Ma tutto ciò non è incessante.
Certi giorni Cordelia decide che tocca a Carol essere migliorata, e allora vengo invitata ad accompagnare Grace e Cordelia che ritornano a casa da scuola, seguite da Carol, e a pensare a tutto ciò che ha fatto di sbagliato. «Carol è una presuntuosa» dice Cordelia. In questi momenti non ho nessuna pietà per Carol. Si merita ciò che le capita per tutte le volte che ha fatto a me le stesse cose. Sono felice quando tocca a lei e non a me.
Ma questi momenti non durano a lungo. Carol piange troppo facilmente e rumorosamente, si fa trasportare dal pianto. Richiama l’attenzione e non possiamo essere sicure che non parlerà. C’è in lei qualcosa di imprevedibile, può essere spinta chissà dove, ha un senso dell’onore fragile, è affidabile soltanto come informatrice. E se tutto ciò mi sembra evidente, dev’esserlo ancora di più per Cordelia.
Altre giornate sembrano normali. Cordelia pare essersi dimenticata il suo compito di migliorare gli altri, e allora penso che forse ha rinunciato. Loro si aspettano che mi comporti come se niente fosse successo ma mi è difficile, perché mi sento sempre osservata. In qualsiasi momento posso inciampare in qualche ostacolo di cui ignoro perfino l’esistenza.
L’anno scorso non ero quasi mai in casa da sola, dopo la scuola o durante i weekend. Ora voglio stare sola e invento scuse per non andare a giocare. Lo chiamo ancora ‘giocare’.
«Devo aiutare mia madre» dico, il che può essere verosimile. Le ragazze aiutano davvero le madri, a volte, e in particolare Grace che deve farlo spesso. Ma nel mio caso è meno vero di quanto vorrei. Mia madre non perde molto tempo con i lavori di casa, preferisce uscire a rastrellare foglie in autunno, a spalare neve in inverno, a strappare erbacce in primavera. Quando la aiuto le faccio perdere tempo. Però mi aggiro per la cucina chiedendole: «Posso aiutarti?» finché lei mi dà uno spolverino e mi fa spolverare le gambe scolpite del tavolo da pranzo oppure i bordi delle librerie; taglio i datteri, sguscio le noci, ungo le teglie del forno con un pezzo di carta paraffinata o risciacquo il bucato.
Mi piace risciacquare il bucato. Il locale della lavanderia è piccolo e racchiuso, segreto, sotterraneo. Sui ripiani sono posati pacchi di strane e potenti sostanze: amido per biancheria in forme contorte, simili a escrementi d’uccello, che tingono di blu per fare diventare il bianco ancora più bianco, sapone Sole in scaglie, candeggina Javex con il teschio e le tibie incrociate, odorosa di igiene e di morte.
La lavatrice è un tubolare di smalto bianco, una carcassa su quattro zampe malferme. Danza lentamente sul pavimento, tutun, tu-tun, gli abiti e l’acqua saponata si agitano ribollendo pigramente come un porridge di indumenti. Sto lì a guardare con le mani posate sul bordo del tubolare, il mento sulle mani, il corpo che da questo punto d’appoggio si trascina verso il basso, senza pensare a niente. L’acqua diventa grigia e mi sento virtuosa per tutto questo sporco che viene lavato; è come se facessi tutto io per il semplice fatto di guardare.
Il mio compito è di passare i panni lavati attraverso il torchio dentro il lavandino pieno d’acqua pulita, poi in un altro lavandino per la seconda sciacquatura, e dopo nello scricchiolante cesto della biancheria. Poi mia madre porta fuori i panni e li appende sulla corda con le mollette di legno, e qualche volta lo faccio anch’io. Nel freddo i panni diventano rigidi come legno compensato. Un giorno, un ragazzino del vicinato raccoglie le cacche del cavallo che tira il carro del latte e le mette sul fondo delle lenzuola appena lavate e piegate in due. Tutte le lenzuola sono bianche, tutto il latte arriva con i cavalli.
Il torchio è composto da due rulli di gomma che hanno il colore della carne pallida e ruotano insieme strizzando i panni nel mezzo, mentre all’esterno l’acqua e il sapone ribollono come spremuta di frutta. Mi rimbocco le maniche e in punta di piedi frugo dentro il cestello per tirar fuori le mutande e i pigiami zuppi d’acqua, che al tatto sembrano qualcosa che, toccato meglio, si potrebbe rivelare una persona annegata. Infilo gli angoli dei panni tra i rulli del torchio, dove vengono inghiottiti e tirati dentro. Le braccia delle camicie si gonfiano dell’aria che rimane imprigionata, il sapone gocciola giù dai polsini. Mi è stato detto di stare molto attenta quando lo faccio, alle donne può capitare che restino le mani in mezzo ai rulli, oppure altre parti del corpo come i capelli. Penso a quello che succederebbe se la mia mano venisse presa lì dentro: il sangue e la carne schiacciati su per il braccio come una protuberanza semovente, la mano che esce dall’altra parte piatta come un guanto, bianca come carta. Sulle prime tutto ciò mi farebbe molto male, lo so bene, ma c’è qualcosa di affascinante. Un’intera persona potrebbe passare in mezzo al torchio e uscirne piatta, pulita, completa, come un fiore tra le pagine di un libro.
«Vieni a giocare?» mi domanda Cordelia mentre torniamo a casa da scuola.
«Devo aiutare mia madre» le rispondo.
«Ancora?» interviene Grace. «Come mai la aiuta così spesso? Una volta non lo faceva mai.» Quando c’è Cordelia Grace ha preso l’abitudine di parlare di me in terza persona, come fanno tra di loro gli adulti.
Penso di dire che mia madre è malata, ma gode evidentemente di ottima salute, e so che non mi crederebbero.
«Pensa di essere troppo brava per noi» dice Cordelia. E poi, rivolgendosi a me: «Pensi di essere troppo brava per noi?».
«No» le rispondo. È un male pensare di essere troppo bravi. «Be’, andremo a chiedere a tua madre se puoi venire a giocare» dice Cordelia, riprendendo il suo tono preoccupato e amichevole. «Non ti farà mica lavorare sempre. Non sarebbe giusto.»
E mia madre sorride e acconsente, come se le facesse piacere che io sia tanto richiesta; così vengo strappata alle teglie del forno e al torchio della lavatrice, cacciata fuori all’aria aperta.
La domenica vado nella chiesa con la cipolla in cima, stipata dentro l’auto degli Smeath con tutti gli Smeath, il signor Smeath, la signora Smeath, zia Mildred e le sorelle minori di Grace che in inverno perdono sempre dal naso un moccio giallo e verdastro. La signora Smeath sembra soddisfatta della situazione, ma soprattutto è soddisfatta di se stessa perché è riuscita nel suo intento, perché dà prova di carità cristiana. Non è particolarmente soddisfatta di me, lo si può vedere dalle sopracciglia che si aggrottano quando mi guarda, anche se sorride con le labbra chiuse, e dal fatto che continua a domandarmi se la prossima volta mi piacerebbe portare con me mio fratello o i miei genitori. Concentro lo sguardo sul suo petto, su quell’unico seno che scende fino alla cintola e sul suo cuore rosso cupo, macchiato di nero, che batte ansimando dentro e fuori, boccheggiando come un pesce sulla spiaggia, poi scuoto la testa con un senso di vergogna. L’incapacità di portare con me altri membri della mia famiglia non depone a mio favore.
Ho imparato a memoria i titoli di tutti i libri della Bibbia, nel loro ordine, e i dieci Comandamenti, il Padre Nostro e quasi tutte le Beatitudini. Ho imparato dieci quiz su dieci della Bibbia e i compiti a memoria, ma ora inizio a balbettare. Alla scuola domenicale dobbiamo alzarci in piedi e recitare a voce alta, davanti agli altri, e Grace mi osserva. Osserva tutto ciò che faccio, la domenica, poi riferisce puntualmente a Cordelia.
«Non stava diritta ieri, alla scuola domenicale.» Oppure: «Faceva la santerellina». Io ci credo, a tutti questi suoi commenti: mi si afflosciano le spalle, la spina dorsale si piega, trasudo una falsa aria di bontà, mi vedo trascinare i piedi ingobbita, mi sforzo di stare più eretta ma il mio corpo è irrigidito dall’ansia. Ed è vero che ho risposto ancora a dieci domande su dieci, e Grace soltanto a nove. È sbagliato avere ragione? E quanta ragione dovrei avere per essere perfetta? La settimana dopo do cinque risposte sbagliate, di proposito.
«Ha risposto soltanto a cinque domande su dieci della Bibbia» riferisce Grace il lunedì.
«Sta diventando sempre più stupida» commenta Cordelia. «Non sei così stupida. Devi sforzarti di più!»
Oggi è la domenica dei ‘regali bianchi’, e tutti hanno portato scatolette di cibi per i poveri, avvolte in cartavelina bianca. Io ho portato una zuppa di piselli e di carne in scatola. Temo che siano le cose sbagliate ma mia madre aveva questo, nella dispensa. L’idea dei ‘regali bianchi’ mi lascia perplessa: sono tutti regali solidi, tutti uguali, privati di identità e di colore. Sembrano cose morte. Dentro quegli anonimi, sinistri pacchetti di carta velina ammucchiati davanti alla chiesa, potrebbe esserci di tutto.
Grace e io siamo sedute sulle panche di legno nello scantinato della chiesa a osservare le diapositive illuminate sulla parete, cantando le parole delle canzoni, mentre il piano strimpella nel buio.
Gesù ci chiede di brillare
di pura, limpida luce,
come una candelina
che splende nella notte:
in questo mondo c’è il buio,
perciò dobbiamo brillare,
tu nel tuo angolino,
e io nel mio.
Anch’io voglio brillare come una candelina, voglio essere buona, seguire i precetti, fare ciò che Gesù ci chiede. Voglio credere che si ami il prossimo come se stessi e che il Regno di Dio sia dentro di noi. Ma tutto ciò sembra sempre meno possibile.
Nel buio riesco a vedere un barlume di luce al mio fianco. Non è una candelina, è la luce proiettata sulla parete e riflessa dagli occhiali di Grace. Lei conosce le parole a memoria e non deve guardare lo schermo. Sta guardando me.
Uscita dalla chiesa, attraverso con gli Smeath le strade deserte per andare a guardare i treni che vanno monotonamente avanti e indietro sui loro binari, nella grigia pianura lungo il lago piatto. Poi ritorno a casa loro per il pranzo domenicale. Tutto ciò accade ogni domenica, adesso, fa parte della funzione in chiesa, e sarebbe molto grave se dicessi di no a una o all’altra cosa.
Ho imparato come vanno le cose, qui. Salgo le scale, oltre la pianta di ficus che non devo toccare, entro nel bagno degli Smeath e conto quattro quadrati di carta, poi mi lavo le mani con il granuloso sapone nero degli Smeath. Ora non devo essere più richiamata, chino la testa automaticamente quando Grace dice: «Per tutto ciò che stiamo per ricevere possa il Signore renderci sinceramente grati. Amen».
«Maiale e fagioli, musica buona: più se ne mangia e più si suona» dice il signor Smeath, sogghignando alla tavolata. La signora Smeath e zia Mildred non lo trovano divertente. Le bambine lo guardano con severità. Hanno tutte e due gli occhiali, le lentiggini sulla pelle bianca e i fiocchetti della domenica in fondo alle ispide trecce castane, esattamente come Grace.
«Lloyd» dice la signora Smeath.
«Su, andiamo, non c’è niente di male» risponde il signor Smeath, e mi guarda negli occhi. «Elaine lo trova divertente, non è vero, Elaine?»
Sono in trappola. Che cosa posso dire? Se dico di no, potrei sembrare sgarbata. Se dico di sì, mi schiererei con lui, contro la signora Smeath, zia Mildred e tutte e tre le ragazze, compresa Grace. Mi sento diventare calda, poi fredda. Il signor Smeath mi sorride con aria di complicità.
«Non saprei» rispondo. Se fossi sincera risponderei di no, perché in realtà non capisco la battuta. Però non posso abbandonare completamente il signor Smeath. È un uomo grassoccio, calvo e flaccido, ma è comunque un uomo. E lui non mi giudica.
Grace riferisce l’episodio a Cordelia il mattino dopo sul bus della scuola, con una voce che è quasi un sussurro. «Ha detto che non sapeva.»
«Che risposta era?» mi domanda Cordelia bruscamente. «O pensavi che era divertente oppure no. Perché gli hai detto: ‘Non so’?».
Le dico la verità. «Perché non sapevo che cosa voleva dire.»
«Davvero non capisci che cosa vuole dire?»
«Musica buona» ripeto, «e più si suona.» Ora sono davvero imbarazzata, perché non capisco. E non capire è la cosa peggiore. Cordelia squittisce in una risata sprezzante. «Non capisci che cosa vuol dire?» ripete. «Che stupida! Vuole dire ‘scoreggiare’. I fagioli fanno scoreggiare, lo sanno tutti.»
Sono doppiamente mortificata, sia perché non ho capito sia perché il signor Smeath ha detto ‘scoreggiare’ al tavolo del pranzo domenicale, trascinandomi dalla sua parte, e io non ho detto no. Non è la parola in sé che mi fa vergognare. Ci sono abituata, mio fratello e i suoi amici la dicono sempre quando non ci sono adulti che ascoltano. È che la parola è stata pronunciata al tavolo da pranzo degli Smeath, la roccaforte della rettitudine.
Ma dentro di me non sono pentita. La mia solidarietà con il signor Smeath è la stessa che ho per mio fratello, tutti e due sono dalla parte degli occhi di bue, dello sporco dei piedi visto al microscopio, di ciò che è scandaloso, trasgressivo. Scandaloso per chi, sovversivo di che cosa? Per Grace e per la signora Smeath, per le compite signore di carta incollate sugli album. Anche Cordelia dovrebbe essere da questa parte, e a volte lo è, altre volte no. Difficile prevedere.