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Al mattino il latte è gelato e la panna è fuoriuscita in gelide colonnine granulose dal collo della bottiglia. La signorina Lumley si china sul mio banco, avvolta nell’alone deprimente dei suoi invisibili mutandoni blu marina. La pelle le pende ai lati del naso come le ganasce cascanti di un bulldog, e un grumo di saliva secca le compare all’angolo della bocca. «La tua grafia sta peggiorando» mi dice. Guardo avvilita la mia pagina scritta. Ha ragione: le lettere non sono più rotonde e belle ma filiformi, nervose, deturpate da macchie di inchiostro nero e arrugginito nei punti dove ho premuto troppo il pennino d’acciaio. «Devi impegnarti di più.» Stringo le dita sotto il banco. Penso che stia osservando le mie strisce di pelle mangiucchiata. Tutto ciò che dice lei, tutto ciò che faccio io, viene visto e udito da Carol, che in seguito riferirà.

 

Cordelia ha una recita a teatro e andiamo a vederla. È la prima volta che vado a teatro e dovrei essere emozionata. Invece sono piena di paura perché non so niente dell’etichetta del teatro e farò certamente qualcosa di sbagliato. La recita è all’Eaton’s Auditorium, il palcoscenico ha un sipario azzurro con strisce orizzontali di velluto nero. Poi il sipario si apre per mostrare Il vento tra i salici. Gli attori sono tutti bambini. Cordelia è vestita da donnola, ma poiché indossa un costume da donnola con una testa di donnola è impossibile distinguerla da tutte le altre donnole. Sono seduta sulla soffice poltrona del teatro e mi rosicchio le dita, allungo il collo per cercare di vederla. Sapere che è lì ma non sapere dove è la cosa peggiore. Potrebbe essere ovunque

 

La radio trasmette la musica zuccherosa di Bianco Natale e Rudolph, la renna col naso rosso, che dobbiamo cantare a scuola, in piedi davanti ai banchi e alla signorina Lumley che soffia nel piffero per dare il ‘la’ e batte il tempo col suo righello di legno, lo stesso che picchia sulle mani dei ragazzi quando sono irrequieti. Rudolph mi dà fastidio, c’è qualcosa di sbagliato in lui, ma nello stesso tempo mi fa sperare perché alla fine è amato da tutti. Mio padre dice che è una nauseante invenzione commerciale: «uno stupido e il suo gruzzolo si separano ben presto» commenta.

Ritagliamo campanelle rosse di carta piegando a metà la carta prima di tagliare la forma, e con lo stesso metodo facciamo i pupazzi di neve. È questa la formula della simmetria secondo la signorina Lumley: tutto dev’essere piegato, tutto ha due metà, una sinistra e una destra, che sono identiche.

Passo attraverso questi compiti delle vacanze come una sonnambula. Non mi interessano né le campanelle né i pupazzi di neve, e nemmeno Babbo Natale del resto, nel quale ho cessato di credere da quando Cordelia mi ha detto che in realtà sono i genitori. C’è una festa di Natale in classe, che consiste in pasticcini portati da casa e mangiati in silenzio ai nostri banchi, e in caramelle di gelatina di diversi colori offerte dalla signorina Lumley, cinque per ogni bambino. La signorina Lumley conosce le consuetudini e ad esse paga puntualmente il suo tributo.

Per Natale ricevo una bambola di Barbara Ann Scott, che avevo detto di desiderare. Ho dovuto dire di desiderare qualcosa, e in un certo senso desideravo questa bambola. Non ho mai avuto bambole a forma di ragazza. Barbara Ann Scott è una famosa pattinatrice, un personaggio molto conosciuto che ha vinto un sacco di premi. Ho visto le sue fotografie sul giornale.

La sua bambola ha piccoli pattini di pelle e un costume bordato di pelo, un costume rosa con il pelo bianco e occhi con ciglia che si aprono e si chiudono, ma non assomiglia per niente alla vera Barbara Ann Scott. Nelle fotografie sembra muscolosa, con cosce grosse, ma la bambola è sottile come uno stecco. Barbara è una donna, la bambola una ragazza. Ha il potere inquietante delle effigi, una vita senza vita che mi riempie di uno strisciante orrore. La rimetto nella sua scatola di cartone e tutt’intorno ci infilo dentro la carta velina, in modo da coprire la faccia. Dico che lo faccio per conservarla, ma in realtà non voglio che mi guardi.

Sopra il nostro divano è tirata una rete da volano che attraversa la parete come un festone, e nei buchi della rete i miei genitori hanno appeso le cartoline di Natale. Non conosco nessun altro che abbia una rete da volano appesa alla parete. L’albero di Natale di Cordelia non è come gli altri: è coperto di batuffoli di cotone e ha luci e decorazioni tutte azzurre. Ma lei può cavarsela bene per queste stranezze; io no. So che prima o poi dovrò scontare qualcosa per la rete del volano.

 

Siamo seduti intorno al tavolo per il pranzo di Natale. C’è anche uno studente di mio padre, un giovanotto indiano che è venuto qui a studiare gli insetti e non ha mai visto la neve. Lo abbiamo invitato al pranzo di Natale perché è straniero ed è lontano da casa, forse si sente solo e nel suo paese il Natale non ce l’hanno nemmeno. Tutto questo ci è stato spiegato in anticipo dalla mamma. È una persona educata, si sente a disagio e ridacchia spesso, guardando con un’espressione che mi sembra di terrore tutti i piatti di vivande disposti davanti a lui, il puré di patate, l’intingolo, l’insalata di gelatina Jell-o verde e rossa, l’enorme tacchino. Mia madre ha detto che da loro il cibo è diverso. Capisco che è infelice, sotto i suoi sorrisi e i modi garbati. Sto sviluppando un sesto senso per queste cose: ora posso annusare negli altri l’odore dell’infelicità dissimulata, e quasi senza sforzo.

Mio padre è seduto a capotavola, raggiante come il gigante buono delle fiabe. Solleva il bicchiere, e intanto i suoi occhietti da gnomo scintillano. «Al signor Banerji» esclama. I suoi studenti li chiama sempre così, ‘signore’ e ‘signorina’. «Non si può volare con un’ala sola.»

Il signor Banerji ridacchia e risponde: «Verissimo, signore», con quella sua voce che sembra uscita dal notiziario della BBC. Alza il bicchiere e beve un sorso. Nel suo bicchiere è stato versato vino, nei nostri mio fratello e io abbiamo succo di mirtilli. L’anno scorso ci saremmo forse legati insieme i lacci delle scarpe sotto il tavolo, in modo da lanciarci segnali nascosti con strappi e strattoni, ma ora siamo tutti e due al di sopra di queste cose, ognuno per motivi diversi.

Mio padre scodella il ripieno, divide le fette chiare e quelle scure, mentre mia madre aggiunge il purè di patate e la salsa di mirtilli, e intanto chiede al signor Banerji, scandendo bene le parole, se esistono tacchini nel suo paese. Lui risponde che gli pare di no. Seduta a tavola davanti a lui, con i piedi sospesi, lo scruto affascinata. I suoi polsi sottili spuntano dai polsini troppo larghi, le sue mani sono lunghe e affusolate, scarnificate intorno alle unghie come le mie. Penso che sia molto bello, con la sua pelle scura, i denti bianchi e smaglianti, gli occhi neri e sconcertati. C’è un bambino con questi colori, nel cerchio di bambini che appare in copertina sul giornale delle missioni, alla scuola domenicale, tra bambini gialli e marroni, tutti in costumi diversi, che danzano intorno a Gesù. Il signor Banerji non indossa un costume, ma semplicemente giacca e cravatta come tutti gli altri uomini. Però quasi non riesco a credere che sia un uomo, sembra così diverso. È una creatura più simile a me, estranea e apprensiva. Ha paura di noi, non sa cosa stiamo per fare, quali cose impossibili ci aspettiamo da lui, che cosa gli daremo da mangiare. Non è strano che si rosicchi le dita.

«Un pezzo dalla parte dello sterno, signore?» gli chiede mio padre, e il signor Banerji a queste parole si illumina.

«Ah, sì, lo sterno» risponde, e allora capisco che sono entrati nel comune mondo della biologia, che offre uno scampo dal mondo reale e imbarazzante delle buone maniere e dei silenzi in cui ci troviamo in questo momento. Mentre taglia la carne col coltello da scalco, mio padre mostra a tutti noi, ma in particolare al signor Banerji, le parti in cui sono attaccati i muscoli per il volo, usando il forchettone per indicarli. Naturalmente, soggiunge, il tacchino domestico ha perso la capacità di volare.

«Meleagris gallopavo» lo definisce, e il signor Banerji si china in avanti, richiamato dal latino. «Un animale col cervello come un pisello, da gallina si potrebbe dire, allevato per la sua capacità di acquistare peso, in particolare nelle cosce» soggiunge indicandole, «non certo per la sua intelligenza. I primi ad addomesticarlo sono stati i Maya.» Poi racconta la storia di un allevamento in cui i tacchini erano morti tutti perché, troppo stupidi per andare a ripararsi nel loro pollaio durante un temporale, erano rimasti fuori a guardare il cielo col becco spalancato, mentre la pioggia cadeva loro in gola e li annegava. Dice che è una storia dei contadini, probabilmente inventata, però la stupidità di questi animali è proverbiale. Racconta che i tacchini selvatici, un tempo numerosi nelle foreste decidue di queste regioni, sono molto più intelligenti e possono sfuggire anche ai cacciatori più esperti. Questi tacchini riescono anche a volare.

Sono lì seduta a piluccare il mio pranzo di Natale, mentre il signor Banerji pilucca il suo. Tutti e due abbiamo sparso sul piatto il purè di patate senza mangiarne molto. Le cose selvatiche sono più furbe di quelle addomesticate, questo è evidente. Sono sfuggenti, astute, e sanno badare a se stesse. Divido le persone che conosco tra quelle domestiche e quelle selvatiche. Mia madre è selvatica. Mio padre e mio fratello sono selvatici anche loro e così il signor Banerji, anche se in modo più mutevole. Carol è domestica, e anche Grace, seppure con qualche residuo nascosto di selvatico. Cordelia è selvatica pura e semplice.

«Non esistono limiti all’avidità umana» dice mio padre.

«Davvero, signore?» replica il signor Banerji, e mio padre prosegue raccontando di aver sentito che qualche criminale sta sperimentando la produzione di tacchini con quattro cosce, anziché con due cosce e due ali, perché le cosce contengono più carne.

«Come potrebbe camminare una simile creatura, signore?» domanda il signor Banerji, e mio padre risponde in tono d’approvazione: «Una domanda legittima». Racconta al signor Banerji che alcuni scienziati folli stanno tentando di produrre un pomodoro quadrato, più facile da inscatolare di quelli rotondi.

«Tutto il sapore andrebbe perduto, naturalmente» osserva. «Ma a loro non importa niente del sapore. Volevano allevare galline senza piume, pensando che avrebbero prodotto più uova con l’energia risparmiata dalla produzione di piume, ma questi animali avevano così freddo che si è dovuto raddoppiare il riscaldamento degli allevamenti, e alla fine il costo era molto superiore.»

«Si scherza con la natura, signore» commenta il signor Banerji. So già che questa è la risposta giusta: indagare sulla natura è una cosa, e anche difendersi da essa entro certi limiti, ma scherzarci è tutt’altro.

Il signor Banerji dice poi di aver saputo che è stato creato un gatto senza pelo, di averlo letto su una rivista, ma lui non ne capisce il significato. Quasi tutta qui la sua conversazione, almeno finora.

Mio fratello gli chiede se esistono serpenti velenosi in India, e il signor Banerji, che ora si sente molto più a suo agio, inizia a enumerarli. Mia madre sorride, perché il pranzo sta andando meglio di quanto pensasse. Anche i serpenti velenosi le vanno bene, persino al tavolo da pranzo, purché servano a rallegrare gli altri.

Mio padre ha mangiato tutto ciò che aveva nel piatto e ora sta scavando nelle cavità del tacchino, che a questo punto somiglia a un bambino fasciato senza testa. Ora che non è più camuffato da cibo, mi si rivela per quello che è: un grosso uccello morto. Sto mangiando un’ala, l’ala di un tacchino domestico, il più stupido uccello del mondo, così stupido che non sa più nemmeno volare. Sto mangiando un volo perduto.