Non lo sai com’è difficile organizzare la retrospettiva di una donna?»
«Ma è così importante?» ha replicato lui. «Tu vendi comunque.»
«Devo andare» ho insistito. «Non sarebbe giusto.» Sono stata educata a dire ‘grazie’ e ‘prego’.
«E va bene» ha detto. «Sai tu cosa fare.» E mi ha abbracciata.
Vorrei che fosse così.
Ecco Sub-Versions, tra un ristorante e un negozio per tatuaggi. Tutti e due scompariranno, col tempo: quando arrivano i posti come Sub-Versions, il messaggio diventa chiaro.
Apro la porta ed entro in quella sensazione di sprofondamento che provo sempre nelle gallerie. È l’effetto dei tappeti, il silenzio ovattato, l’aria sacrale del tutto: le gallerie d’arte assomigliano troppo alle chiese, sono permeate da un eccesso di devozione, si ha la sensazione di doversi genuflettere. E non mi piace che i quadri finiscano qui, su queste pareti dai colori neutri e con l’illuminazione diffusa, sterilizzati, resi rassicuranti e accettabili. È come se qualcuno avesse spruzzato i dipinti con il deodorante per ammazzare l’odore. L’odore di sangue sulla parete.
Questa galleria non è del tutto sterilizzata: si vede qualche tocco anomalo, una tubatura del riscaldamento, una parete nera. Non guardo nemmeno le cose ancora appese alle pareti: detesto questi verdi sporchi e questi arancioni putridi del neo-espressionismo, post questo e post quello. Tutto è post, di questi tempi, come se fossimo tutti soltanto un’appendice di qualcosa di precedente, di abbastanza reale da meritarsi un nome.
Parecchi miei quadri sono stati sballati e ora sono appoggiati alle pareti. Sono stati rintracciati, richiesti e prelevati dai loro proprietari. Chiunque li possieda non sono io, per mia sfortuna, perché ora ne otterrei un prezzo migliore. I nomi dei proprietari saranno scritti su cartoncini bianchi accanto al dipinto, insieme col mio nome, come se la proprietà fosse pari alla creatività. Ed è proprio così che la pensano.
Se mi tagliassi un orecchio il mio valore di mercato salirebbe? Meglio ancora se infilassi la testa nel forno, se mi facessi saltare le cervella. Ciò che i ricchi collezionisti d’arte amano acquistare, tra le altre cose, è un po’ della follia altrui.
Qui davanti vedo un pezzo che ho dipinto vent’anni fa: è la signora Smeath, efficacemente resa in tempera all’uovo, con la sua crocchia di capelli grigi, la faccia da patata e gli occhiali: indosso ha il grembiule a fiori con la pettorina e un unico seno. È reclina sul divano di velluto e sta ascendendo a un cielo pieno di piante di ficus, tra le quali galleggia una luna a forma di centrino di merletto. Si intitola Pianta di ficus: l’ascensione. Gli angeli intorno a lei sono adesivi di Natale degli anni Quaranta, immacolate fanciulle vestite in bianco con i capelli ricci e sciolti. La parola ‘Cielo’ è composta in cima al dipinto con uno stampino da scuola. A quel tempo mi sembrava un’idea geniale.
Non ho preso quasi niente per quel pezzo, mi sembra di ricordare. Ma non a causa dello stampino.
Non mi soffermo a lungo davanti a questo quadro, né davanti agli altri. Se li guardo troppo a lungo, finirò col trovarvi qualcosa di sbagliato. Vorrei farli a brandelli con un coltello multilame, darli alle fiamme, sgombrare le pareti. Ricominciare daccapo.
Una donna viene verso di me da dietro, capelli biondi con un taglio da porcospino, una tuta color porpora e un paio di stivali verdi di pelle. Mi accorgo immediatamente che non avrei dovuto mettermi questa tuta da jogging color grigiazzurro. Il grigiazzurro è troppo frivolo. Avrei dovuto vestirmi di nero da suora o da Dracula, come tutte le vere pittrici. Invece di darmi questo velo di Rose Perfection avrei dovuto usare un rossetto da vampiro color sangue coagulato. Mi avrebbe fatto davvero assomigliare a Haggis McBaggis. Alla mia età la carnagione non sopporta questi rossi gelatinosi, sembrerebbe tutta bianca e grinzosa.
Dunque difenderò la tuta da jogging, farò finta di averla indossata apposta. Potrebbe essere qualcosa di iconoclasta, come possono saperlo gli altri? Una tuta da jogging color azzurro polvere è priva di pretese. Il vantaggio di essere fuori moda è che non si è mai nemmeno di moda, e perciò non può esserci modello dell’anno prima. Questa è la mia scusante anche nella pittura, o comunque lo è stata per anni.
«Salve!» dice la donna. «Tu devi essere Elaine! Ma non assomigli molto alla tua fotografia...» Che cosa intende dire, penso: meglio o peggio? «Abbiamo parlato molto al telefono. Io mi chiamo Charna.» A Toronto una volta non esistevano nomi come Charna. La mia mano si rattrappisce, questa donna ha una decina di pesanti anelli d’argento alle dita, come un tirapugni. «Stavamo giusto parlando della disposizione dei quadri.» Ci sono altre due donne, e tutt’e due sembrano dieci volte più artistiche di me. Hanno orecchini e acconciature d’arte astratta. Comincio a sentirmi una poveretta.
Hanno portato piatti pronti di gastronomia, panini con avocado e qualche cappuccino, e mentre mangiamo e beviamo parliamo della disposizione dei quadri. Mi dichiaro a favore di un ordine cronologico ma Charna ha altre idee, preferisce che i quadri siano raggruppati per tonalità, in modo che abbiano maggiore rilievo e si mettano in risalto l’un l’altro. Mi innervosisco, questo tipo di discorsi mi fa rabbrividire. Metto a tacere l’istinto e resisto all’impulso di dire che ho mal di testa e che voglio tornare a casa. Dovrei essere riconoscente, queste donne sono dalla mia parte, hanno progettato tutto questo per me, mi stanno facendo un piacere, apprezzano ciò che faccio; eppure io mi sento esclusa, come se rappresentassero una specie di cui non faccio parte.
Jon ritornerà domani da Los Angeles e dal suo massacro con la sega circolare. Non vedo l’ora. Aggireremo sua moglie, andremo insieme a colazione e ci sentiremo tutti e due come ladri. Eppure è soltanto una cosa civile andare a pranzo con l’ex marito, come vecchi amici; un bel seguito a tutto quel vasellame fracassato e alle scenate. Ci conosciamo bene fin dall’anno zero, e alla mia età, alla nostra età, la cosa sta diventando importante. E dal mio punto di vista Jon sembra un sollievo.
Entra qualcun altro, una donna. «Andrea!» esclama Charna, andandole incontro. «Sei in ritardo!» Bacia Andrea sulla guancia e l’accompagna verso di me, tenendola sotto braccio. «Andrea vuole scrivere un pezzo su di te» mi spiega. «Per l’inaugurazione.»
«Non mi era stato detto» osservo. Sono in trappola.
«È stata un’idea dell’ultimo minuto» replica Charna. «Una vera fortuna per noi! Vi lascerò nella stanza qui dietro, d’accordo? Vi porterò un po’ di caffè. Devi darle la dritta, come si dice» soggiunge, rivolta a me, con un sorriso ammiccante. Mi lascio accompagnare giù per il corridoio. Le donne come Charna riescono ancora a comandarmi.
«Pensavo che lei fosse diversa» mi dice Andrea quando ci accomodiamo.
«Diversa come?» le domando.
«Più grande» mi risponde.
Le sorrido. «Sono più grande.»
Andrea esamina la mia tuta da jogging color azzurro polvere. Lei è vestita di nero, un nero lucido, approvato, non un residuato dei primi anni Sessanta come sarebbe il mio. Ha capelli rossi sfacciatamente tinti e tagliati in una foggia simile a una ghianda. È scandalosamente giovane, non mi sembra più vecchia di un’adolescente, anche se so che deve aver passato la ventina. Probabilmente mi vede come una stramba ciabattona di mezz’età, qualcosa di simile alla sua insegnante delle superiori. Probabilmente ha intenzione di mettermi in difficoltà. Probabilmente ci riuscirà.
Ci sediamo una di fronte all’altra alla scrivania di Charna, poi Andrea posa la macchina fotografica e si mette ad armeggiare con il registratore. Andrea scrive per un quotidiano, «per la sezione Stili di Vita» mi precisa. Lo so cos’è, una volta la chiamavano ‘pagina delle donne’. È curioso che ora la chiamino ‘vita’, come se soltanto le donne fossero vive e tutto il resto, per esempio la pagina sportiva, fosse per i morti.
«La sezione stili di vita, eh?» replico. «Be’, ho due figlie, cucino pasticcini al forno.» È tutto vero. Andrea mi lancia un’occhiataccia e accende il registratore.
«Come si trova alle prese con la celebrità?» mi domanda.
«Questa non è celebrità» rispondo. «La celebrità è la scollatura di Elizabeth Taylor. Questa roba è soltanto un foruncolo per i mass-media.»
Lei sorride. «Be’, magari potrebbe parlare della sua generazione artistica, delle donne artiste intendo dire, delle sue aspirazioni, dei suoi obiettivi...»
«Delle pittrici, intende dire» la correggo. «Quale generazione?»
«Quella degli anni Settanta, immagino» risponde. «E stato allora che le donne... che lei ha iniziato a richiamare l’attenzione.»
«Gli anni Settanta non sono la mia generazione» le dico.
Sorride. «Be’, qual è allora?»
«Gli anni Quaranta.»
«Quaranta?» Questa è archeologia, per quanto la riguarda. «Ma non può avere...»
«Era allora che crescevo» le faccio presente.
«Ah, capisco» dice. «Lei intende dire che è stato il periodo formativo. Può parlarmi di allora, di come si riflette nel suo lavoro?»
«Nei colori» rispondo. «Molti dei miei colori sono colori degli anni Quaranta.» Mi sto ammorbidendo. Quanto meno, non è una di quelle che ripetono sempre ‘cioè’ e ‘capito’. «La guerra. Ci sono persone che ricordano la guerra e persone che non la ricordano. È questa la discriminante, la differenza.»
«Intende dire la guerra nel Vietnam?» domanda.
«No» rispondo freddamente. «La seconda guerra mondiale.» Sembra un po’ spaventata, come se fossi risorta dal regno dei morti, e nemmeno completamente. Non sapeva che fossi così vecchia. «E allora» domanda, «qual è la differenza?»
«Possiamo concentrare a lungo la nostra attenzione» rispondo. «Mangiamo tutto quello che abbiamo nel piatto. Risparmiamo lo spago. Ci arrangiamo.»
Sembra sconcertata. È tutto quello che intendo dire sugli anni Quaranta. Sto cominciando a sudare, mi sento come dal dentista, la bocca straziatamente aperta mentre uno sconosciuto con una lampadina e uno specchio mi scruta giù nella gola qualcosa che non posso vedere.
Cambia disinvolta il discorso sulla guerra per ritornare a quello sulle donne, quello che inizialmente voleva fare. È più difficile per una donna, sono stata discriminata, sottovalutata? E in quanto ai figli? Le do risposte evasive: tutti i pittori si sentono sottovalutati, si può lavorare quando i figli sono a scuola, mio marito è stato bravissimo, mi ha dato molto aiuto, anche economico. Non dico quale marito.
«Quindi lei non si sente sminuita per essere stata aiutata da un uomo?» domanda.
«Le donne hanno sempre aiutato gli uomini» rispondo. «Che cosa c’è di male se qualche volta succede il contrario?»
Quello che le dico non è esattamente ciò che vuole ascoltare. Preferirebbe sentirmi parlare di umiliazioni subite, anche se è improbabile che parli di sue esperienze personali analoghe perché è troppo giovane. Eppure le persone della mia età dovrebbero avere episodi di umiliazione da raccontare, se non di offese e di mortificazioni: insegnanti d’arte che ti pizzicano il sedere, che ti chiamano ‘baby’, che ti chiedono perché non sono esistite grandi pittrici donne, cose di questo genere. Vorrebbe che fossi indignata, e anche eccentrica.
«Non ha avuto donne come mentori?» domanda.
«Donne... come?»
«Come insegnanti, o altre pittrici che ha ammirato?»
«Non si dovrebbero chiamare mentrici?» replico acidamente. «No, non ne ho avute. Il mio insegnante era un uomo.»
«Chi era?» domanda.
«Josef Hrbik. Era molto gentile con me» aggiungo subito dopo. Un personaggio che le darebbe l’imbeccata giusta, ma da me non saprà altro. «Mi ha insegnato a disegnare i nudi femminili.»
Rimane un po’ perplessa. «Be’, che cosa mi dice... del femminismo?» domanda. «Molti la definiscono una pittrice femminista.»
«Davvero?» replico. «Detesto i ruoli, detesto i ghetti. In ogni caso, io sono troppo vecchia per averlo inventato e lei è troppo giovane per averlo capito, quindi a che serve parlarne?»
«Allora questa per lei non è una classificazione significativa?» domanda ancora.
«Mi piace che le donne apprezzino il mio lavoro. Perché dovrebbe essere il contrario?»
«E gli uomini apprezzano il suo lavoro?» domanda astutamente. Deve essere andata a scavare in qualche vecchio archivio, deve aver letto qualche storia sulle streghe che incantano gli uomini succubi.
«Quali uomini?» domando. «Non tutti apprezzano il mio lavoro. Non è perché sono una donna. Se il lavoro di un uomo non è apprezzato, non è perché è un uomo. Non lo apprezzano e basta.» Sono su un terreno infido e mi sento a disagio. La mia voce è pacata, ma il caffè mi ribolle dentro.
Lei aggrotta la fronte, giocherella col registratore. «Perché dipinge tutte queste donne, allora?»
«Che cosa dovrei dipingere, gli uomini?» replico. «Io sono una pittrice. E i pittori dipingono le donne. Rubens dipingeva donne, Renoir dipingeva donne, Picasso dipingeva donne. C’è qualcosa di male a dipingere donne?»
«Ma non in quel modo» replica lei.
«In quale modo?» domando. «In ogni caso, perché le mie donne dovrebbero essere uguali alle donne di un altro?» Mi sorprendo a strapparmi le pellicine delle unghie e mi interrompo. Tra qualche minuto i miei denti batteranno come quelli di un topo preso in trappola. La sua voce si fa sempre più lontana, non riesco quasi a udirla. Però la vedo, e molto chiaramente: i rilievi a costa sul collo del golf, la peluria lieve sulla guancia, lo scintillio di un bottone. Quello che sento è ciò che lei non dice: ‘Il tuo abbigliamento è stupido’, ‘La tua arte è una merda’, ‘Stai seduta diritta e non rispondere’.
«Perché dipinge?» mi domanda, e ora posso udirla ancora distintamente come non mai. Sento la sua esasperazione verso di me e verso i miei rifiuti.
«Perché qualcuno fa qualcosa?» le chiedo di rimando.